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La semplice elementare lirica di Filippesi avvolge nell'ovatta di una poesia sublime il dramma di base della rivelazione cristiana. All'essere umano non viene per nulla difficile nutrire il presentimento della trascendenza e restare impigliato nell'attrazione per il sacro. Nemmeno nel diffuso furore della nostra era secolare. Anzi. Più il gelo immanente della procedura avvolge la vita dell'uomo postmoderno, più le pulsioni dei suoi sensi resi orfani cercano avide l'appoggio di divinazioni persino selvagge.
Geremia è culturalmente diventato la figura emblematica della lamentazione. La sua predicazione contiene un elemento di resa dalla consistenza quasi irrinunciabile. La cronaca umana sembra semplicemente impotente di fronte a ogni invito alla conversione . Ma da questo realistico senso di vanità morale Geremia prende lo slancio per un’immaginazione proiettata oltre gli stretti orizzonti del provvisorio. I suoi lamenti difatti vanno costruendo con paziente progressione quel genere di sapienza che trasforma la profezia in annuncio apocalittico. Il suo contenuto parla della pervicacia di un Dio che getta il sasso della promessa oltre i blandi limiti della storia preconizzando un futuro nel quale un nuovo intervento creativo renderà l’uomo abile a una fedeltà degna dell’alleanza . In sintesi , un cuore nuovo, un rinnovato slancio della libertà, un nuovo respiro della volontà. Nel forgiare la materia di questo sogno la profezia biblica sposta inesorabilmente la barra del tempo direttamente verso i confini dell’escatologia. Saranno tempi in cui le cose appariranno compiute. Ma per compiere le quali Dio smette fin d’ora di limitare la sua viva presenza al contenitore santo della legge o alla voce fedele del profeta. Dio verrà di persona. In carne ed ossa. Si prenderà sulle spalle tutti gli oneri di una amicizia cui non è mai stato disposto a rinunciare. Ne sarà il garante pressoché unilaterale. Con la stessa determinazione con cui le madri, quando serve, sanno supplire col proprio invincibile supporto di fedeltà alle fisiologiche immaturità dei figli. Ecco, quando succederà, la storia sarà come finita. Questo salto oltre l’immediatezza della cronaca per inerpicarsi al di là delle dimensioni della storia spiega anche l’apparente indifferenza di Gesù che a un gruppo di greci smaniosi di incontrarlo, annunciatigli attraverso una commovente catena di passaparola, oppone la disarmante freddezza di un discorso che avrebbe tutta l’aria di essere liquidatorio. Questi ingenui stranieri sono ancora all’inseguimento dell’aura del tutto contingente del profeta famoso. Vogliono vedere l’oggetto vivente di una celebrità dai contorni tanto intensi quanto del tutto vaghi. Cercano la conferma diretta di un prodigio umano portato sul filo della meraviglia dalla frenesia dei racconti. Ma non è più tempo, nemmeno per la testimonianza del Regno, della consolazione immediata, dell’accudimento primario, della semplice accondiscendenza, giacché il momento si avvicina in cui del Figlio si deve vedere l’inaudito. A chi dunque vuol vedere ancora la sua umana figura di profeta strabiliante Gesù da appuntamento altrove, lasciando con premura tutta divina, le istruzioni per l’uso di un discernimento del quale quasi tutti rimarranno vittime. Il Figlio difatti sarà più interessante sulla croce. Benché più invisibile. Per vedere qualcosa di attraente e di umano in quel caso bisognerà possedere dei criteri di osservazione ben assimilati. Per esempio, che tutto quello che non muore resta morto. Ma per chi li avrà metabolizzati lo spettacolo sarà unico. (Giuliano Zanchi)
Come in ogni forma di relazione, anche nel perimetro dell'alleanza ci deve essere spazio per il giudizio. Gli effetti del disimpegno prima o poi vengono alla luce. La malagrazia del tradimento finisce per mettere in mostra le inevitabili ferite che non ha avuto scrupolo di incidere. Sicché il giudizio, prima ancora che essere pronunciato da un'istanza sovrana, prende forma nei fatti.
Esiste anche una fede di cui Gesù non si fida. Si tratta di quell'avida attrazione per il segno paranormale con cui gli umani amano identificare la dimostrazione di forza del divino. Quando pare loro di intravederne delle manifestazioni, subito si precipitano nel suo perimetro convinti di avere in qualche modo parte dei suoi effetti. La chiave di volta di questa disinvolta febbre per il prodigio è l'equazione di principio fra il divino e il potere. Dio deve essere potente. L'equazione del resto è transitiva. Il potere è divino. Umano o trascendente che sia. L'uomo di potere difatti sa emanare un'aura di attrazione entro i confini della quale molti si precipitano a rifugiarsi. Scambiato per un dio, l'uomo di potere può gettare alla folla spiccioli della propria sovrana autosufficienza potendo contare sull'adorante e riconoscente compiacimento dei deboli. Dove scarseggia la dignità hanno più successo i padrini dei padri. Il cerchio sacro della loro influenza genera una forma di fede che ha l'oscura intensità della magia.
Il fascino irrequieto esercitato dal racconto del mancato sacrificio del figlio di Abramo, su cui giustamente sono stati versati fiumi di inchiostro, ha la consistenza delle emozioni catartiche indotte dalle tragedie greche. Il tema di fondo, del resto, staziona attorno a orbite del tutto simili. L'incommensurabile fragilità della libertà umana contro l'indecifrabile strapotere del divino. La libertà non è che un perimetro illusorio? Il divino è puro arbitrio a dimensione trascendente? L'vventura umana è forse il periglioso camminare in punta di piedi sul filo di rasoio della dipendenza? Esiste qualcosa di sacro che non sia perciò stesso dispotico? Nelle antiche tragedie - come si sa - il peso del divino è schiacciante. La libertà, più che umana, è eroica. La testimonianza biblica - come testimonia questo controverso racconto - conserva la questione. Mantiene persino il copione di una tragedia standard in cui il divino mette alle corde l'uomo imponendogli il sacrificio più disumano che si possa immaginare. Ma la strategia del racconto è precisamente quella di disinnescare il cortocircuito di fondo. Si esprime in forma narrativa quello che nella realtà è una fondamentale conquista teologica. Il Dio dell'alleanza non ha certamente bisogno di prove del sangue per tenere viva la sua alleanza con gli umani. Ci vorranno la Legge e i Profeti, lungo secoli di un duro e continuo esercizio di riscrittura, per radicare il popolo dell'alleanza nelle impegnative conseguenze legate a questa convinzione. Ma questa nuova sapienza, che consente all'uomo di rivolgersi a Dio secondo il registro della confidenza e non dell'asservimento discende direttamente dal monte su cui si è impedito alla fede di Abramo di esprimersi in forma disumana. L'umanità di Dio ha cominciato lì a risplendere. Nell'incarnazione del Figlio essa avrebbe dovuto riaccendersi in modo del tutto definitivo. Sempre sopra una montagna - dove nella Scrittura accade ogni evento di rivelazione essa dà a vedere l'abisso teologale di cui è nascosta e quotidiana manifestazione il corpo umano di Gesù. Marco, mentre imbastisce questo racconto di sapore del tutto escatologico non è altro che una variante delle apparizioni postpasquali del Risorto - è cosciente di presentare una sorta di itinerario iniziatico a beneficio del discepolo. Come tanti Isacco, ignari discepoli vengono condotti in cima al monte per comprendere la vera natura del divino che si rivela nella vita del maestro di Nazareth. Intanto essa resta incomprensibile se non compresa alla luce della Legge e della Profezia Mosè ed Elia - esattamente come per i frastornati discepoli di Emmaus. Guardate Gesù alla luce della Legge e dei Profeti e diventa più bianco della neve.
Questa specie di evangelo in nuce che Pietro, o chi scrive per lui, depone tra le righe di una lettura indirizzata alla sua comunità, ha tutta la consistenza di una Summa teologica ridotta ai minimi termini, ma in grado di avvitare in un unico punto di considerazione tutte le tappe essenziali della costruzione salvifica amorevolmente edificata attorno alla vita umana. L’autore di questa lettera ricongiunge, con una sola manciata di parole, le arcate temporali di un’architettura della grazia che nel Cristo risorto la sua chiave di volta. Si parte difatti dalla sua morte. Atto sacrificale dalla portata definitiva dal cui spiraglio il fendente della grazia divina riesce a penetrare nei recessi dove stazionano in attesa le generazioni di un’alleanza ormai antica. Finalmente raccoglie i suoi frutti la pazienza divina. La salvezza di Noè si può guardare adesso come profezia di un miracolo incalcolabilmente più efficace. Stesso segno dell’acqua. Ma, grazie alla pasqua del Figlio, veicolo di una riconciliazione universale, capace ormai di vincolare i confini dello spazio e di penetrare, da cima a fondo i depositi del tempo. A partire da qui l’architettura teologica rimbalza direttamente oltre la storia e al di là del tempo. Solo dall’alto di questa vertiginosa visione si può inquadrare nell’ampio reticolato viario della vocazione cristiana l’elementare segmento di conversione verso cui s’imbocca il discepolo di oggi, chiamato ancora alle elementari distanze della sequenza quaresimale, come i primi tentennanti passi di un bambino che impara ancora a muovere le gambe. La liturgia con le sue selezioni bibliche, ricollega simbolicamente il cammino al tempo delle origini, a quel discernimento originario degli spiriti che costituisce la sostanza del mito genesiaco, evocato in questo caso attraverso la grande prova del diluvio. Nell’economia dei primi undici capitoli di Genesi, che sono una sorta di unitario romanzo delle origini, la vicenda del diluvio rappresenta come l’esito di un dilagare inarrestabile del male che coincide con una ferma e irremovibile conferma dell’alleanza. Questo non è un Dio portato a pentirsi. Se necessario, rimodella all’infinito la sua creazione, ripartendo da quel poco di fango buono che rimane. Il resto è semplice congettura umana. L’accento è infatti posto sulla grande scena in cui il Dio degli eserciti viene descritto come un guerriero che appende in cielo il proprio arco, deciso ad attaccarlo per sempre al chiodo, per liquidare una volta per tutte la logica dispotica del sacro arcaico. Ma la prova non è originaria perché avviene in un presunto inizio cronologico. Essa è originaria perché rappresenta il motore enigmatico di ogni desiderio. Sempre e ovunque esista un essere che voglia considerarsi umano. Nemmeno il Figlio può realmente immettersi in una reale avventura umana senza attraversare il crogiolo del desiderio messo alla prova. Marco la racconta con laconica levità. A Marco basta assicurarci dal fatto che nulla è stato risparmiato al Figlio (Giuliano Zanchi)
Agli occhi assuefatti di uno scriba integrato negli schemi delle convenzioni religiose appare già un'idea limite una remissione delle colpe da applicare a un paralitico la cui disgrazia è sufficiente ratifica del suo debito morale. La supponenza poi con cui Gesù se ne fa protagonista, beh, quello sembra del tutto intollerabile. I nodi delle questioni si assommano. La prima domanda è certamente quella che riguarda quest'uomo paralitico, ennesima prova vivente di un'equazione a cui persino l'antica fede non ha mai definitivamente rinunciato, continuando a leggere fra le righe della disgrazia umana la giustizia impeccabile della volontà di Dio: non vorremo noi assolvere qualcuno su cui l'Altissimo ha già emesso la sua evidente sentenza!
I l legame del male al peccato è arcano. Non si tratta naturalmente dell'ovvia corrispondenza fra un male perpetrato che configura immediatamente un peccato conclamato. Non è tanto in questione la colpa di chi ha compiuto il male. Ma, più enigmaticamente, del senso della colpa che affiora alla coscienza di chi il male gli tocca patirlo. Appena toccato nella carne, l'essere umano si chiede istintivamente per quale responsabilità debba patire quel dolore. Il paradosso è di quelli radicali che chiamano in causa la costitutiva contingenza umana. Il dolore, anche quando è semplicemente subìto, non è mai percepito come innocente. L'irragionevolezza del dolore invoca responsabilità che l'uomo si sente costretto a proiettare su di sé. La forza del male del resto, nella sua oscura invincibile potenza, fa sempre la sua apparizione con i tratti inconfondibili del sacro.
Il legame del male al peccato è arcano. Non si tratta naturalmente dell'ovvia corrispondenza fra un male perpetrato che configura immediatamente un peccato conclamato. Non è tanto in questione la colpa di chi ha compiuto il male. Ma, più enigmaticamente, del senso della colpa che affiora alla coscienza di chi il male gli tocca patirlo. Appena toccato nella carne, l'essere umano si chiede istintivamente per quale responsabilità debba patire quel dolore. Il paradosso è di quelli radicali che chiamano in causa la costitutiva contingenza umana. Il dolore, anche quando è semplicemente subìto, non è mai percepito come innocente. L'irragionevolezza del dolore invoca responsabilità che l'uomo si sente costretto a proiettare su di sé. La forza del male del resto, nella sua oscura invincibile potenza, fa sempre la sua apparizione con i tratti inconfondibili del sacro. A questo enigma, incandescente e oscuro a un tempo, la religione ha offerto spesso la sua cornice teologale. Nemmeno nell'antica alleanza, patria letteraria e spirituale del Dio della misericordia e delle viscere, sa evitare l'equazione che collega i sintomi della malattia all’impurità morale, il dolore alla colpa, la sofferenza all'espiazione. La verità dell'equazione sta nel fatto che il male documenta quell'irre-solutezza umana la cui ricomposizione rinvia necessariamente alla giusta relazione con Dio. La sua falsità sta nel semplificare questo rinvio in un atto di meccanica autoritaria decisione divina. Gli amici teologi di Giobbe, ci si ricorderà, sono l'insuperabile incarnazione letteraria della teorizzazione dogmatica di quella falsità. Potere e strapotere del sacro arcaico. La sua potenza, così onnipotente da essere prepotente, tutela la propria sovrana grandezza mediante un giustizialismo che adotta come moneta di scambio il dolore della carne. Essa è dunque documento della scomunica divina. Naturalmente si trasforma anche in esclusione sociale. Di queste abiette e cupe convenzioni, come si sa, Gesù sarà metodico maestro di sospetto. In esse egli vede nascosta la propensione umana a forgiare caricature del divino a uso e consumo di ben discutibili ordini sociali. Ma la sua vocazione (fin dal principio dei tempi) di essere icona veritiera del Dio dell'alleanza gli impone di scagionare l'immagine di Dio dalle infamie attribuite ad essa da ogni religione da bancarella. I segni di guarigione, che il Figlio opera fra la costernazione stessa di chi ne è oggetto diretto, hanno precisamente questa ragione. Essi si intendono come rivelazione in atto del Dio vero che, di fronte all'uomo fragile, si china ristabilendone l'integrità. Di questo ordinario miracolo non si dovrà fare propaganda ai quattro venti. Il beneficiato ne farà personale atto di fede. Ma che almeno ai sacerdoti però ne sia mostrata la tangibile evidenza. Il loro accertamento è chiamato a leggere il fenomeno clinico come rivelazione dell’Altissimo. Eppure è difficile, per quanto maldestro, chiudere la bocca alla meraviglia. (Giuliano Zanchi)
Nell’ economia spirituale dell’Antico Testamento l’esercizio della profezia può certamente permettersi di stare sempre un gradino sopra le altre grandi istituzioni del popolo. Il sacerdozio e la regalità sono costantemente sottomesse al suo caustico potere di discernimento. Come una spada a doppio taglio la parola del profeta sa disinnescare il delirio di onnipotenza del re, come smascherare il formalismo rituale del sacerdote. Il profeta è la voce con cui Dio diagnostica attimo per attimo lo stato di salute dell’alleanza. Ma persino il primato della profezia è giustamente condizionato al suo grado di alta fedeltà all’intenzione teologale che la fonda. Il serrato dialogo dell’altissimo con il grande Mosé, profeta dei profeti prima del Figlio, mette in scena la giusta subordinazione della voce profetica alla sua fonte divina , paventando persino la morte a fronte di una trasgressione tanto grave. In fondo anche il profeta ha le stesse tentazioni del re e del sacerdote. Sono del resto sempre le stesse. Una sta nell’impadronirsi della voce di Dio per trasformarla in veicolo di preoccupazioni troppo umane. L’altra addirittura mette la presunzione profetica a servizio di idoli lontani dallo spirito dell’alleanza . L’essere umano, specie se religioso, sa fare mercato di tutto, persino della voce di Dio. Ma essa possiede anche sempre le sue strategie di riscatto. I falsi profeti, prima o poi, vengono alla luce. Quando un giovane rabbino di provincia entra nella sinagoga della sua città e si mette a insegnare, il bagliore di un’autorevolezza inaudita invade di colpo la storia. E tutti sono immediatamente capaci di riconoscere la differenza. Succede anche semplicemente nell’incessante mormorio della comunicazione umana. Quando in mezzo a mille quaquaraqua da marciapiede si alza la voce della persona che sa quel che dice, chiunque se ne accorge. Persino che sono in malafede. Ma nel caso del rabbino Gesù di Nazareth, questa elementare prova di umana eloquenza mostra di avere radici dalle profondità inimmaginabili. L’autorevolezza capace di emanare dall’eloquio di Gesù riguarda gli orizzonti sfuggenti e gli abissi impenetrabili delle questioni teologali. Quando Gesù parla delle cose di Dio, mostra di sapere quello di cui parla. Letteralmente. Non con la sapienza indiretta del fariseo che ha setacciato con la fatica degli anni un piccolo tesoro di convinzioni dentro la rete misteriosa della Scrittura, ma con la scienza di prima mano di qualcuno che parla di qualcosa di proprio. Di questa autorevolezza gli ascoltatori hanno subito un’immediata sensazione. Essa è persino capace di risvegliare l’inquietudine dei demoni, figure dell’irreligione, sempre molto a loro agio con la lingua convenzionale del formalismo religioso, ma sempre in difficoltà con la parola di fuoco della fede profonda. E con studiata nonchalance Marco la mette subito a confronto con la parola opaca dei farisei, umiliata un istante, archiviata in un battere di ciglia, messa ai margini da un atto di rivelazioni di un sabato come gli altri.
La Scrittura, timori non ne ha. Sa ospitare la sacrosanta indignazione di Giobbe, il relativismo secolare di dell’Ecclesiaste, l’aperto erotismo del Cantico. Nel libricino di Giona, di cui qui la liturgia ci apparecchia giusto il bel finale, la Scrittura mette in scena tutta la pusillanime e riottosa grettezza di una religione dell’appartenenza che si rovescia in una pratica dell’esclusione. Giona è quello che, prima di piegarsi al mistero della divina grazia, fin che può si tiene lontano da questo Dio assurdo che intende reclutarlo come supino strumento di un invito alla conversione che – così pensa Giona-, anziché in un atto di reale e puntigliosa resa dei conti, finirà a tarallucci e vino. L’ostacolo più consistente al lavoro della grazia non è mai la resistenza del miscredente ma il risentimento dell’appartenente. Eppure il Dio dell’Alleanza, esattamente come fa con l’ultimo peccatore smarrito, ricorre fino in capo al mondo anche il credente immusonito. Se è necessario gli fa provare il buoi degli abissi e il furore della canicola per fargli capire che nemmeno per lui stare nel perimetro delle relazioni vitali è cosa scontata una volta per tutte. Allora il missionario Giona va. Ma come tutti i pretoriani di parrocchia, attraversa la città con profondi dubbi su quel Dio che ha tanto a cuore gente come questa. Quanti Giona si costringono anche oggi a sorridere all’indifferente e svagato uomo della città contemporanea rimpiangendo i tempi in cui si poteva ecclesiasticamente più ultimativi! Eppure è da moto tempo che la testimonianza del Regno non sopporta più di interpretarsi come perentorietà giudiziaria. Il tempo si è fatto breve. La storia è cambiata. Giacché il Figlio ha chiarito ogni dubbio. Il Dio tanto incompreso da Giona ha trovato in Gesù di che mostrare un volta per tutte il suo volto più radioso e convincente. Il suo Regno è prossimo. Non per approssimazione temporale (non significa tra un attimo), ma per immediatezza storica (significa il suo “essere qui”). Il Dio/Samaritano si è finalmente chinato, da prossimo impeccabile, sulla storia umana. Si potrebbe anche semplicemente tradurre: Io(ci) Sono). Di questa stratosferica novità Gesù va cercando consapevoli e partecipi divulgatori. Va a pescarli in riva a un lago, ai margini dell’operosità rurale, alla periferia della coscienza spirituale. Gente semplice, reclutata da una misteriosa forza d’attrazione, destinata a trasformare in carne e sangue della propria esistenza la straziante passione di questo strano rabbino di passaggio per l’immagine di una Dio misericordioso. Marco ne mete in mostra la prontezza. La risolutezza di questi Giona dei tempi nuovi manifesta appunto tutta la proporzione dell’inedito che con il Dio di Gesù si appropria della storia. Modellati ad immagine e somiglianza del loro maestro essi, che non mancheranno (nemmeno loro) di rimanere confusi di fronte alla sua radicalità spirituale, lo seguiranno sulla strada di un sogno universale. Quando Dio sceglie qualcuno è sempre per poter amare tutti.
Dio parla sempre con parole umane. Abbiamo dovuto faticosamente riscoprirlo dopo secoli di ombrosa dimenticanza. Eppure era persino scritto nelle sublimi vocazioni dei grandi uomini di Dio. Anche a Samuele non arrivano le sommesse parole dell’Altissimo se non attraverso l’ascolto illuminato di Eli. Pieni di immaginazione per un sacro che comunica attraverso fenomeni paranormali restiamo sordi alla vera voce di un Dio che chiede ascolto attraverso l’elementare parola della prossimità. Solo quando si capisce che la sua sapienza si mette silenziosamente in cattedra nelle scelte di ogni giorno e nei legami quotidiani, come Samuele, finalmente ci si sveglia e si comincia a crescere. Prima si resta nel sonno di un autismo senza vie di uscita. Nemmeno l’incontro fra Gesù e i suoi discepoli è scoccato a qualche segno di natura paranormale. Esso tuttavia non ha mancato di straordinarietà. Deve essere stato a suo modo così folgorante che Giovanni, pura dalla distanza del tempo e dalla trasfigurazione letteraria, non si trattiene dal registratore la memoria esatta dell’orario. Erano circa le quattro del pomeriggio. Come dimenticarsi? Sembra la memoria trafitta di un innamorato che del primo sguardo conserva intatto ogni dettaglio. L’incontro con il Maestro, destinato a portare queste ancora ignare vite dove forse esse non avrebbero voluto arrivare, affiora dal terreno fecondo della testimonianza del Battista, questo nuovo intransigente Elia, che sveglia dal loro sonno i propri discepoli indicando loro la vera fonte della voce che da tempo credono di ascoltare. Io vi ho parlato ma è lui che vi chiama. La sequela nasce sempre dall’umile ritrarsi di qualcuno che accetta di aver esaurito il suo compito. Non diventiamo nemmeno grandi se chi ci ha messo al mondo non è capace di farlo. Da questo primo atto di referenza, una sorte di morte simbolica, la catena degli incontri entra in un vortice di impressionante efficienza, con una progressione simile al dilagare del male dopo la menzogna dei progenitori, ma in senso opposto, come la scintilla di un nuovo inizio innescata dall’indice del profeta che fa segno sul figlio. Apparentemente il dialogo è quello della prosa da ascensore, ovvietà da semaforo, battute in codice da incontro all’angolo di una strada. Che sorpresa, come va, che mi dici. Dove abiti. Niente di che. Ma qui è già tracciato il criterio della sequela, precisamente attraverso questa esausta lingua della strada, meraviglioso sedimento della parola elementare, dentro la quale conserva le sue radici l’unica forma umana della vera conoscenza, dell’autentica prossimità dell’affidabile relazione: per sapere dove uno è, in quale punto della vita risiede, occorre seguirlo precisamente lì. Lo sanno tutti quelli che hanno avuto la grazia di amarsi. Legarsi significa rendersi domestici. Diventare di casa. Ma in questo caso la sottile ironia vale già tutto il vangelo. Giacché la dimora del Figlio è il grembo eterno di Dio. Battute a parte, è lì che egli ci invita ad andare. (Giuliano Zanchi).
La sapienza concordistica di Matteo si adopera, con lussuoso talento letterario, a trasportare nell’immagine di questi indefiniti “sciamani” d’oriente, per metà mercanti e per metà astrologi, la potenza onirica dell’antica profezia isaiana, festosa apocalissi dominata dalla luce, immaginazione di un compimento in cui il mondo intero viene calamitato con la forza di attrazione di una splendida presenza. L’incarnazione del Figlio, se merita digressioni in merito alla cronaca simbolizzata della sua nascita umana, rappresenta l’apice dell’aspirazione originariamente universalistica dell’alleanza promessa dal Dio degli eserciti. Essa era da sempre immaginata come rivolta a tutte le genti della terra. La sua promessa, ancorché affidata alla testimonianza di un solo popolo, ha sempre avuto per oggetto l’indistinta passione di Dio per la creazione intera e come destinatario l’intangibile sacrario di ogni libertà umana. I magi attratti dalla stella simbolizzano le genti raccolte dal richiamo universale della rivelazione. L’ “Universalità” dell’evento cristiano, che persino la vicenda terrena di Gesù dovrà pazientemente imparare da una straniera che chiede briciole di pane per i propri cuccioli, sta già anche nella metafora del viaggio con cui l’evangelista confeziona il racconto. Da Ulisse a Pinocchio, da Marco Polo a don Chisciotte, la narrazione umana del senso non ha mai trovato di meglio che un racconto di viaggio per rinnovare le domande legate all’enigmatico itinerario dell’esistenza. Per tutti in fondo, l’avventura è sempre la stessa. Per trovare la propria identità occorre inseguire un desiderio, trovare qualcosa, stare in coda a una stella. Il problema sarà dopo cosa cercare, dove trovarlo, che strade percorrere, di chi fidarsi, come orientarsi. “Universale” è anche il male che ogni volta sorge per opporre la propria invidia al commovente affidamento umano. Sotto le mentite spoglie dell’ossequio e dietro la maschera della filantropia, il potere in cui il male si incarna si affida alla presunta ingenuità dei buoni per infrangere l’attraente e gratuita presenza del bene. Il male non sa esistere che travestendosi da bene. Lo dirà a ragion veduta anche Gesù da grande: state attenti a quelli che si fanno chiamare “benefattori”. Sicché l’ombra del male è già protesa a lambire la vita del Figlio non appena essa comincia a emettere i suoi primi fragili bagliori. Si è già nel pieno della passione in questo esordio di vangelo che fa muovere i suoi attori nello sfolgorio di una notte piena di luci. Questo segno “universale”, miracolosamente contenuto nella minuscola forma umana del neonato, capace di attrarre come un magnete le strade riottose degli umani, avrà il suo concreto compimento nell’immagine definitiva del Cristo crocifisso, incondizionato parto dell’alleanza, giunto a termine tra il ghigno dei malvagi e l’addolorato stupore degli amici. Quello che i magi vedono, attraverso la penna premonitrice dell’evangelista, è già il Figlio che, innalzato da terra, attira tutti a sé. (Giuliano Zanchi).
Nella convenzione umana dei transiti cronologici la liturgia ci saluta con quella forma di augurio che si chiama “benedizione”. Ci facciamo gli auguri non per inerzia scaramantica ma perché ci vogliamo bene. Vorremmo tutto il bene di ciascuno. In questo la parola biblica ci mette sulla via di una coltivazione “laica” della speranza. Accogliamo difatti la benedizione di Dio non come “l’abracadabra” di un sortilegio di cui accaparrare le sillabe, ma come una promessa d’amore di cui riascoltare emozionati il suono. Succede di tutto a questo mondo, eppure Dio non smette di “dire bene di noi, Mentre con presuntuosa ansia di prestazione ci immaginiamo eroi della speranza nel credere in lui, restiamo ingenuamente ignari del fatto che in realtà è “Dio a credere in noi”. Se il nostro tempo possiede una certezza, essa sta tutta entro questi limiti. Ci sono mote cose da imparare dal racconto evangelico che indora questo sommesso mormorare della speranza. Anzitutto dall’euforia dei pastori, trasformati da una sognante tradizione nell’immobile dolcezza di gesso dei mestieri di una volta, certamente popolo di cuori traboccanti di fiducia nella vita con gli occhi spalancati al primo segno di grazia capace di affiorare dalla terra. Da loro s’impara la necessità di condividere l’inatteso dono. La gioia è come il dolore. Ha sempre bisogno di qualcuno che aiuti a portarne il peso. Non esiste felicità individuale. Se non lega ad altri, essa è semplicemente parodia di sentimenti immaginari. Si deve imparare molto dal silenzio di Maria, Il silenzio – così ci insegna, senza dire una parola, la madre del Signore Gesù- non è assenza di pensieri, vuoto delle idee, deserto dell’immaginazione. Non è nemmeno rassegnazione di fronte alla vita che spesso ci lascia senza parole. Il silenzio nasce invece come spazio di distillazione delle cose vissute. Custodire le cose nel segreto e meditarle nel cuore significa edificare alte mura di protezione attorno alla grazia quotidiana che la vita ci fa incontrare offrendo ad essa come casa il nostro corpo: “domus aurea”. Nell’orto chiuso di questa tenace distillazione spirituale è possibile produrre, con insistenza che deve essere instancabile, gli antidoti al risentimento, al conflitto, all’antagonismo, a quella metastasi dei sentimenti che mette l’uomo contro l’uomo. In questa liturgia si chiede pace. Ma ci terrebbe sideralmente lontani dalle nostre possibilità, pur rimanendo al cuore delle nostre preoccupazioni, la retorica della “pace nel mondo”, senza misurare le dirette responsabilità della pace sempre da curare nel tumultuoso mare dei nostri ambigui sentimenti. Si chieda perciò, in questo salto di tempo, perdono per le inimicizie, per i rancori che dividono, per il male che si insinua, con felpata discrezione, persino nel perimetro degli affetti più cari. Si cerchi di essere grati per tutte quelle volte in cui si è riusciti a volersi bene, per quanto si è stati alla stessa tavola, rinnovando l’immenso invisibile miracolo del patto umano. (Giuliano Zanchi)