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Martedì, 04 Novembre 2014 17:52

I morti: le nostre radici

315Con questa memoria, siamo al cuore dell’autunno: gli alberi si spogliano delle foglie, le nebbie mattutine indugiano a dissolversi, il giorno si accorcia e la luce perde la sua intensità. Eppure ci sono lembi di terra, i cimiteri, che paiono prati primaverili in fiore, animati nella penombra da un crepitare di lucciole. Sì, perché da secoli gli abitanti delle nostre terre, finita la stagione dei frutti, seminato il grano destinato a rinascere in primavera, hanno voluto che in questi primi giorni di novembre si ricordassero i morti.

Sono stati i celti a collocare in questo tempo dell’anno la memoria dei morti, memoria che poi la chiesa ha cristianizzato, rendendola una delle ricorrenze più vissute e partecipate, non solo nei secoli passati e nelle campagne, ma ancora oggi e nelle città più anonime, nonostante la cultura dominante tenda a rimuovere la morte. Nell’accogliere questa memoria, questa risposta umana alla “grande domanda” posta a ogni uomo, la chiesa l’ha proiettata nella luce della fede pasquale che canta la resurrezione di Gesù Cristo da morte, e per questo ha voluto farla precedere dalla festa di tutti i santi, quasi a indicare che i santi trascinano con sé i morti, li prendono per mano per ricordare a noi tutti che non ci si salva da soli. Ed è al tramonto della festa di tutti i santi che i cristiani non solo ricordano i morti, ma si recano al cimitero per visitarli, come a incontrarli e a manifestare l’affetto per loro coprendo di fiori le loro tombe: un affetto che in questa circostanza diventa capace anche di assumere il male che si è potuto leggere nella vita dei propri cari e di avvolgerlo in una grande compassione che abbraccia le proprie e le altrui ombre. Per molti di noi là sotto terra ci sono le nostre radici, il padre, la madre, quanti ci hanno preceduti e ci hanno trasmesso la vita, la fede cristiana e quell’eredità culturale, quel tessuto di valori su cui, pur tra molte contraddizioni, cerchiamo di fondare il nostro vivere quotidiano.

Questa memoria dei morti è per i cristiani una grande celebrazione della resurrezione: quello che è stato confessato, creduto e cantato nella celebrazione delle singole esequie, viene riproposto qui, in un unico giorno, per tutti i morti. La morte non è più l’ultima realtà per gli uomini, e quanti sono già morti, andando verso Cristo, non sono da lui respinti ma vengono risuscitati per la vita eterna, la vita per sempre con lui, il Risorto-Vivente. Sì, c’è questa parola di Gesù, questa sua promessa nel Vangelo di Giovanni che oggi dobbiamo ripetere nel cuore per vincere ogni tristezza e ogni timore: “Chi viene a me, io non lo respingerò!” (cf. Gv 6,37ss.). Il cristiano è colui che va al Figlio ogni giorno, anche se la sua vita è contraddetta dal peccato e dalle cadute, è colui che si allontana e ritorna, che cade e si rialza, che riprende con fiducia il cammino di sequela. E Gesù non lo respinge, anzi, abbracciandolo nel suo amore gli dona la remissione dei peccati e lo conduce definitivamente alla vita eterna.

La morte è un passaggio, una pasqua, un esodo da questo mondo al Padre: per i credenti essa non è più enigma ma mistero perché inscritta una volta per tutte nella morte di Gesù, il Figlio di Dio che ha saputo fare di essa in modo autentico e totale un atto di offerta al Padre. Il cristiano, che per vocazione con-muore con Cristo (cf. Rm 6,8) ed è con Cristo con-sepolto nella sua morte, proprio quando muore porta a pienezza la sua obbedienza di creatura e in Cristo è trasfigurato, risuscitato dalle energie di vita eterna dello Spirito santo.

E’ in questa consapevolezza, in questa visione che deriva dalla sola fede, che la morte finisce per apparire “sorella”, per trasfigurarsi in un atto in cui si riconsegna a Dio, per amore e nella libertà, quello che lui stesso ci ha donato: la vita e la comunione. Per questo la chiesa della terra, ricordando i fedeli defunti, si unisce alla chiesa del cielo e in una grande intercessione invoca misericordia per chi è morto e sta davanti a Dio in giudizio per rendere conto di tutte le sue opere (cf. Ap 20,12).

Certo, nel ricordo di chi vive ci sono anche i morti la cui vita è stata segnata dal male, dai vizi, dalla cattiveria, dall’errore; ma c’è come un’urgenza, un istinto del cuore che chiede di onorare tutti i morti, di pensarli in questo giorno come all’ombra dei beati, sperando che “tutti siano salvati”.

La preghiera per i morti è un atto di autentica intercessione, di amore e carità per chi ha raggiunto la patria celeste; è un atto dovuto a chi muore perché la solidarietà con lui non dev’essere interrotta ma vissuta ancora come communio sanctorum, “comunione dei santi”, cioè di poveri uomini e donne perdonati da Dio: è il modo per eccellenza per entrare nella preghiera di Gesù Cristo: “Padre, che nessuno si perda… che tutti siano uno!”.

Commento al Vangelo di
ENZO BIANCHI
 
Martedì, 04 Novembre 2014 17:46

I frutti dell'amore

314In questi ultimi decenni sono stati proclamati tanti santi e beati: mai c’è stata nella chiesa una stagione così ricca di canonizzazioni, segno anche di un’estesa “cattolicità” raggiunta dalla testimonianza cristiana. Eppure molti, all’interno e attorno alla chiesa, hanno la sensazione di non conoscere dei santi “vicini”, di non riuscire a discernere “l’amico di Dio” – questa la stupenda definizione patristica del santo – nella persona della porta accanto, nel cristiano quotidiano. Questo forse è dovuto anche al fatto che viviamo in una cultura in cui si privilegia l’apparire, un mondo in cui – come ha detto qualcuno – “anche la santità si misura in pollici”: molti allora cercano non il discepolo del Signore, ma l’ecclesiastico di successo, l’efficace trascinatore di folle, l’opinion leader capace di parole sociologiche, politiche, economiche, etiche, la star mediatica cui si chiede una parola a basso prezzo su qualsiasi evento, facendolo apparire il più eloquente a prescindere dalla consistenza della sua sequela del Signore.

Ma è proprio in questa ambigua ricerca della santità attorno a noi che ci viene in aiuto la festa di tutti i santi, la celebrazione della comunione dei santi del cielo e della terra. Sì, al cuore dell’autunno, dopo tutte le mietiture, i raccolti e le vendemmie nelle nostre campagne, la chiesa ci chiede di contemplare la mietitura di tutti i sacrifici viventi offerti a Dio, la messe di tutte le vite ritornate al Signore, la raccolta presso Dio di tutti i frutti maturi suscitati dall’amore e dalla grazia del Signore in mezzo agli uomini. La festa di tutti i santi è davvero un memoriale dell’autunno glorioso della chiesa, la festa contro la solitudine, contro ogni isolamento che affligge il cuore dell’uomo: se non ci fossero i santi, se non credessimo “alla comunione dei santi” – che non certo a caso fa parte della nostra professione di fede – saremmo chiusi in una solitudine disperata e disperante. In questo giorno dovremmo cantare: “Non siamo soli, siamo una comunione vivente!”; dovremmo rinnovare il canto pasquale perché, se a Pasqua contemplavamo il Cristo vivente per sempre alla destra del Padre, oggi, grazie alle energie della resurrezione, noi contempliamo quelli che sono con Cristo alla destra del Padre: i santi. A Pasqua cantavamo che la vite era vivente, risorta; oggi la chiesa ci invita a cantare che i tralci, mondati e potati dal Padre sulla vite che è Cristo, hanno dato il loro frutto, hanno prodotto una vendemmia abbondante e che questi grappoli, raccolti e spremuti insieme formano un unico vino, quello del Regno.

Noi oggi contempliamo questo mistero: i morti per Cristo, con Cristo e in Cristo sono con lui viventi e, poiché noi siamo membra del corpo di Cristo ed essi membra gloriose del corpo glorioso del Signore, noi siamo in comunione gli uni con gli altri, chiesa pellegrinante con chiesa celeste, insieme formanti l’unico e totale corpo del Signore. Oggi dalle nostre assemblee sale il profumo dell’incenso, segno del legame con la chiesa di lassù, la Gerusalemme celeste che attende il completamento del numero dei suoi figli ed è vivente, gloriosa presso Dio, con Cristo, per sempre.

Ecco il forte richiamo che risuona per noi oggi: riscoprire il santo accanto a noi, sentirci parte di un unico corpo. E’ questa consapevolezza che ha nutrito la fede e il cammino di santità di molti credenti, dai primi secoli ai nostri giorni: uomini e donne nascosti, capaci di vivere quotidianamente la lucida resistenza a sempre nuove idolatrie, nella paziente sottomissione alla volontà del Signore, nel sapiente amore per ogni essere umano, immagine del Dio invisibile. Il santo allora diviene una presenza efficace per il cristiano e per la chiesa: “Noi non siamo soli, ma avvolti da una grande nuvola di testimoni” (Eb 12,1), con loro formiamo il corpo di Cristo, con loro siamo i figli di Dio, con loro saremo una cosa sola con il Figlio. In Cristo si stabilisce tra noi e i santi una tale intimità che supera quella esistente nei nostri rapporti, anche quelli più fraterni, qui sulla terra: essi pregano per noi, intercedono, ci sono vicini come amici che non vengono mai meno. E la loro vicinanza è davvero capace di meraviglie perché la loro volontà è ormai assimilata alla volontà di Dio manifestatasi in Cristo, unico loro e nostro Signore: non sono più loro a vivere, ma Cristo in loro, avendo raggiunto il compimento di ogni vocazione cristiana, l’assunzione del volere stesso di Cristo: “Non la mia, ma la tua volontà sia fatta, o Padre” (Lc 22,42). Sostenuti da quanti ci hanno preceduto in questo cammino, scopriremo anche i santi che ancora operano sulla terra perché il seme dei santi non è prossimo all’estinzione: caduto a terra si prepara ancora oggi a dare il suo frutto. “Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?” (Is 43,19).

Purtroppo oggi questa memoria dei santi, così come quella dei morti il giorno seguente, è svuotata dalla celebrazione, sempre più popolare, di Hallowen: un altro, triste segnale di come nella nostra società si scivoli con facilità e insensibilmente dal reale al virtuale. A un mondo invisibile, autentico e reale, il mondo della comunione dei santi, viene sostituito un mondo invisibile ma immaginario, una fiction fabbricata con le nostre mani per autoconsolazione. No, la comunione dei santi è sperimentabile, vivibile: noi non siamo soli qui sulla terra perché nel Cristo risorto siamo “communicantes in unum”!

Commento al Vangelo di
ENZO BIANCHI
 
Sabato, 25 Ottobre 2014 17:24

Il grande comandamento

313Continuano le controversie tra Gesù e i suoi oppositori, che a turno tentano di coglierlo in contraddizione con la fede di Israele, con l’insegnamento della tradizione, deposito da essi custodito gelosamente. I sadducei, cioè i sacerdoti (cf. Mt 22,23); i farisei (cf. Mt 22,15), un movimento laicale estremamente legato alla Torah, alla Legge; gli erodiani, partigiani di Erode (cf. ibid.); gli interpreti delle Scritture: tutti vanno da Gesù, mentre egli si trova nel tempio, per porgli domande, per “fargli l’esame” e coglierlo in fallo nelle sue parole. Vogliono che la sua voce taccia, che le sue parole non siano ascoltate, che i suoi gesti siano puniti, e per questo saranno disposti a condannarlo e a procurargli la morte.

Sono gli ultimi giorni di Gesù nella città santa di Gerusalemme, prima dell’arresto e della passione, ed egli sa che il cerchio intorno a sé si stringe sempre più. Ed ecco che nella nostra pagina del vangelo entrano di nuovo in scena i farisei, e tra loro un dottore della Legge, un teologo diremmo noi, un esperto delle sante Scritture, “lo interroga per metterlo alla prova: ‘Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?’”. La domanda è pertinente, perché nel giudaismo rabbinico la Legge aveva assunto un posto centrale all’interno della rivelazione scritta: e così i primi cinque libri biblici erano i più studiati e meditati, con un primato su tutti gli altri, quelli dei profeti e dei sapienti. In questo studio della Torah i rabbini avevano individuato, oltre alle dieci parole date da Dio a Mosè (cf. Es 20,2-17; Dt 5,6-22), 613 precetti, come spiega un testo della tradizione ebraica:

Rabbi Simlaj disse: “Sul monte Sinai a Mosè sono stati enunciati 613 comandamenti: 365 negativi, corrispondenti al numero dei giorni dell’anno solare, e 248 positivi, corrispondenti al numero degli organi del corpo umano … Poi venne David, che ridusse questi comandamenti a 11, come sta scritto [nel Sal 15] … Poi venne Isaia che li ridusse a 6, come sta scritto [in Is 33,15-16] … Poi venne Michea che li ridusse a 3, come sta scritto: ‘Che cosa ti chiede il Signore, se di non praticare la giustizia, amare la pietà, camminare umilmente con il tuo Dio?’ (Mi 6,8) … Poi venne ancora Isaia e li ridusse a 2, come sta scritto: ‘Così dice il Signore: Osservate il diritto e praticate la giustizia’ (Is 56,1) … Infine venne Abacuc e ridusse i comandamenti a uno solo, come sta scritto: ‘Il giusto vivrà per la sua fede’ (Ab 2,4; cf. Rm 1,17; Gal 3,11)” (Talmud babilonese, Makkot 24a).

Questa la risposta rabbinica alla questione su come semplificare i precetti della Legge, su quale comandamento meritasse il primato. Gesù non si pone all’interno di questa casistica, ma va al fondamento della vita del credente. Innanzitutto cita lo Shema‘ Jisra’el, il comandamento che il credente ebreo ripeteva e ripete tre volte al giorno: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua vita e con tutta la tua mente” (Dt 6,4-5). Poi chiosa: “Questo è il grande e primo comandamento”.

Ma subito va oltre, accostando al comandamento dell’amore per Dio quello dell’amore per il prossimo, dato senza paralleli nella letteratura giudaica antica: “Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Lv 19,18). Risalendo alla volontà del Legislatore, Gesù discerne che amore di Dio e del prossimo sono in una relazione inscindibile tra loro: la Legge e i Profeti sono riassunti e dipendono dall’amore di Dio e del prossimo, non l’uno senza l’altro. Non a caso nel nostro testo il secondo comandamento è definito pari al primo, con la stessa importanza, lo stesso peso, mentre l’evangelista Luca li unisce addirittura in un solo grande comandamento: “Amerai il Signore Dio tuo … e il prossimo tuo” (Lc 10,27). Sì, Gesù compie un’audace e decisiva innovazione, e lo fa con l’autorità di chi sa che non si può amare Dio senza amare il fratello, la sorella. Lo esprimerà un suo discepolo, Giovanni, riprendendo l’insegnamento di Gesù: “Se uno dice: ‘Io amo Dio’ e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. E questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello” (1Gv 4,20-21).

Ecco come si può rispondere all’amore di Dio per noi, al “Dio” che “è amore” (1Gv 4,8.16) e che “ci ha amati per primo” (1Gv 4,19): credendo a questo amore (cf. 1Gv 4,16), e di conseguenza amando Dio e gli altri. Noi parliamo troppo facilmente di amore per Dio, perché ci infiammiamo nel pensarci quali amanti: allora accresciamo il nostro desiderio di Dio, aneliamo a lui, cantiamo la nostra sete di lui (si veda, in proposito, l’inizio degli splendidi salmi 42 e 63), godiamo di stare nella sua intimità, pratichiamo anche un’assiduità con Dio nella preghiera, negli affetti, nei sentimenti, nelle emozioni. Ma occorre sempre discernere se in tale amore Dio è ascoltato o no, se la sua volontà è realizzata o no: in sintesi, se in questa relazione ci accontentiamo di un amore di desiderio, senza che vi sia in noi anche l’amore di ascolto e di obbedienza.

Va detto con chiarezza: il rapporto con Dio è esposto al rischio dell’idolatria, perché se Dio è ridotto a un oggetto del nostro amore, se amiamo un’immagine di Dio che noi abbiamo plasmato, allora Dio è un idolo, non il Dio vivente che si è rivelato a noi! Certo, in quanto esseri umani abbiamo bisogno di esprimere l’amore per Dio anche con il linguaggio del desiderio che ci abita e che ci spinge fuori di noi stessi. Dobbiamo però sempre ricordare l’essenziale: noi aneliamo all’abbraccio con il Signore, con il Dio vivente, ma egli entra in una relazione intima, penetrante, conoscitiva con noi, nella misura in cui lo ascoltiamo, e dunque facciamo il suo desiderio, la sua volontà.

Insomma, Dio va amato amando gli altri come lui li ama. L’amore per gli altri è ciò che rende vero il nostro amore per Dio, è l’unico luogo rivelativo, l’unico segno oggettivo che noi siamo discepoli di Gesù, e dunque amiamo Gesù e amiamo Dio. Gesù stesso lo ha affermato in modo netto: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35); l’amore che mette in pratica “il comandamento nuovo”, cioè ultimo e definitivo, lasciatoci da Gesù: “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati” (Gv 13,34; 15,12). La verità dell’amore di desiderio per Dio sta dunque nell’amore di chi realizza concretamente la sua volontà: “Dio nessuno l’ha mai contemplato: se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e in noi il suo amore è giunto a pienezza” (1Gv 4,12).

Commento al Vangelo di
ENZO BIANCHI
 
312In queste domeniche i brani evangelici previsti dalla liturgia ci rendono testimoni delle controversie tra Gesù e i rappresentanti di vari gruppi religiosi dell’epoca, controversie avvenute nel tempio di Gerusalemme in prossimità della sua passione e morte.

Questa volta sono i farisei che tentano di mettere Gesù in contraddizione con la sua fede e la sua predicazione. Per questo gli inviano dei loro discepoli insieme a dei partigiani di Erode. Entrambi i gruppi volevano l’instaurazione di un regno teocratico in Israele: i farisei attraverso il dominio della loro Legge e del Re Messia, gli erodiani attraverso l’estensione del regno di Erode a tutta la terra santa, in autonomia dall’impero romano. Ma l’intenzione profonda degli uni e degli altri è quella di tendere un tranello a Gesù, per questo si avvicinano a lui con l’adulazione: “Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni con franchezza la via di Dio, senza lasciarti influenzare da nessuno…”. Parole che potrebbero essere una testimonianza della postura veritiera e profetica di Gesù, ma che nelle loro intenzioni sono semplicemente un trabocchetto per indurre Gesù a dichiararsi o idolatra di Cesare o contestatore di Cesare: e così la colpa di Gesù sarà evidente in un caso agli occhi dell’autorità religiosa ebraica, nell’altro a quelli dell’autorità politica romana.

Secondo la volontà di Dio, dal punto di vista della fede, è lecito pagare la tassa imperiale a Cesare? Gesù, dopo aver messo in luce la perversa ipocrisia dei suoi interlocutori – il loro essere persone doppie, che pensano, progettano una cosa e ne dicono un’altra –, si fa portare la moneta del tributo, su cui è scritto: “Tiberio Cesare, figlio del dio Augusto”, iscrizione accompagnata dall’effigie dell’imperatore. A questo punto egli non può esimersi dal rispondere alla domanda rivoltagli, che pure è formulata in modo diabolico. Se infatti affermasse: “Sì, è lecito pagare il tributo”, si mostrerebbe a favore di Cesare, anzi idolatra dell’impero totalitario, e così il popolo che attendeva il Messia liberatore dal giogo romano lo sentirebbe come un traditore. Se, al contrario, rispondesse negativamente, allora gli erodiani avrebbero motivo per denunciarlo come un pericoloso agitatore sociale anti-romano.

Ma ecco che Gesù, tenendo in mano la moneta, ribatte a sorpresa con una domanda: “Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?”. Al sentirsi rispondere: “Di Cesare”, può dunque concludere con una sentenza divenuta celebre: “Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”. Queste parole brevissime sono come un seme, una chiave che richiede di essere decodificata, un’affermazione sapiente che necessita di essere interpretata dai discepoli di Gesù in modo sempre nuovo, a seconda dei tempi e delle situazioni cangianti del mondo. Occorre molta vigilanza per non rendere queste parole uno slogan, come tante volte è successo e succede nei rapporti tra lo stato e la chiesa, tra l’autorità politica e i cristiani.

Cosa significa dunque: “Rendete a Cesare quello che è di Cesare”? È vero che, secondo le Scritture, il potere esercitato sulla terra viene da Dio. Anche Ciro, il re dei persiani che ha sconfitto Babilonia, era un “unto”, un messia di Dio, il quale, pur senza conoscere il Dio di Israele e senza credere in lui, aveva compiuto azioni volute da Dio stesso, diventando suo strumento (cf. Is 45,1-7). Nel Nuovo Testamento l’Apostolo Paolo applica la medesima convinzione alla situazione dei cristiani nell’impero: occorre prestare obbedienza leale alle autorità dello stato (cf. Rm 13,1-7; Tt 3,1-2). Cosa significa questo? Che lo stato, l’autorità politica è assolutamente necessaria per la vita della polis e dei credenti in essa. La città abitata dagli uomini e dalle donne abbisogna di ordine, di legalità, di giustizia, e dunque la politica non può essere ignorata, né si può vivere in società senza un’autorità cui rispondere lealmente. Gesù ha rifiutato di essere un Messia politico (cf. Mt 4,8-10), non ha accettato di essere fatto re (cf. Gv 6,14-15) e ha rimproverato Pietro per la sua incomprensione della propria identità di Messia mite, umile e anche sofferente (cf. Mt 16,21-23; 11,29). Egli è Re – come dirà a Pilato – ma non di questo mondo (cf. Gv 18,36)! Dare a Cesare ciò che è di Cesare, allora, significa riconoscerne l’autorità, restarvi sottomessi e tenere conto di essa – lo ribadisco – lealmente. Il cristiano non può essere un anarchico che si schiera contro lo stato, contro l’autorità politica.

Ma qui ecco apparire lo specifico della via aperta da Gesù Cristo, dunque del cristianesimo, che può anche sembrare paradossale: il cristiano, obbediente alle leggi dello stato, deve tuttavia riconoscere sempre “ciò che è di Dio”. Ed è di Dio la persona umana, perché l’uomo, non Cesare, è l’effigie, l’immagine di Dio (cf. Gen 1,26-27), dunque è ciò che occorre rendere a Dio. Così il potere nella polis è riconosciuto, ma non in modo assoluto, senza limiti: va obbedito fino a che non opprima, non schiacci la persona nella sua libertà, nella sua dignità, nella sua coscienza. Certamente con questa presa di posizione Gesù introduce nel mondo antico, che concepiva il potere politico in modo teocratico, una distinzione rivoluzionaria, che la chiesa in seguito smentirà, da Costantino fino a pochi decenni fa: la politica è necessaria ma va desacralizzata; quella del potere, di Cesare è una funzione necessaria ma umana, esercitata da esseri umani. E di fronte a Cesare sta il diritto di Dio, del Signore, che è vindice e garante di tutta la grandezza e la libertà dell’essere umano, che mai è lecito conculcare!

A Cesare, dunque, va pagato il tributo, ciò che deriva dal suo potere; ma ciò che appartiene a Dio, la vita umana, va data a Dio. E quando le due autorità entrano in conflitto, occorre ricordare le parole degli apostoli: “Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (At 5,29).

Commento al Vangelo di
ENZO BIANCHI
 
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Sabato, 04 Ottobre 2014 08:11

La vigna del Signore

310La parabola evangelica di questa domenica è rivolta da Gesù in modo particolare ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo (cf. Mt 21,23), cioè a quelli che avevano il compito di reggere, guidare, istruire il popolo appartenente al Signore. Potremmo dire che costoro erano i pastori, i capi della comunità dei credenti. Gesù li invita con forza ad accogliere questa parabola che li riguarda più di tutti gli altri: “Ascoltate!”.

Come sempre, le immagini della parabola sono “trovate” da Gesù nel suo quotidiano, nella realtà concreta, attraverso il suo vedere, pensare, contemplare. Il protagonista è un contadino che possiede una vigna, la lavora, la rende bella e la dota di quanto è necessario per fare il vino: una cantina, un torchio e le anfore per contenere il vino. È un vero vignaiolo, che ama la sua vigna; e tutti sanno che per un vignaiolo la vigna, la quale impiega anni per dare frutto, richiedendo tanto lavoro faticoso e tanta cura, è un po’ come una sposa. Non a caso nel profeta Isaia vi è addirittura un canto di un vignaiolo innamorato della sua vigna (cf. Is 5,1-7), oggi scelto come prima lettura della liturgia eucaristica.

Proprio in questo testo vi è un particolare evocativo per l’uditorio di Gesù: Dio è un vignaiolo (cf. anche Gv 15,1) che ha Israele come vigna amata, da lui fedelmente coltivata e dalla quale attende frutti (cf. Is 5,2.4). Questo padrone della vigna, Dio, dopo averla piantata strappandola dall’Egitto (cf. Sal 80,9), l’ha affidata a dei vignaioli quali custodi, facendosi distante da essa, come se fosse partito per un viaggio – dice Gesù – che però alla fine prevede un ritorno. Il padrone, dunque, è come assente, e la responsabilità del lavoro è interamente affidata a questi vignaioli, suoi rappresentanti nella sua proprietà.
Giunta l’ora della vendemmia, il padrone invia dei servi per ritirare dai gestori della vigna i frutti che gli spettano. Ma per i custodi il padrone lontano diventa un padrone assente, che non interviene più, e dunque sono tentati di sentirsi loro i padroni della vigna. Ecco la tentazione più grande di chiunque è chiamato e poi inviato per un servizio: pensare se stesso come colui che invia, non sentirsi servo ma padrone, presumere di poter agire come il padrone e non più secondo un mandato preciso.

Sì, diciamolo, è la tentazione di quanti guidano chiese o comunità: papi, vescovi, presbiteri, abati, priori… A un certo punto la chiesa, la comunità è sentita come se fosse cosa loro; la presenza del Signore sbiadisce e si fa lontana; ed essi, a forza di stare al centro nelle liturgie e nelle riunioni, pensano di tenere il posto che spetta al Signore. Così non si sentono più servi, e “servi inutili” (Lc 17,10), sempre mancanti, ma assolutamente necessari, infallibili nel loro governare, in qualche modo “padroni”.

Il vero padrone, invece, è il Signore, che continua a inviare i suoi servi per reclamare i suoi frutti. Ma i vignaioli li scacciano, li colpiscono, li maltrattano, li uccidono: tanti inviati quali porta-parola del Signore, dunque pro-feti che parlano a nome di Dio, ma per questi c’è solo rifiuto, ostilità, persecuzione… È la storia di Israele, certo, della sua ribellione all’amore fedele di Dio, che non si stanca di inviare i profeti; ma è anche la storia della chiesa, perché la tentazione dei pastori della chiesa è la stessa dei pastori di Israele. “Da ultimo mandò loro il proprio figlio, dicendo: ‘Avranno rispetto per mio figlio!’”. E invece ecco che, al solo vederlo, “i contadini dissero tra loro: ‘Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!’”.

Così hanno fatto di fronte a Gesù di Nazaret, il Messia e Figlio di Dio (“lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero”), e lo farebbero ancora se tornasse… Egli certamente tornerà, e allora vedremo con i nostri occhi ciò che si è visto con la venuta di Gesù sulla terra; ma questa volta la gloria del Signore si imporrà, e quel rifiuto, quelle ferite di cui il Veniente porta i segni sulle mani e nel costato (cf. Gv 20,25-27), narreranno l’amore del padrone, del Signore, per la sua vigna: l’ha amata tanto da accettare che i vignaioli rifiutassero suo Figlio.

Qui si dovrebbe leggere la “Leggenda del santo inquisitore” di Dostoevskij, e capiremmo ancora di più, ancora meglio… In ogni caso è Gesù che ci dà la sua interpretazione autorevole e nel contempo paradossale della parabola, ricorrendo all’immagine di un salmo (cf. Sal 118,22-23) per narrare la sorprendente logica di Dio: gli uomini rigettano quella pietra che Dio invece sceglie e rende angolare, fondamento della sua comunità. Quella pietra che è Gesù stesso, il crocifisso risorto.
 
Commento al Vangelo di
ENZO BIANCHI 
Sabato, 27 Settembre 2014 19:05

Che ve ne pare?

309Il testo del vangelo odierno è molto breve: una parabola di due versetti, e altri due versetti che contengono considerazioni di Gesù sui destinatari delle sue parole. La parabola è inquadrata da due domande, quella finale (“Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?”) e quella introduttiva (“Che ve ne pare?”), presente anche altrove (Mt 18,12). Gesù intende intrigare, coinvolgere quanti lo ascoltano – in questo caso “i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo” (Mt 21,23) –, suscitando la loro risposta. Sono dunque importanti non solo le sue parole, ma anche le parole dei suoi ascoltatori, quelli di allora e quelli di adesso, noi! Cerchiamo pertanto di ascoltare, di pensare, di indagare e di rispondere in verità.

Un padre, che ha due figli, comanda al primo di andare a lavorare nella vigna. Costui reagisce male, opponendosi a lui con un atteggiamento di disobbedienza: “Non ne ho voglia”. Poi però quel comando ascoltato, custodito nel cuore, lo porta alla consapevolezza di aver mancato verso il padre, e così egli decide di andare nella vigna. Si era opposto a parole ma poi, pentito (metameletheís, paenitentia motus), va a realizzare la volontà del padre e lavora nella vigna, come questi gli aveva chiesto. Lo stesso comando è rivolto al secondo figlio, il quale risponde subito: “Sì, signore”, ma in realtà non va nella vigna, disobbedendo nei fatti. Insomma, c’è una “volontà del padre” (tò thélema toû patrós: cf. anche Mt 7,21; 12,50) che è realizzata da chi dice “no” ed è contraddetta da chi dice “sì”.

Chi sbaglia, chi fa un errore, chi dice “no” a Dio, ha la possibilità di pentirsi, di ritornare a lui. Nessuno che abbia peccato è rinchiuso per sempre nella sua rivolta, ma ha la possibilità di riprendere una relazione, un rapporto venuto meno. Certo, uno sguardo fisso su quell’atto di disobbedienza, su quel “no”, può portarci a un giudizio negativo, di condanna, ma l’uomo va misurato nel tempo, sull’insieme del cammino compiuto, non sull’istante a volte cattivo. Dio, poi, pazienta perché vede e sente in grande, nella sua makrothýmia (cf. Mt 18,26; 2Pt 3,9), e quando ci giudicherà guarderà tutto il cammino percorso, tutta la fatica fatta, non si fermerà sulle nostre cadute…

Quanto al figlio che dice: “Sì, signore”, che appare pronto e obbediente al padre, ma poi non realizza la sua volontà, che dire di lui? Spesso noi siamo, ciascuno di noi è così! Purtroppo la nostra vita cristiana è fatta di tante confessioni di fede, di tante invocazioni: “Signore, Signore!” (Mt 7,21.22; Lc 6,46), di tante liturgie in cui ripetiamo continuamente: “Amen!”, cioè “Sì!” al Signore, e poi, abbandonata l’assemblea liturgica, nel quotidiano non facciamo ciò che Dio ci ha chiesto con la sua parola ma ciò che vogliamo noi…

Davanti a Dio conta non ciò che di noi appare agli altri, ma ciò che noi facciamo e siamo: Dio vede la nostra coerenza o la nostra ipocrisia di credenti che “dicono e non fanno” (Mt 23,3), come Gesù stesso ha ricordato; ovvero, la nostra doppiezza di persone che hanno in bocca il nome del Signore, mentre in verità il Signore determina poco o nulla del loro vivere e comportarsi. È l’atteggiamento di quei cristiani che dicono di amare Dio e si esercitano anche in “affetti spirituali” per lui, avendo sete di lui, cercandolo, dichiarando il loro ardente desiderio della sua presenza (tutte espressioni dei salmi), ma ignorando e contraddicendo la sua volontà. No – ha detto Gesù – “non chiunque mi dice: ‘Signore, Signore’, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Mt 7,21); “Se mi amate, osserverete i miei comandamenti … Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama … Se uno mi ama, osserverà la mia parola” (Gv 14,15.21.23), la metterà in pratica. Alla fine non contano i “sì” o i “no” dichiarati, ma la realtà del nostro vissuto!

Ed ecco allora che Gesù fa un’applicazione della parabola per i suoi uditori. Egli dice che i pubblicani, cioè i peccatori manifesti, pubblici, riconosciuti tali da tutti, e le prostitute, donne visibilmente peccatrici, precederanno nel regno di Dio tanti credenti, tanti discepoli. Per quale motivo? Perché, a causa della vergogna per il loro peccato manifesto e del giudizio di condanna che ricevono da parte di molti, sentono il bisogno di cambiare vita, di dire “sì” con la loro vita. Al contrario, molti credenti, con i loro peccati nascosti, non visti, non giudicati, sono onorati da tutti come persone giuste e religiose; per questo non sentono il bisogno di convertirsi, ma anzi custodiscono i loro peccati, li amano e continuano a realizzarli: solo loro ne sono a conoscenza, perché dovrebbero cambiare? E così la loro vita, anche se apparentemente impeccabile, è di fatto un “no” a Dio!

Questo è successo con Giovanni il Battista – dice Gesù –, quando i peccatori pubblici hanno ascoltato la sua predicazione e gli hanno creduto; questo è successo anche con Gesù (non a caso definito dai suoi avversari “amico di pubblicani e di peccatori”: Mt 11,19; Lc 7,34) e la sua buona notizia; questo succede ancora oggi, tra di noi, nella chiesa. Sì, alla buona notizia di Gesù e del suo Vangelo rispondono più facilmente i peccatori pubblici, riconosciuti, che le persone religiose e apparentemente “giuste”, le quali non sono spinte a cambiare nulla della loro vita.

Commento al Vangelo di
ENZO BIANCHI
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Sabato, 13 Settembre 2014 17:42

La croce gloriosa

306Quando noi cristiani pensiamo alla croce, vediamo in essa soprattutto un legno che è strumento di esecuzione capitale, un supplizio che racconta tortura, sofferenza, morte. Questo, in effetti, è la croce della storia degli uomini, la croce che Cicerone e Tacito descrivono come “crudelissimo supplizio”, la croce di cui la Torah parla come luogo di morte riservato a chi è considerato nocivo per la società umana, dunque un maledetto da Dio e dagli uomini (“Maledetto chi è appeso al legno”: Gal 3,13; cf. Dt 21,23). Ebbene, dobbiamo confessare che nella storia tanti sono stati crocifissi, uccisi con violenza inaudita e sempre nuova, perché giudicati pericolosi per la società da parte del potere religioso e politico, che in questi casi facilmente vanno a braccetto. Si pensi alla crocifissione inflitta agli schiavi dell’antichità, alla tortura nelle carceri delle diverse comunità politiche rette da ideologie e tiranni…

Proprio per questo non sempre comprendiamo nella sua verità la croce di Cristo: non è infatti la croce ad aver dato gloria a Gesù, ma è Gesù che ha vissuto anche la croce in modo da rendere questo strumento mortifero segno ed emblema di una vita offerta, spesa, perduta per amore, un amore vissuto “fino all’estremo” (eis télos: Gv 13,1) nei confronti degli uomini, anche dei suoi carnefici. Per far comprendere questa verità ai cristiani e per non confinare la croce all’interno di una visione dolorista, la chiesa ha sentito il bisogno di celebrarla anche in un giorno diverso dal venerdì santo, al fine di raccontare la gloria che, grazie a essa, Gesù ha mostrato: la gloria dell’amore. Così nel IV secolo a Gerusalemme è sorta questa festa che la chiesa cattolica e quella ortodossa celebrano ancora oggi il 14 settembre: festa che, essendo solenne, prevale sulla 24a domenica del tempo ordinario di quest’anno.

La croce gloriosa, la croce nella gloria: non uno strumento di morte può essere glorioso, ma ciò che è diventato come simbolo, ciò che Gesù ha vissuto sulla croce deve essere visto e sentito come glorioso. “Gloria” (kabod) è un termine che nell’Antico Testamento indica il peso, dunque la gloria di Dio è il suo peso nella storia, è la traccia della sua azione, del suo Regno. Gesù, che ha accettato questo supplizio da parte dell’impero totalitario romano istigato dal potere religioso giudaico, lo ha fatto mostrando tutta la sua gloria: gloria-peso del suo amore vissuto fino all’estremo. Sulla croce, certo, Gesù umanamente appare un reietto, un riprovato, un condannato sofferente e impotente, ma in verità egli mostra la gloria, il peso che Dio ha nella sua vita. Quel Dio Padre che sembrava averlo abbandonato, in realtà, essendo obbedito nella sua volontà di amore da parte di Gesù, mostra nella vita del Figlio tutta la sua gloria. L’orribile croce diventa così un segno luminoso; l’essere issato in alto, su un palo, racconta il regnare di Gesù, esaltato da Dio (cf. anche Gv 8,28; 12,32-33); la corona di spine sul capo di Gesù rivela la sua qualità di Re che serve quell’umanità che lo rifiuta; le sue ferite nelle mani, nei piedi e nel costato mostrano come Gesù ha accolto la violenza, senza vendetta né rivalsa, interrompendo così la catena dell’odio, dell’inimicizia, della violenza (cf. Is 53,5-6.12).

Per questo il quarto vangelo, il vangelo “altro”, che ha un’ottica diversa dai sinottici, legge la passione di Gesù come evento di gloria, legge la crocifissione come intronizzazione del Messia, legge le bestemmie dei presenti quali titoli che riconoscono la vera identità di Gesù: egli è “il re dei Giudei” (Gv 19,19), nome che viene scritto e proclamato in ebraico, greco e latino, le tre lingue dell’oikouméne, le quali affermano dunque “il suo vero Nome che è al di sopra di ogni nome” (cf. Fil 2,9).

Non solo nei vangeli sinottici (cf. Mc 8,31 e par.; 9,31 e par.; 10,33-34 e par.), ma anche nel quarto vangelo la croce è stata profetizzata da Gesù come “necessitas” in questo mondo ingiusto, in cui l’uomo giusto finisce per essere rifiutato, condannato e ucciso. Aveva infatti detto a Nicodemo che, come nel deserto era stato innalzato da Mosè un segno di salvezza per Israele (cf. Nm 21,4-9), così sarebbe stato innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque guardasse a lui con fede e invocazione potesse trovare la vita. E non aveva forse anche detto: “Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32)? Ecco chi è colui che attira: un uomo che si manifesta non come un superuomo, nella potenza e nel trionfo mondani, ma un uomo sfigurato e colpito dagli ingiusti (cf. Is 53,2-3) semplicemente perché egli è il solo giusto capace di dare la sua vita per gli altri.

La croce gloriosa di Gesù è il segno di come Dio ci ha amati: suo Figlio è steso su un legno a braccia aperte, è un servo, è uno che ha offerto la vita e che vuole abbracciare tutti. Preghiamo dunque con fede:

O croce,
su te Cristo ha trionfato
e la sua morte ha distrutto la morte.
Tu sei il vessillo del Re che viene,
e viene presto nella sua gloria!

(Commento al Vangelo di ENZO BIANCHI )
Giovedì, 14 Agosto 2014 18:09

Icona del nostro futuro

305L'Assunzione di Maria al cielo in anima e corpo è l'icona del nostro futuro, anticipazione di un comune destino: annuncia che l'anima è santa, ma che il Creatore non spreca le sue meraviglie: anche il corpo è santo e avrà, trasfigurato, lo stesso destino dell'anima. Perché l'uomo è uno. I dogmi che riguardano Maria, ben più che un privilegio esclusivo, sono indicazioni esistenziali valide per ogni uomo e ogni donna. Lo indica benissimo la lettura dell'Apocalisse: vidi una donna vestita di sole, che stava per partorire, e un drago . Il segno della donna nel cielo evoca santa Maria, ma anche l'intera umanità, la Chiesa di Dio, ciascuno di noi, anche me, piccolo cuore ancora vestito d'ombre, ma affamato di sole. Contiene la nostra comune vocazione: assorbire luce, farsene custodi (vestita di sole), essere nella vita datori di vita ( stava per partorire): vestiti di sole, portatori di vita, capaci di lottare contro il male ( il drago rosso). Indossare la luce, trasmettere vita, non cedere al grande male. La festa dell'Assunta ci chiama ad aver fede nell'esito buono, positivo della storia: la terra è incinta di vita e non finirà fra le spire della violenza; il futuro è minacciato, ma la bellezza e la vitalità della Donna sono più forti della violenza di qualsiasi drago. Il Vangelo presenta l'unica pagina in cui sono protagoniste due donne, senza nessun'altra presenza, che non sia quella del mistero di Dio pulsante nel grembo. Nel Vangelo profetizzano per prime le madri. «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo». Prima parola di Elisabetta, che mantiene e prolunga il giuramento irrevocabile di Dio: Dio li benedisse (Genesi 1,28), e lo estende da Maria a ogni don­na, a ogni creatura. La prima parola, la prima germinazione di pensiero, l'inizio di ogni dialogo fecondo è quando sai dire all'altro: che tu sia benedetto. Poterlo pensare e poi proclamare a chi ci sta vicino, a chi condivide strada e casa, a chi porta un mistero, a chi porta un abbraccio: «Tu sei benedetto», Dio mi benedice con la tua presenza, possa benedirti con la mia presenza. «L'anima mia magnifica il Signore». Magnificare significa fare grande. Ma come può la piccola creatura fare grande il suo Creatore? Tu fai grande Dio nella misura in cui gli dai tempo e cuore. Tu fai piccolo Dio nella misura in cui Lui diminuisce nella tua vita. Santa Maria ci aiuta a camminare occupati dall'avvenire di cielo che è in noi come un germoglio di luce. Ad abitare la terra come lei, be­nedicendo le creature e facendo grande Dio.

Sabato, 09 Agosto 2014 18:56

La mano di Dio tra le tempeste

304I discepoli si sentono abbandonati nel momento del pericolo, lasciati soli a lottare contro le onde per una lunga notte. Come loro anche noi ci siamo sentiti alle volte abbandonati, e Dio era lontano, assente, era muto. Eppure un credente non può mai dire: «Io da solo, io con le mie sole forze», perché non siamo mai soli, perché intrecciato al nostro respiro c'è sempre il respiro di Dio, annodata alla nostra forza è la forza di Dio. Infatti Dio è sul lago: è nelle braccia di chi rema, è negli occhi che cercano l'approdo. E la barca, simbolo della nostra vita fragile, intanto avanza nella notte e nel vento non perché cessa la tempesta, ma per il miracolo umile dei rematori che non si arrendono, e ciascuno sostiene il coraggio dell'altro. Dio non agisce al posto nostro, non devia le tempeste, ma ci sostiene dentro le burrasche della vita. Non ci evita i problemi, ci dà forza dentro i problemi. Poi Pietro vede Gesù camminare sul mare: «Signore, se sei tu, comanda che io venga da te sulle acque». Pietro domanda due cose: una giusta e una sbagliata. Chiede di andare verso il Signore. Domanda bellissima, perfetta: che io venga da te. Ma chiede di andarci camminando sulle acque, e questo non serve. Non è sul mare dei miracoli che incontrerai il Signore, ma nei gesti quotidiani; nella polvere delle strade come il buon samaritano e non nel luccichio di acque miracolose. Come Pietro, fissare lo sguardo su Gesù che ti viene incontro quando intorno è buio, quando è tempesta, e sentire cosa ha da dire a te, solo a te: vieni! Con me tutto è possibile . «E venne da Gesù» dice il Vangelo. Pietro guarda a lui, non ha occhi che per quel volto, ha fede in lui, e la sua fede lo rende capace di ciò che sembrava impossibile. Poi la svolta: ma vedendo che il vento era forte, si impaurì e cominciò ad affondare. In pochi passi, dalla fede che è saldezza, alla paura che è palude dove sprofondi. Cosa è accaduto? Pietro ha cambiato la direzione del suo sguardo, la sua attenzione non va più a Gesù ma al vento, non fissa più il Volto ma la notte e le onde. Quante volte anch'io, come Pietro, se guardo al Signore e alla sua forza posso affrontare qualsiasi tempesta; se guardo invece alle difficoltà, o ai miei limiti, mi paralizzo. Tuttavia dalla paura nasce un grido: Signore salvami! Un grido nel buio, nel vento, nel gorgo che risucchia. E dentro il grido c'è già un abbraccio: ho poca fede, credo e dubito, ma tu aiutami! Ed è proprio là che il Signore Gesù ci raggiunge, al centro della nostra debole fede. Ci raggiunge e non punta il dito per accusarci, ma tende la mano per afferrare la nostra, e tramutare la paura in abbraccio.
Sabato, 02 Agosto 2014 08:33

Il miracolo del dono

303Vorrei tanto essere uno dei cinquemila, quella sera, sul lago. Li invidio, non per il miracolo dei pani, ma per la seduzione che hanno provato, più forte di ogni paura: sono andati da Gesù, ascoltano e vivono, ascoltano e brucia il cuore, ascoltano e risplende la vita. Stare con lui: e quando scende la sera, la notte e il deserto profumano di pane. Stare con lui: e sentire che più vivo di così non sarà mai.  I discepoli, uomini pratici, dicono a Gesù: Congeda la folla, perché vadano a comprarsi da mangiare. Se non li congeda lui, non se ne andranno spontaneamente. Ma Gesù non li manda via, non ha mai mandato via nessuno. E’ bello questo preoccuparsi dei discepoli, ma più bello è  Gesù che prova compassione. Anzi, letteralmente,preso alle viscere per loro è dice:date loro voi stessi da mangiare. I discepoli parlano di comprare, Gesù parla di dare. Apre un altro modo di essere: dare senza calcolare, dare senza chiedere, generosamente, gratuitamente, per primi. A noi, che quotidianamente preghiamo: Dacci oggi il nostro pane, il Signore risponde:Voi date il vostro pane­.Dacci, noi invochiamo. Donate, ribatte lui.  Ci sono molti miracoli in questo racconto: il primo­quello della folla che, scesa ormai la notte nel deserto, non se ne va e rimane con Gesù. Il secondo sono i cinque pani e i due pesci che qualcuno mette nelle sue mani, fidandosi, senza calcolare, senza trattenere qualcosa per sé è poco, ma è tutta la sua cena. Terzo miracolo: è poco, eppure quel poco basta, secondo una misteriosa regola divina: quando il mio pane diventa il nostro pane, è il dono seme di miracolo. Infine il quarto: la sovrabbondanza, tipica di Dio: raccolsero gli avanzi in dodici ceste. Una per ogni tribù, una per ogni mese. Tutti mangiano e ne rimane per tutti, e per sempre. E hanno valore anche gli avanzi, le briciole, il poco che sei, il poco che sai fare, il bicchiere d'acqua dato. Nulla è troppo piccolo di ciò che è donato con tutto il cuore.  L'unico merito che i cinquemila possono vantare, l'unico loro diritto al pane è la fame. Davanti a Dio mio vanto esclusivo è il bisogno.Di nulla mi vanterò se non della mia debolezza ( 2 Cor 12, 5). Davanti a Dio non c'è nulla di meglio che essere nulla, come l'aria davanti al sole, come il polline nel vento ( Simone Weil), nutrendo così la nostra fame di sole e di pane, di cielo e di mani che conoscano il dono. 
 
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