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Sabato, 21 Marzo 2015 09:35

Il chicco di grano che muore e dà frutto

333Il contesto è quello della terza e ultima Pasqua vissuta da Gesù a Gerusalemme, quando ormai i sommi sacerdoti hanno preso la decisione di condannarlo a morte (cf. Gv 11,53), e dopo il suo ingresso messianico nella città santa acclamato da molta folla (cf. Gv 12,12-19). Come in occasione di ogni grande festa, erano saliti a Gerusalemme anche dei greci (héllenes), dei non ebrei, dunque dei pagani, i quali avevano certamente sentito parlare di Gesù, del suo carattere profetico, della sua autorevolezza nel rivolgersi alla gente. Gesù ha conosciuto un certo successo, che gli ha procurato fama, oltre che acerrimi nemici. Questo successo inquieta soprattutto gli uomini religiosi, impazienti di frenare ed estinguere il movimento nato dalla predicazione di Gesù. Costoro poco prima erano arrivati a dire: “Ecco, tutto il mondo gli va dietro!” (Gv 12,19), chiedendo dunque di fare qualcosa di definitivo riguardo a Gesù, di risolvere la questione una volta per tutte.

I pagani presenti a Gerusalemme, interessati a incontrare Gesù, avvicinano Filippo (il discepolo con un nome greco, proveniente da Betsaida di Galilea, città abitata da molti greci) e gli chiedono: “Vogliamo vedere Gesù”. Ciò però non è facile, perché incontrare dei pagani nella città santa, da parte di un rabbi, non è conforme alla Legge, non rispetta le regole di purità. Filippo, titubante, va a riferirlo ad Andrea, il discepolo più intimo di Gesù, il primo chiamato alla sequela secondo il quarto vangelo (cf. Gv 1,37-40); poi, insieme, i due decidono di presentare la richiesta a Gesù. Quest’ultimo, ascoltandoli, nella sua capacità di riflettere e di leggere gli avvenimenti percepisce che tale domanda è una profezia che riguarda i pagani: anche loro potranno essere suoi discepoli, credere in lui e fare parte della sua comunità.

La sua vita sta volgendo alla fine, la morte è decretata dalle legittime autorità della comunità religiosa, della sua “chiesa”, ma Gesù riesce a vedere oltre la morte, anzi riesce a vedere nella sua morte una fecondità inaudita: “È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato”. L’ora della morte in croce è l’ora della gloria, dell’epifania del suo amore vissuto all’estremo per gli uomini tutti (cf. Gv 13,1). Quell’ora di cui a Cana aveva detto alla madre: “La mia ora non è ancora giunta” (Gv 2,4), quell’ora che aveva annunciato come prossima e verso la quale andava con desiderio, quell’ora che era “la sua ora” (Gv 7,30; 8,20), finalmente è arrivata. Questa è l’ora decisiva, che inaugura un nuovo tempo per la fede, per l’adorazione di Dio (cf. Gv 4,21.23), per la salvezza dei morti e dei vivi (cf. Gv 5,25-29).

Per rivelarla, Gesù ricorre a una breve similitudine, pronunciata con grande autorità: “Amen, amen io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto”. Ecco la necessitas della passione e morte, della croce. La sua morte è una semina, nella quale il seme deve cadere a terra, essere sotterrato, morire come seme e dare origine a una nuova pianta che moltiplica i semi nella spiga. Così Gesù legge la propria morte e così ci rivela che anche per noi, uomini e donne alla sua sequela, diventa necessario morire, cadere a terra e anche scomparire per dare frutto. È una legge biologica, ma è anche il segno di ogni vicenda spirituale: la vera morte è la sterilità di chi non dà, di chi non spende la propria vita ma vuole conservarla gelosamente, mentre il dare la vita fino a morire è la via della vita abbondante, per noi e per gli altri. Il cristiano che vuole essere servo del Signore, che dice di amare il Signore, deve semplicemente accogliere questa morte, accettare questa caduta, abbracciare questo nascondimento. E allora non sarà solo, ma avrà Gesù accanto a sé, sarà preceduto da Gesù, che lo porterà dove egli è, cioè nel grembo di Dio, nella vita eterna.

Con questa fede, con questa convinzione Gesù, anche se turbato dalla morte imminente, sa dire “amen”, sa dire “sì” a quell’ora che è la sua. Per questo anche la preghiera di Gesù così espressa dai sinottici: “Abba! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice!” (Mc 14,36; cf. Mt 26,39; Lc 22,42), nel quarto vangelo diventa un grido di vittoria: “Per questo sono giunto a quest’ora” e un’invocazione: “Padre, glorifica il tuo Nome”. Ed ecco che, in risposta, scende su di lui dal cielo una voce, come promessa e sigillo: “L’ho glorificato e lo glorificherò presto!”. È la voce del Padre il quale conferma al Figlio Gesù che quell’ora della croce è l’ora della gloria. Per questo Gesù può esclamare: “Ora avviene il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo è gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra”, come il serpente innalzato da Mosè (cf. Nm 21,4-9; Gv 3,14), “attirerò tutti a me”.

Tutti, giudei e greci, tutti attirati da lui potranno vederlo, ma sulla croce, mentre dona la vita l’umanità intera. Questa la risposta di Gesù a chi vuole vederlo!

Commento al Vangelo di Enzo Bianchi 
Sabato, 28 Febbraio 2015 07:41

Ascoltate lui, il Figlio amato

330La seconda domenica di Quaresima è tradizionalmente la domenica della trasfigurazione di Gesù, ovvero il polo opposto alla prima, dedicata alle tentazioni di Gesù. Quest’anno leggiamo il racconto presente nel vangelo secondo Marco, e siccome abbiamo commentato ormai tantissime volte l’inesauribile mistero della trasfigurazione del Signore, ci prenderemo anche un po’ di libertà, per dire qualcosa su alcuni interventi critici riguardo al linguaggio e allo stile di papa Francesco.

Ma iniziamo con il contestualizzare l’evento: un evento storico, non un mito! Al centro del vangelo Gesù ha fatto per la prima volta alla sua comunità l’annuncio della sua passione, morte e resurrezione ormai prossime, suscitando l’incomprensione da parte di Pietro (cf. Mc 8,31-33), e ha anche detto con forza alla folla che la sequela deve passare attraverso la croce (cf. Mc 8,31-37). Il discepolo di Gesù non può pensare di essere esente dalla croce, non può rifiutarla come scandalo e vergogna, perché, se si vergognerà di Gesù crocifisso, anche il Figlio dell’uomo si vergognerà di lui alla sua venuta gloriosa (cf. Mc 8,38). Venuta gloriosa che chiuderà la storia, ma della quale – annuncia Gesù stesso – alcuni potranno vedere un’anticipazione (cf. Mc 9,1).

“Sei giorni dopo” queste parole, dunque nel settimo giorno, “Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni”, i discepoli a lui più vicini e intimi (testimoni della resurrezione della figlia di Giairo: cf. Mc 5,37; testimoni dell’agonia di Gesù, della sua de-figurazione nell’orto del Getsemani: cf. Mc 14,33), “e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli”. Ed ecco il grande mistero: Matteo scrive che “il suo volto brillò come il sole” (Mt 17,2), Luca che “l’aspetto del suo volto divenne altro” (Lc 9,29). Marco invece è molto discreto, ci dice solo che Gesù “fu trasfigurato (metemorphóte) davanti a loro”, per un’azione divina (espressa al passivo), e così “le sue vesti divennero splendenti, bianchissime, tanto che nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche”.

Ciò che è avvenuto è indicibile, chi può descriverlo adeguatamente? Qui Marco, affinché il lettore comprenda la straordinarietà dell’evento, si serve di un’immagine efficace, espressa in modo semplice, in vernacolo, facendo uso di uno stile che ci può anche sorprendere. L’evangelista più antico parla un greco semplice, non padroneggia questa lingua in modo tale da renderla elegante, come invece fa Luca, e per questo si serve del paragone, appena citato, con il lavoro del lavandaio. Certamente i tre evangelisti sinottici, pur con le loro differenze di stile, non sapevano narrare la trasfigurazione di Gesù con la profondità teologica dei padri della chiesa greca, quando leggeranno questo bianco splendente come “energie increate” presenti nel corpo di Gesù, il Figlio di Dio. Tuttavia il messaggio di Marco ha la stessa qualità teologica degli altri due, e la teofania da lui presentata non risulta più povera o mancante.

Evidenzio questo, pensando al modo di esprimersi di papa Francesco, criticato e spesso anche disprezzato perché a volte si esprime effettivamente in vernacolo, in modo da essere capito da tutti, servendosi di un linguaggio semplice, lontano dal dettato di una lezione teologica. Attenzione, dunque, e “chi ha orecchi per ascoltare, ascolti!” (Mc 4,9), come Gesù ha più volte ripetuto…

Il bianco è la luce, è il colore del mondo celeste (cf. Dn 7,9), del cielo aperto, e niente sulla terra gli si avvicina. Anche gli angeli della resurrezione (cf. Mc 16,5 e par.; Gv 20,12) e quelli dell’ascensione al cielo, secondo l’iconografia tradizionale, sono vestiti di bianco. Insomma, luminosità straordinaria! Gesù appare dunque trasfigurato, e dal suo corpo emana luce, come la emanava il volto di Mosè (cf. Es 34,29-35), come la emana il Figlio dell’uomo nelle visioni apocalittiche di Giovanni (cf. Ap 1,12-16). Accanto a Gesù “apparve Elia con Mosè, e conversavano con Gesù”: la Profezia e la Legge, delle quali Gesù è interprete e compimento.

Di fronte a tale “visione”, Pietro parla in modo inappropriato, balbetta, non sa cosa dire, se non che occorrerebbe fermare, arrestare quell’evento, renderlo definitivo. Così tutto sarebbe compiuto senza la passione e la croce… Ma questo “congelamento” dell’esperienza non è possibile, e infatti una nube luminosa copre tutti i presenti, mentre una voce proveniente da essa proclama: “Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!” (cf. Sal 2,7; Gen 22,2; Dt 18,15). Se al battesimo la voce del Padre era risuonata solo per Gesù (cf. Mc 1,11), qui invece la rivelazione è anche per i tre discepoli. E l’invito è quello decisivo per ogni discepolo di Gesù, di ogni tempo: occorre ascoltare lui, il Figlio, che è il Kýrios, il Signore! Ascoltare lui, non le proprie paure, non i propri desideri, non le proprie immagini e proiezioni su Dio. Sì, anche per vedere e ascoltare Dio (“Shema‘…”: Dt 6,4) ormai occorre vedere e ascoltare Gesù.

E subito dopo nessuna luce, nessuna voce, nessuna presenza: solo Gesù con i tre discepoli, Gesù con loro come lo era stato sempre. Un uomo, un compagno che scende dal monte per compiere il suo cammino verso Gerusalemme, verso la morte che attende ogni giusto, ogni vero figlio di Dio.

Commento al Vangelo di Enzo Bianchi 
Sabato, 21 Febbraio 2015 15:51

Gesù nel deserto, costantemente tentato

329Gesù è stato battezzato nel fiume Giordano da Giovanni, il suo maestro, e nell’uscire dall’acqua ha visto i cieli aprirsi, lo Spirito di Dio scendere su di lui con la dolcezza di una colomba (cf. Mc 1,9-10) e, soprattutto, ha sentito una dichiarazione rivolta a lui solo. Dal cielo, infatti, dal luogo dimora di Dio, lo raggiunge una voce che proclama: “Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho messo tutta la mia gioia” (Mc 1,11; cf. Sal 2,7; Gen 22,2; Is 42,1). È la voce del Padre, che gli conferma il proprio amore e la sua identità di Figlio amato; è la voce che lo abilita, con la forza dello Spirito, “compagno inseparabile di Cristo” (Basilio di Cesarea), alla missione pubblica tra i figli di Israele.
Ma appena questo è avvenuto, “subito” (euthýs) lo Spirito disceso su di lui lo spinge dove i cieli non sono aperti, bensì chiusi; lo spinge nel deserto, dove è presente più che mai il diavolo, Satana, il tentatore, la cui missione è dividere e separare, soprattutto da Dio. Gesù entra così in una zona d’ombra, entra nella prova, perché il deserto è terra di prova, di tentazione. Lo era stato per Israele, “battezzato” e uscito dalle acque del mar Rosso; lo era stato per Mosè e per Elia; lo era stato per quanti erano andati nel deserto per preparare una strada al Signore (cf. Is 40,3), combattendo da “figli della luce” contro il demonio e la sua tenebra; lo era stato per Giovanni il Battista. Gesù dunque sta camminando sulle tracce lasciate dagli inviati di Dio, e in tal modo sa che deve prepararsi a quella che sarà la prova, la lotta quotidiana, fino alla morte.

In quel deserto di Giuda, accanto al mar Morto, tra quelle rocce aride, Gesù “dimora quaranta giorni, continuamente tentato da Satana”. La sua è una lotta corpo a corpo, della quale nessuno è spettatore; è una lotta interiore attraverso la quale deve imparare l’obbedienza del Figlio – “imparò l’obbedienza dalle cose che patì” (Eb 5,8), legge con intelligenza l’autore della Lettera agli Ebrei – e vincere il tentatore che si oppone alla venuta del Regno nel modo in cui Dio lo vuole e che Gesù deve assumere e fare suo, fino a rivestirsene. Marco non ci dice nulla di preciso su queste tentazioni che gli altri evangelisti, in una sorta di midrash, racconteranno come lotta contro le tre libidines dell’eros, della ricchezza e del potere, insomma lotta contro una manifestazione mondana, prepotente e arrogante del Regno.

L’evangelista più antico mette invece l’accento sul fatto che Gesù è costantemente tentato, per quaranta giorni, senza mai cedere a una visione trionfalistica della venuta del Regno. Pienamente sottomesso al Padre, creatura tra le creature non umane del deserto (rocce, pietre, arbusti, rettili, volatili, bestie selvagge), Gesù è in profonda comunione con tutta la creazione. È come collocato al centro di essa, è il vero Adamo come Dio l’ha voluto, capace di vivere riconciliato e in pace con tutte le creature e con tutta la terra. Gesù appare come l’uomo mite, armonioso, rappacificato con il cielo e la terra, così da inaugurare l’era messianica profetizzata da Isaia: “Il lupo dimorerà con l’agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto, il vitello e il leoncello pascoleranno insieme … Il leone si ciberà di paglia come il bue, il lattante si trastullerà sulla buca della vipera, il bambino metterà la mano nel covo del serpente velenoso” (Is 11,6-8). Sì, è il Regno messianico promesso da Dio a tutta la terra, che certamente è veniente. Gesù lo inaugura nel deserto, per questo subito dopo può proclamare: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio si è fatto vicino”.

Ma occorre ricordare che questa “armonia” e questa “pace” sono a caro prezzo: il prezzo della kénosis, dello svuotamento e dell’abbassamento di colui che “era in condizione di Dio e svuotò se stesso (heautòn ekénosen)”, diventando uomo e spogliandosi delle sue prerogative divine, invece di tenerle gelosamente per se stesso e di considerarle un privilegio (cf. Fil 2,6-7). Proprio in questa profonda umiliazione, che è testimonianza della sua tentazione vera, reale (non un teatrino esemplare per noi!), Gesù fa pace tra cielo e terra, sicché le creature del cielo, gli angeli, nel deserto gli si accostano e lo servono. Lo riconoscono quale Dio nella carne di un uomo: Gesù da Nazaret, il figlio di Maria.

Gesù, amato in pienezza dell’amore del Padre dichiaratogli nell’ora del battesimo e accompagnato dallo Spirito santo, è ormai operante quale vincitore su Satana, sul male, sulla malattia, sulla morte. È il Messia veniente che porta la vita; basta dunque seguirlo, accogliendo il suo invito pressante che riassume in sé tutto il vangelo appena iniziato: “Convertitevi e credete nel Vangelo!”.
 
Commento al Vangelo di Enzo Bianchi 
 
Sabato, 14 Febbraio 2015 09:51

Anche Gesù va in collera

328Nel vangelo di questa domenica leggiamo un racconto che ha un inizio improvviso, senza precisazione di tempo e di luogo, un racconto che facilmente ci appare attuale, collocabile qui è ora: è l’incontro tra Gesù e un uomo affetto da lebbra.

Il lebbroso era allora ed è ancora adesso un malato ripugnante, a tal punto che lo si qualificava come un uomo morto. Per un giudeo, poi, la lebbra era segno di un preciso castigo di Dio, una malattia mediante la quale erano stati colpiti per i loro peccati la sorella di Mosè, Miriam (cf. Nm 12,9-10), il servo del profeta Eliseo (cf. 2Re 5,27) e altri peccatori. Grande è l’orrore, terribile la reazione di fronte a questa malattia che devasta fino alla putrefazione della carne il volto e il corpo dei malati. Essendo la lebbra contagiosa, esigeva che il malato fosse escluso dalla convivenza, segregato in qualche luogo deserto e riconoscibile dal grido che doveva emettere qualora vedesse qualcuno avvicinarsi a lui: “Sono impuro! Sono impuro!” (cf. Lv 13,45-46). Un lebbroso appariva dunque come una persona senza possibilità di relazione e di comunione, né con Dio né con gli uomini.

Ed ecco l’incontro tra Gesù e un lebbroso che viene a lui, gli si inginocchia davanti e lo supplica: “Se vuoi, puoi purificarmi!”. Di quest’uomo non sappiamo nulla, né possiamo valutare la sua vita e la sua fede. Certamente ha fiducia in Gesù, che gli pare affidabile; da Gesù è attratto come da un uomo che può fare qualcosa per lui. Con audacia, più che con fede, si avvicina dunque a quell’uomo che merita ascolto, fiducia, forse anche adesione.

E Gesù davanti a costui ha una reazione: proprio perché lo guarda e pensa a cosa significa questa malattia, proprio perché sente il fetore delle sue piaghe e vede il suo viso stravolto, il suo corpo devastato, “va in collera” (orghistheís), adirato per l’intollerabilità del male e del destino che pesa su quest’uomo. Sì, Marco ci narra un Gesù collerico, che, proprio perché è capace di passione, ha una reazione di collera; ci descrive quanto Gesù senta intollerabile una tale situazione per un uomo che è suo fratello, uomo come lui, uguale a lui nella dignità di persona umana.

Ma anche l’evangelista non sapeva che, usando alcune espressioni che testimoniano l’umanità vera e concreta di Gesù, poteva destare stupore, opposizione e giudizio su Gesù. Sempre, infatti, soprattutto tra gli uomini religiosi, ci sono anime mefitiche, talmente tese a una santità formale che si scandalizzano della passione di Gesù e della sua collera. Questi religiosi sono sempre in scena. Per loro Gesù avrebbe dovuto prima pensare a cosa prevede la Legge, poi mostrare il suo sentimento conformemente a ciò che la Legge comanda. E invece Marco, volendo mostrare in modo chiaro e comprensibile i comportamenti di Gesù, dice ciò che per alcuni non è sopportabile: Gesù va in collera, qui come altrove (cf. Mc 3,5: di fronte ai farisei; 10,14: di fronte ai suoi discepoli). Sì, Gesù andò in collera, perché sapeva vivere il conflitto e ribellarsi contro il male, la malattia, la situazione di schiavitù e di segregazione che rendeva come morto quell’uomo. Non era cosa giusta, ed ecco allora la collera di Gesù!

Qualche scriba, però, pensò di correggere questa espressione, che in alcuni manoscritti diventò: “fu preso da compassione” (splanchnistheís; cf. Mc 6,34 e 8,2: di fronte alle folle). Così le persone a bassa frequenza di sentimenti ne sono state soddisfatte… In verità anche nell’espressione “andò in collera” c’era la passione della compassione, ma con questa correzione, che la versione italiana segue, il comportamento di Gesù appare più accettabile.

In quello scatto d’ira, Gesù prende la mano di quell’uomo, lo tocca, entrando così in relazione, anzi in comunione con lui. Mano lebbrosa nella mano di Gesù, contatto vietato dalla Torah, stretta di una carne giudicata demoniaca, e il suo gesto viene accompagnato dalla parola: “Lo voglio, sii purificato!”. “E subito” – annota Marco – “la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato”: quel lebbroso è guarito, la sua fiducia in Gesù ha ottenuto il risultato sperato, la sua preghiera di compassione è stata esaudita. Non è più uno scomunicato, anzi è una persona che è entrata in piena comunione con Gesù, il quale ha eliminato quel male così orribile ed escludente. Questo dovrebbe essere l’atteggiamento del cristiano verso i malati, quando la cura diventa mano nella mano, occhio contro occhio, volto contro volto, un bacio come quello che Francesco d’Assisi seppe dare al lebbroso quale segno dell’inizio di un’altra visione e dunque di un’altra vita.

Ma dopo la guarigione ecco ancora un Gesù che non piace ai religiosi che si nutrono solo di miele. Il testo dice che Gesù, “sdegnandosi con lui, lo cacciò via subito”. Avvenuta la liberazione, Gesù non sta lì a prendere complimenti, a chiedere che si guardi e si constati la sua azione: non è infatti mai tentato dal narcisismo che attende il riconoscimento per il bene fatto e, a costo di sembrare burbero e scortese, si sdegna e scaccia quell’uomo da lui guarito, ammonendolo di non dire niente a nessuno. Gesù non vuole essere riconosciuto per uno che fa miracoli, non vuole che lo acclamino per delle azioni prodigiose, e soprattutto vuole che il segreto riguardo alla sua identità di Messia sia svelato e proclamato quando sarà appeso alla croce. Solo allora è lecito, a chi ha capito Gesù, dire che egli era buono, che era giusto (cf. Lc 23,47), che era il Figlio di Dio (cf. Mc 15,39; Mt 27,54).

Gesù è discreto di fronte alla gente, fa silenzio e fa fare silenzio per non destare l’applauso, conosce l’arte della fuga per sottrarsi al facile consenso degli altri, ma va in collera, si sdegna visibilmente di fronte alla sofferenza, alla menzogna, al misconoscimento della verità, alla pigrizia e alla vigliaccheria delle persone.

Commento al Vangelo di Enzo Bianchi 
Sabato, 31 Gennaio 2015 07:27

La giornata di Cafarnao

326Dopo il racconto della vocazione dei primi quattro discepoli (cf. Mc 1,16-20), Marco sottolinea che Gesù non è più solo. Ormai c’è una piccola comunità alla sequela di questo rabbi venuto in Galilea dalle rive del Mar Morto in seguito all’arresto del suo maestro e profeta Giovanni il Battista, e questa piccola comunità crescerà e accompagnerà Gesù, coinvolta nella sua vita fino alla fine.

L’evangelista ci presenta dunque una giornata-tipo vissuta da Gesù e dai suoi discepoli: la “giornata di Cafarnao” (cf. Mc 1,21-34), una città situata a nord del mare di Galilea, luogo di passaggio tra Palestina, Libano e Assiria, città con gente composita, scelta da Gesù come “residenza”, come luogo in cui egli e la sua comunità avevano una casa (cf. Mc 1,29.35, ecc.) dove sostavano di tanto in tanto, nelle pause dei loro itinerari in Galilea e in Giudea. Com’era vissuta da Gesù una giornata? Egli predicava e insegnava, incontrava delle persone liberandole dal male e curandole, pregava. Vi erano poi certamente un tempo e uno spazio per mangiare con i suoi, per stare con la sua comunità e per insegnare a essa come occorreva vivere per accogliere il regno di Dio veniente.

Ecco allora che il vangelo ci narra questa giornata di Gesù. È un sabato, il giorno del Signore, in cui l’ebreo vive il comandamento di santificare il settimo giorno (cf. Es 20,8-11; Dt 5,12-15) e va alla sinagoga per il culto. Anche Gesù e i suoi discepoli si recano alla sinagoga di Cafarnao dove, dopo la lettura di un brano della Torà di Mosè (parashà) e di una pericope dei Profeti (haftarà), un uomo adulto poteva prendere la parola e commentare quanto era stato proclamato. Gesù è un semplice credente del popolo di Israele, è un laico, non un sacerdote, ed esercita questo diritto. Va all’ambone e fa un’omelia, di cui però Marco non ci dice il contenuto, a differenza di quanto fa Luca riguardo all’omelia tenuta da Gesù nella sinagoga di Nazaret (cf. Lc 4,16-21).

Accade allora quello che qualche volta succede anche a noi: chi tiene l’omelia ha la capacità di tenerci svegli e in ascolto di lui, ha una parola che ci raggiunge nelle nostre profondità, accompagna le domande che ciascuno di noi sente emergere dal proprio cuore, fa intravedere una risposta vera. Insomma, Gesù mostra di avere un’“autorevolezza” (exousía) inedita, rara. La sua non è una parola come quella dei professionisti religiosi, dei molti scribi incaricati di studiare e spiegare le sante Scritture. Che cosa c’è di diverso nel suo predicare? Possiamo almeno dire che c’è una parola che viene dalle sue profondità, una parola che sembra nascere da un silenzio vissuto, una parola detta con convinzione e passione, una parola detta da uno che non solo crede a quello che dice, ma lo vive. È soprattutto la coerenza vissuta da Gesù tra pensare, dire e vivere a conferirgli questa autorevolezza che si impone ed è performativa. Attenzione: Gesù non è uno che seduce con la sua parola elegante, erudita, letterariamente cesellata, ricca di citazioni culturali; non appartiene alla schiera dei predicatori che seducono tutti senza mai convertire nessuno. Egli invece sa andare al cuore di ciascuno dei suoi ascoltatori, i quali sono spinti a pensare che il suo è “un insegnamento nuovo”, sapienziale e profetico insieme, che scuote, “ferisce”, convince.

Lo sappiamo bene: tutti noi desideriamo un tale predicatore nelle nostre liturgie domenicali, ma a volte rimaniamo delusi. D’altronde chi predica nelle nostre assemblee non è il Figlio di Dio fattosi uomo, a volte e stanco e anche frustrato nella propria vocazione, a volte è talmente costretto a ripetere riti e parole che non gli sono più possibili né convinzione né passione. Eppure io credo che, anche in questa situazione di povertà, se uno ha il cuore aperto e desideroso di ascoltare la parola di Dio, qualche suo frammento lo raggiunge sempre…

L’autorevolezza di Gesù si mostra subito dopo in un atto di liberazione. Nella sinagoga c’è un uomo tormentato da uno spirito impuro, un uomo in cui il demonio è all’opera. Non soffermiamo la nostra attenzione sulla violenza e sul frastuono con cui quest’uomo si esprime, secondo la descrizione tipica dello stile orientale, immaginifico. Andiamo alla sostanza: c’è un uomo in cui il demonio opera in modo particolare, in cui la forza che si oppone a quella di Dio ha preso un grande spazio; in questa persona c’è uno spirito impuro che si oppone allo Spirito santo di Dio. La presenza di Gesù nella sinagoga è una minaccia per questa forza demoniaca, ed ecco allora che la verità viene gridata: “Che c’è tra noi e te, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il Santo di Dio!”. Ma Gesù innanzitutto gli intima di tacere, poi libera l’uomo da quella presenza. Il segno della liberazione avvenuta è un grande urlo: “lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui”.

Si noti l’imposizione del silenzio da parte di Gesù: il grido dell’indemoniato è ortodosso, perché egli è il Santo di Dio, ma questa identità non può essere proclamata troppo facilmente. Lungo tutto il vangelo secondo Marco è testimoniata questa preoccupazione di Gesù circa la manifestazione della propria identità: non si deve divinizzare Gesù troppo velocemente, non si deve farlo perché incantati dai prodigi da lui compiuti, né si deve farlo perché ci si entusiasma di lui. Lo si potrà fare solo quando lo si vedrà appeso alla croce. Solo allora – attesta il vangelo – la confessione del lettore può essere vera, fatta con intelligenza e conoscenza profonde, insieme al centurione che, vedendo Gesù appeso al legno, proclama: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!” (Mc 15,39). Il miglior commento è una parola di un monaco del XII secolo, Guigo I il Certosino: “Nuda e appesa alla croce deve essere adorata la verità”.

(Commento al Vangelo di Enzo Bianchi )
Sabato, 24 Gennaio 2015 10:05

L'ora della vocazione

325Ognuno di noi, soprattutto se anziano ma non colpito da demenza senile, va sovente con i suoi ricordi al passato, in particolare a quello che è stato l’inizio, il cominciare di una vicenda, di un amore che lo ha segnato per tutta la vita. Anche il cristiano fa questa operazione di cercare nel passato, quasi per riviverla, l’ora della conversione; o meglio, per moltissimi l’ora della vocazione, quando si è diventati consapevoli con il cuore che forse ci era rivolto un monito, che forse il Signore voleva che fossimo coinvolti nella sua vita più di quanto lo eravamo stati fino ad allora. Noi la chiamiamo, appunto, ora della vocazione.

La pagina del vangelo di questa domenica vuole essere proprio un racconto di vocazione in cui può specchiarsi chi predispone tutto per ascoltare la chiamata di Gesù, oppure può essere l’occasione per ricordarla come un evento del passato, che può avere ancora o non avere più forza, addirittura significato. Gesù torna in Galilea, la terra della sua infanzia, per iniziare a proclamare un messaggio che sentiva dentro di sé come una missione da parte di Dio Padre. Incomincia questa vita di predicazione e di itineranza dopo che Giovanni, il suo rabbi, il suo maestro, colui che lo ha educato nella vita conforme all’alleanza con Dio e lo ha anche immerso nelle acque del Giordano (cf. Mc 1,9), è stato messo in prigione da Erode. È la fine di chi è profeta, e Gesù subito se la trova davanti come necessitas umana: se egli continuerà sulla strada del suo maestro, prima o poi conoscerà la persecuzione e la morte violenta.

Gesù inizia a proclamare la buona notizia, il Vangelo di Dio, nella consapevolezza che il tempo della preparazione, per Israele tempo dell’attesa dei profeti, che il tempo della pazienza di Dio ha raggiunto il suo compimento, come il tempo di una donna gravida. Alla fine della gravidanza c’è il parto, e così Gesù annuncia: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio si è fatto vicino; convertitevi e credete nel Vangelo”. Ecco la sintesi della sua predicazione: c’è l’inizio di un tempo nuovo in cui è possibile far regnare Dio nella vita degli uomini; affinché questo avvenga occorre convertirsi, ritornare a Dio, e poi credere alla buona notizia che è la presenza e la parola di Gesù stesso. Sì, è solo un versetto che dice questa novità, eppure è l’inizio di un tempo che dura ancora oggi e qui: è possibile che Dio regni su di me, su di te, su di noi, e così avviene che il regno di Dio è venuto.

Di fronte a questa gioiosa notizia, ma anche a questa nuova possibilità offerta dalla presenza di Gesù, ci siamo noi uomini e donne, che ancora oggi ascoltiamo il Vangelo. Che cosa facciamo? Come reagiamo? Stiamo forse vivendo quotidianamente, intenti al nostro lavoro, alla nostra occupazione quotidiana per guadagnarci da vivere, poco importa quale sia; oppure siamo in un momento di pausa; oppure siamo con altri a discorrere… Non c’è un’ora prestabilita: di colpo nel nostro cuore, senza che gli altri si accorgano di nulla, si accende una fiammella. “Chissà? Chissà se sento una voce? Riuscirò a rispondere ‘sì’? Sarà per me questa voce che mi chiama ad andare? Dove? A seguire chi? Gesù? E come faccio? Sarà possibile?”. Tante domande che si intersecano, che svaniscono e ritornano, ma se sono ascoltate con attenzione allora può darsi che in esse si ascolti una voce più profonda di noi stessi, una voce che vien da un aldilà di noi stessi, eppure attraverso noi stessi: la voce del Signore Gesù! È così che inizia un rapporto tra ciascuno di noi e lui, sì, lui, il Signore, presenza invisibile ma viva, presenza che non parla in modo sonoro ma attrae…

Qui nel vangelo secondo Marco questo processo di vocazione è sintetizzato e per così dire stilizzato dall’autore, che narra solo l’essenziale: Gesù passa, vede e chiama; qualcuno ascolta e prende sul serio la sua parola “Seguimi!” e si coinvolge nella sua vita. È ciò che è vero per tutti ed è inutile dire di più: sarebbe solo un inseguire processi psicologici… Ma l’essenziale è stato detto, una volta per tutte: accolta la vocazione, si abbandonano le reti, cioè il mestiere, si abbandonano il padre e la barca, cioè l’impresa famigliare, e così ci si spoglia e si segue Gesù.

Attenzione però: la vocazione è un’avventura piena di grandezza ma anche di miseria! Per comprenderlo, è sufficiente seguire nei vangeli la vicenda di questi primi quattro chiamati. Il primo, Pietro, sul quale Gesù aveva riposto molta fiducia, vivendo vicino a lui spesso non capisce nulla di lui (cf. Mc 8,32; Mt 16,22), al punto che Gesù è costretto a chiamarlo “Satana” (Mc 8,33; Mt 16,23); a volte è distante da Gesù fino a contraddirlo (cf. Gv 13,8); a volte lo abbandona per dormire (cf. Mc 14,37-41 e par.); e infine lo rinnega, dice di conoscere se stesso e di non avere mai conosciuto Gesù (cf. Mc 14,66-72 e par.; Gv 18,17.25-27). Andrea, Giacomo e Giovanni in molte situazioni non capiscono Gesù, lo fraintendono e non conoscono il suo cuore; i due figli di Zebedeo, in particolare, sono rimproverati aspramente da Gesù quando invocano un fuoco dal cielo per punire chi non li ha accolti (cf. Lc 9,54-55); e sempre essi, al Getsemani, dormono insieme a Pietro. Ma c’è di più, e Marco lo sottolinea in modo implacabile: coloro che qui, “abbandonato tutto seguirono Gesù”, nell’ora della passione, “abbandonato Gesù, fuggirono tutti” (Mc 14,50)…

Povera sequela! Sì, la mia sequela, la tua sequela, caro lettore. Non abbiamo davvero molto di cui vantarci… Dobbiamo solo invocare da parte di Dio tanta misericordia e ringraziarlo perché, nonostante tutto, stiamo ancora dietro a Gesù e tentiamo ancora, giorno dopo giorno, di vivere con lui.

Mc 1,14-20
Commento al Vangelo di Enzo Bianchi 
Domenica, 18 Gennaio 2015 07:18

Che cosa cercate?

324Ecco la dinamica del nostro incontro con il Signore: cercareseguiredimorare. Queste sono anche le attitudini essenziali per conoscere e vivere l’amore. L’amore è cercato dal desiderio, deve essere seguito su cammini a volte faticosi e pieni di contraddizioni, ma, se lo si segue, alla fine lo si conosce e in esso si resta, si dimora.

Dopo il solenne prologo (cf. Gv 1,1-18), il quarto vangelo inizia il suo racconto presentando la settimana inaugurale della vita pubblica di Gesù (cf. Gv 1,19-2,12), quei giorni nei quali Gesù ha incominciato ad apparire come un rabbi predicatore. In quel momento, a circa trent’anni, Gesù era un discepolo del profeta Giovanni il Battista e viveva con lui e altri discepoli nei territori intorno al Giordano, là dove il fiume sfocia nel mar Morto.

Ebbene, cosa accade? C’è un primo giorno in cui una delegazione di sacerdoti viene da Gerusalemme nel deserto per interrogare Giovanni sulla sua identità (cf. Gv 1,19-28); segue un secondo giorno (cf. Gv 1,29-34) in cui il Battista indica il suo discepolo come “Servo” oppure “Agnello di Dio” (l’aramaico talja’ può rivestire entrambi questi significati). Il terzo giorno – quello narrato dal brano evangelico odierno – Giovanni indica Gesù a due suoi discepoli, Andrea e il discepolo amato, invitandoli a seguirlo. Il quarto giorno è Gesù stesso a chiamare dietro a sé altri due discepoli, Filippo e Natanaele (cf. Gv 1,43-51).

Ormai dunque Gesù ha una comunità, come uno sposo ha una sposa, e inizia una vicenda di comunione di vita e di azione. Gesù “ha trovato casa”, nel senso che “ha famiglia”, e per questo “tre giorni dopo” (Gv 2,1), dunque nel settimo giorno, a Cana si celebrano le nozze, si beve il vino abbondante del Regno”: “Gesù fece vedere la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui” (Gv 2,12). Le nozze messianiche tra il Messia e la sua comunità sono state celebrate, e così inizia una nuova storia di salvezza, una nuova creazione. Potremmo dire che con questo primo capitolo il quarto vangelo mette in scena Gesù ormai adulto, che inizia la sua missione, non da solo ma con la sua comunità. Ma in questi racconti vi sono alcune parole sulle quali possiamo sostare e meditare.
Giovanni è un maestro riconosciuto e affermato, ha dei discepoli attorno a sé, è ritenuto un profeta, e dopo un silenzio durato alcuni secoli in lui la voce profetica torna a risuonare. È un maestro tra i tanti ai quali si faceva riferimento in un tempo carico di attese escatologiche e messianiche: si pensi alla comunità essenica di Qumran, alla vita di quegli uomini e donne che si impegnavano in un ritorno a Dio, cioè in una conversione, e attendevamo il suo Giorno. Ma ecco venire una pienezza del tempo, un tempo che si compie, e in quel kairós, “tempo maturato e opportuno”, la parola di Dio echeggia attraverso le parole del Battista. Egli annuncia che tra i suoi discepoli c’è una presenza non ancora conosciuta dagli altri (cf. Gv 1,26), la presenza di un uomo che, pur seguendo lo stesso Giovanni come discepolo (cf. Gv 1,27: opíso mou), è più grande di lui, al punto che egli si dice indegno di slegargli il laccio dei sandali. Giovanni va però oltre a questo annuncio e a due discepoli indica colui del quale ha parlato, definendolo Agnello-Servo di Dio. Questi due discepoli per primi intraprendono un esodo, lasciano Giovanni per seguire Gesù. Si mettono sulle sue tracce, nel deserto; Gesù allora si volta e, guardandoli negli occhi, chiede loro: “Che cosa cercate?”.

È la sua prima parola nel quarto vangelo, sotto forma di domanda, un interrogativo che Gesù rivolge ancora oggi a te, lettore del vangelo: “Che cosa cerchi? Qual è il tuo desiderio?”. È straordinario, Gesù non fa un’affermazione, una dichiarazione, come verrebbe spontaneo a tanti ecclesiastici abituati sempre e solo ad affermare, ma pone una domanda: “Cercate qualcosa? E che cosa?”. Così chi si mette sulle tracce di Gesù deve cercare di rispondere innanzitutto a questa domanda, deve cercare di conoscere il proprio cuore, di leggerlo e scrutarlo, in modo da essere consapevole di ciò che desidera e cerca. Pensiamoci, ma solo quando accogliamo o ci facciamo domande contraddiciamo la chiusura che ci stringe, e ci apriamo. L’emergere e il suono di una domanda vera sono come la grazia che viene e apre, anzi a volte scardina…

Ma la ricerca, quando è assunta e consapevole, chiede di muoverci, di fare un movimento, di andare, cioè di seguire chi ha suscitato la domanda: “Venite e vedrete”, come Gesù risponde alla contro-domanda dei due: “Rabbi, dove dimori (verboménein)?”. Seguendo si fa cammino dietro a Gesù e si arriva dove lui sta, dimora. E dove lui dimora, il chiamato, diventato discepolo, può dimorare, restare, abitare, sentirsi a casa. Ecco la dinamica del nostro incontro con il Signore: cercare,seguiredimorare. Queste sono anche le attitudini essenziali per conoscere e vivere l’amore. L’amore è cercato dal desiderio, deve essere seguito su cammini a volte faticosi e pieni di contraddizioni, ma, se lo si segue, alla fine lo si conosce e in esso si resta, si dimora. Il vero amore è un abitare nell’amore dato e ricevuto.

Quel giorno in cui i primi discepoli hanno cercato Gesù, lo hanno seguito e sono restati presso di lui, è stato decisivo per tutta la loro vita, che da quel momento in poi non è stata altro che un cercare Gesù, un seguirlo e un cercare di vivere con lui, perseveranti con lui: è la vita cristiana! Davanti al discepolo c’è sempre e solo un Agnello, un Servo, in ogni caso una creatura mite, inoffensiva, che “porta” (cf. Gv 1,29) i pesi degli altri e non li mette sulle spalle degli altri; c’è qualcuno che dà la propria vita, spende la propria vita e la offre in sacrificio.

(Commento al Vangelo di Enzo Bianchi) 
Sabato, 20 Dicembre 2014 08:40

Gesù, l'uomo che solo Dio poteva darci

318La quarta domenica di Avvento, che sempre cade all’interno delle ferie maggiori di Avvento (gli otto giorni che precedono la memoria della nascita di Gesù), ci narra l’azione di Dio in una donna, Maria di Nazaret: davvero “grandi cose ha fatto in lei l’Onnipotente” (cf. Lc 1,49)!

In una terra ai margini della Palestina, in un villaggio insignificante, in una casa semplice e sconosciuta, in una famiglia quotidiana si realizza il mistero dell’umanizzazione di Dio: Dio, l’eterno, si fa mortale, il forte si fa debole, il celeste si fa terrestre. L’Apostolo Paolo, quando cercherà di cantare questo evento nella fede cristiana ormai professata da ebrei e da greci, affermerà: “Colui che era Dio svuotò se stesso, diventando uomo” (cf. Fil 2,6-7).

Questo evento inaudito e impossibile per noi umani, è avvenuto perché “tutto è possibile a Dio”, ma come raccontarlo? La verità da esprimere è che un uomo come Gesù, il Figlio di Dio divenuto carne mortale, solo Dio ce lo poteva dare. Non poteva essere il frutto di volontà umana, non poteva essere generato dalla sola umanità, non poteva essere semplicemente il figlio di una coppia umana. Ed ecco, per rivelare la verità profonda di questo evento, al di là di ciò che risultava visibile agli occhi della gente di Nazaret, una narrazione che cerca di dirci come Dio è intervenuto e ha agito, come Gesù è un dono che solo Dio poteva darci. A una giovane donna ebrea, chiamata Maria, Dio guarda con amore, fino a sentirla e proclamarla come “amata”, “riempita e trasformata dalla sua grazia, dal suo amore”. Dio le fa sentire la sua presenza, la sua vicinanza, le fa sentire che “è con lei”, per questo Maria deve rallegrarsi. Del resto, Dio-con-noi, ‘Immanuel (Is 7,14; Mt 1,23), non è forse uno dei nomi di Dio?

Maria era una donna di fede, dunque sempre in attesa dell’azione e della presenza di Dio, e proprio per questo nei confronti del suo Signore non aveva alcuna pretesa né vantava alcun merito. Perciò è sorpresa, timorosa e stupita per questa grazia di Dio che la invade nella quotidianità dei suoi giorni. Eppure Maria sa ascoltare la voce del Signore che le chiede di non temere, di avere fede: il figlio che concepirà dovrà chiamarlo Gesù, Jeshu‘a, “il Signore salva”, così che egli sia riconosciuto nella sua vera identità di Figlio dell’Altissimo, discendente di David, dunque Messia.

Maria però confessa: “Io non conosco uomo!”, riconoscendo cioè l’impossibilità umana di dare alla luce un figlio in quella condizione, dunque la sua incapacità a concepire e a partorire un tale figlio. In lei c’è soltanto un vuoto, più radicale di quello di una donna anziana e sterile come sua cugina Elisabetta (cf. Lc 1,18.36), un vuoto dal quale non può avvenire generazione. Ma il Signore Dio nella sua potenza fa cose inaudite e grandi, e le opera in lei: sarà come una nuova creazione! Come lo Spirito del Signore planò sulle acque nell’in-principio, per generare la vita (cf. Gen 1,2), così ora lo stesso Spirito santo scende su Maria, e la sua Shekinah, la sua Presenza che la copre come ombra, renderà possibile che la Parola di Dio si faccia carne (cf. Gv 1,14) e che quel vuoto diventi il “sito” in cui Dio raggiunge l’uomo, generando suo Figlio quale “Figlio nato da donna” (Gal 4,4).

Ecco il mistero dell’incarnazione, di fronte al quale si può soltanto adorare, contemplare e ringraziare. Solo Dio poteva darci un uomo come Gesù, e a questo dono ha risposto con un “amen”, un sì disponibile, Maria, la donna di Nazaret che Dio ha scelto facendola oggetto della sua grazia, della sua benevolenza, del suo amore totalmente gratuito.
Martedì, 16 Dicembre 2014 04:00

Giovanni, il testimone della luce

316"Io sono voce di uno che grida nel deserto"
Già in questi brevi versetti del prologo è sintetizzato tutto il senso della venuta di Giovanni, un uomo definito da Gesù “il più grande tra i nati di donna” (cf. Mt 11,11; Lc 7,28), mandato da Dio. Sì, solo Dio poteva darci e inviarci un uomo come lui. Egli è il segno che “il Signore fa grazia” (questo il significato del suo nome), è un “testimone” (mártys), anzi è il primo testimone di Gesù in quel processo che quest’ultimo ha subito dalla nascita alla morte, processo intentatogli dal “mondo”, cioè dall’umanità malvagia, violenta, philautica. Ministero difficile, faticoso, a prezzo della vita spesa e data, quello di Giovanni: nella consapevolezza di non avere luce propria, egli ha solo offerto il volto alla luce, ha contemplato la luce, è rimasto sempre rivolto alla luce, in modo così convincente e autorevole che chi guardava a lui si sentiva costretto a volgere lo sguardo verso la luce, verso colui di cui Giovanni era solo testimone.

E cosa fa, come si atteggia un vero testimone di Gesù Cristo, cioè della “luce vera, quella che illumina ogni uomo” (Gv 1,9)? In primo luogo si decentra e mette tutte le sue forze a servizio di tale decentramento, dicendo costantemente: “Non io, ma lui; non a me ma a lui vadano lo sguardo e l’ascolto”. Questo è un atteggiamento di spogliazione, di resistenza a ogni tentazione di guardare a se stessi, è veramente vivere l’adorazione di colui che “è più grande” (Mt 11,11; Lc 7,28), che “è più forte” (Mc 1,7; Lc 3,16), che “passa davanti” (cf. Gv 1,15). Giovanni vive in sé il ministero della percezione della presenza di Dio, al quale l’aveva abituato il deserto in cui era cresciuto (cf. Lc 1,80), e ora percepisce questa presenza di Dio in Gesù, che ormai è un uomo tra gli altri, è tra coloro che vanno da lui a farsi battezzare, è un suo discepolo. “In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete … Neanch’io lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: ‘Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito santo’” (Gv 1,26.33-34).

Chi è dunque Giovanni il Battista? Se lo chiedono innanzitutto quanti vanno ad ascoltarlo, i giudei: “Chi sei tu?”. E Giovanni risponde con semplicità: “Non sono il Messia, il Cristo da voi atteso”. Gli chiedono ancora: “Sei tu Elia?”, colui che, profetizzato da Malachia, era atteso davanti al Signore nel suo giorno temibile (cf. Ml 3,23)? “Non lo sono”, risponde Giovanni. Infine gli chiedono: “Sei tu il profeta”, il profeta escatologico promesso a Mosè e simile a lui (cf. Dt 18,15)? Ma ancora, per la terza volta, Giovanni nega anche quest’ultima identità proiettata su di sé.

“Gli dissero allora: ‘Chi sei? Che cosa dici di te stesso? Qual è la tua identità?’”. Ed egli risponde: “Io sono soltanto una voce, una voce imprestata a un altro, eco di una parola non mia”. Anche questo essere voce è frutto dell’obbedienza puntuale e completa di quest’uomo alla parola del Signore annunciata dal profeta Isaia (cf. Is 40,3; Mc 1,3 e par.). Solo voce, che si sente, si ascolta, ma non si può vedere, né contemplare, né trattenere. In Giovanni nessun protagonismo, nessuna volontà di occupare il centro, di stare in mezzo, ma solo di essere solidale con gli altri. C’è chi sta al centro, c’è chi è in mezzo e noi non lo conosciamo, c’è chi è Parola rivolta a noi: è Gesù Cristo, sempre “in incognito”, sempre da cercare, ma noi non lo cerchiamo e non lo riconosciamo. Forse solo nel giudizio finale sapremo che chi sta accanto a noi, chi ci è prossimo… è Gesù Cristo, e allora lo riconosceremo. Nel frattempo, abbiamo bisogno di Giovanni, di ascoltare la sua voce, di vedere il suo dito che indica Gesù come colui che ci immerge nello Spirito santo (cf. Gv 1,33; Mc 1,8 e par.) e che può fare di noi delle “vite salvate”.
Sabato, 08 Novembre 2014 23:22

Il desiderio dell'incontro con il Signore

315In queste ultime domeniche dell’anno liturgico la nostra contemplazione è rivolta alla parusia, alla venuta gloriosa del Signore, attraverso la lettura delle tre parabole che concludono il discorso escatologico di Gesù nel vangelo secondo Matteo (cf. Mt 25). Oggi ascoltiamo la parabola dello Sposo che tarda a venire e delle dieci vergini chiamate ad attenderlo.

Poiché lo Sposo tardava…”. Il Signore Gesù è lo Sposo messianico (cf. Mt 9,15; Ef 5,31-32), venuto per stringere la nuova ed eterna alleanza di Dio con tutta l’umanità, nell’amore e nella fedeltà (cf. Os 2,21-22). Dopo aver narrato Dio con tutta la sua esistenza, Gesù “è stato tolto” (cf. Mt 9,15) ai suoi in modo violento, ha conosciuto l’ingiusta e vergognosa morte di croce: il Padre però lo ha richiamato dai morti, sigillando con la resurrezione l’amore da lui vissuto. Ebbene, nella sua incrollabile speranza nella resurrezione Gesù aveva previsto e promesso ai discepoli la propria venuta come Sposo definitivo alla fine dei tempi, affermando però che l’ora precisa di questo evento non è conosciuta dagli angeli e neppure dal Figlio, ma solo dal Padre (cf. Mt 24,36). Il problema serio, avvertito con urgenza dagli autori del Nuovo Testamento, consiste nel fare i conti con il ritardo della parusia. Di fronte a questo grande mistero non dobbiamo scoraggiarci o cadere nel cinismo, ma fare obbedienza a un preciso comando di Gesù: “Vegliate, tenetevi pronti, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà” (cf. Mt 24,42.44).

Proprio in questo solco si situa la nostra parabola. Dieci vergini, figura della chiesa chiamata a presentarsi a Cristo come una vergine casta (cf. 2Cor 11,2), prendono le lampade per uscire incontro allo Sposo, che viene per celebrare le nozze eterne con l’umanità intera. Gesù precisa subito che cinque di esse sono stolte e cinque sagge, intelligenti: le prime hanno preso con sé l’olio per ravvivare il fuoco nelle lampade, in previsione di un lungo tempo di attesa, le altre non l’hanno fatto. “Poiché lo Sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono”. È difficile restare vigilanti, mantenersi costantemente tesi verso l’incontro con il Signore, per questo Gesù insiste sul fatto che il sonno accomuna tutte le vergini: e chi di noi può dire di non attraversare ore e giorni di oblio, di dimenticanza della venuta del Signore? Davvero nessuno è esente da questo rischio, la differenza sta altrove…

Quando infatti la notte è squarciata dal grido: “Ecco lo Sposo! Andategli incontro!”, tutte le vergini così come si erano addormentate si svegliano e preparano le lampade. Allora le stolte, vedendo che le loro lampade si spengono, cominciano a chiedere alle sagge dell’olio, ma si sentono opporre un rifiuto: “No, perché non venga a mancare a noi e a voi”. Egoismo? Mancanza di carità? No, semplicemente quest’olio o lo si ha in sé oppure nessuno può pretenderlo dagli altri: è l’olio del desiderio dell’incontro con il Signore. Ciascuno di noi conosce (o dovrebbe!) la propria verità più profonda, sa ciò che nel proprio cuore tiene desta o, al contrario, spegne l’attesa del Signore: nei giorni buoni come in quelli cattivi, nella veglia come nel sonno – “io dormo, ma il mio cuore veglia” (Ct 5,2), afferma la giovane ragazza del Cantico dei cantici – è nostra responsabilità rinnovare le scorte di quest’olio, in modo che il nostro cuore bruci del desiderio dell’incontro con lo Sposo… È nella capacità di tenere vivo oggi questo desiderio che si gioca il giudizio finale, cioè l’essere o meno riconosciuti dal Signore quando verrà alla fine dei tempi.

In questo tempo che va dalla resurrezione del Signore Gesù alla sua venuta nella gloria il grido della chiesa è quello della sposa che, insieme allo Spirito, invoca: “Vieni, Signore Gesù! Marana tha!” (cf. Ap 22,17.20; 1Cor 16,22). E ogni cristiano, ascoltando questo grido, dovrebbe rispondere a sua volta con tutto il cuore, la mente e le forze: “Vieni!”, sapendo che il desiderio bruciante della venuta del Signore è già, qui e ora, primizia della comunione con lui.

tratto da: Gesù, Dio-con-noi, compimento delle Scritture, 2010 San Paolo edizioni.

Commento al Vangelo di
ENZO BIANCHI
 
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