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Sabato, 14 Febbraio 2015 09:51

Anche Gesù va in collera

328Nel vangelo di questa domenica leggiamo un racconto che ha un inizio improvviso, senza precisazione di tempo e di luogo, un racconto che facilmente ci appare attuale, collocabile qui è ora: è l’incontro tra Gesù e un uomo affetto da lebbra.

Il lebbroso era allora ed è ancora adesso un malato ripugnante, a tal punto che lo si qualificava come un uomo morto. Per un giudeo, poi, la lebbra era segno di un preciso castigo di Dio, una malattia mediante la quale erano stati colpiti per i loro peccati la sorella di Mosè, Miriam (cf. Nm 12,9-10), il servo del profeta Eliseo (cf. 2Re 5,27) e altri peccatori. Grande è l’orrore, terribile la reazione di fronte a questa malattia che devasta fino alla putrefazione della carne il volto e il corpo dei malati. Essendo la lebbra contagiosa, esigeva che il malato fosse escluso dalla convivenza, segregato in qualche luogo deserto e riconoscibile dal grido che doveva emettere qualora vedesse qualcuno avvicinarsi a lui: “Sono impuro! Sono impuro!” (cf. Lv 13,45-46). Un lebbroso appariva dunque come una persona senza possibilità di relazione e di comunione, né con Dio né con gli uomini.

Ed ecco l’incontro tra Gesù e un lebbroso che viene a lui, gli si inginocchia davanti e lo supplica: “Se vuoi, puoi purificarmi!”. Di quest’uomo non sappiamo nulla, né possiamo valutare la sua vita e la sua fede. Certamente ha fiducia in Gesù, che gli pare affidabile; da Gesù è attratto come da un uomo che può fare qualcosa per lui. Con audacia, più che con fede, si avvicina dunque a quell’uomo che merita ascolto, fiducia, forse anche adesione.

E Gesù davanti a costui ha una reazione: proprio perché lo guarda e pensa a cosa significa questa malattia, proprio perché sente il fetore delle sue piaghe e vede il suo viso stravolto, il suo corpo devastato, “va in collera” (orghistheís), adirato per l’intollerabilità del male e del destino che pesa su quest’uomo. Sì, Marco ci narra un Gesù collerico, che, proprio perché è capace di passione, ha una reazione di collera; ci descrive quanto Gesù senta intollerabile una tale situazione per un uomo che è suo fratello, uomo come lui, uguale a lui nella dignità di persona umana.

Ma anche l’evangelista non sapeva che, usando alcune espressioni che testimoniano l’umanità vera e concreta di Gesù, poteva destare stupore, opposizione e giudizio su Gesù. Sempre, infatti, soprattutto tra gli uomini religiosi, ci sono anime mefitiche, talmente tese a una santità formale che si scandalizzano della passione di Gesù e della sua collera. Questi religiosi sono sempre in scena. Per loro Gesù avrebbe dovuto prima pensare a cosa prevede la Legge, poi mostrare il suo sentimento conformemente a ciò che la Legge comanda. E invece Marco, volendo mostrare in modo chiaro e comprensibile i comportamenti di Gesù, dice ciò che per alcuni non è sopportabile: Gesù va in collera, qui come altrove (cf. Mc 3,5: di fronte ai farisei; 10,14: di fronte ai suoi discepoli). Sì, Gesù andò in collera, perché sapeva vivere il conflitto e ribellarsi contro il male, la malattia, la situazione di schiavitù e di segregazione che rendeva come morto quell’uomo. Non era cosa giusta, ed ecco allora la collera di Gesù!

Qualche scriba, però, pensò di correggere questa espressione, che in alcuni manoscritti diventò: “fu preso da compassione” (splanchnistheís; cf. Mc 6,34 e 8,2: di fronte alle folle). Così le persone a bassa frequenza di sentimenti ne sono state soddisfatte… In verità anche nell’espressione “andò in collera” c’era la passione della compassione, ma con questa correzione, che la versione italiana segue, il comportamento di Gesù appare più accettabile.

In quello scatto d’ira, Gesù prende la mano di quell’uomo, lo tocca, entrando così in relazione, anzi in comunione con lui. Mano lebbrosa nella mano di Gesù, contatto vietato dalla Torah, stretta di una carne giudicata demoniaca, e il suo gesto viene accompagnato dalla parola: “Lo voglio, sii purificato!”. “E subito” – annota Marco – “la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato”: quel lebbroso è guarito, la sua fiducia in Gesù ha ottenuto il risultato sperato, la sua preghiera di compassione è stata esaudita. Non è più uno scomunicato, anzi è una persona che è entrata in piena comunione con Gesù, il quale ha eliminato quel male così orribile ed escludente. Questo dovrebbe essere l’atteggiamento del cristiano verso i malati, quando la cura diventa mano nella mano, occhio contro occhio, volto contro volto, un bacio come quello che Francesco d’Assisi seppe dare al lebbroso quale segno dell’inizio di un’altra visione e dunque di un’altra vita.

Ma dopo la guarigione ecco ancora un Gesù che non piace ai religiosi che si nutrono solo di miele. Il testo dice che Gesù, “sdegnandosi con lui, lo cacciò via subito”. Avvenuta la liberazione, Gesù non sta lì a prendere complimenti, a chiedere che si guardi e si constati la sua azione: non è infatti mai tentato dal narcisismo che attende il riconoscimento per il bene fatto e, a costo di sembrare burbero e scortese, si sdegna e scaccia quell’uomo da lui guarito, ammonendolo di non dire niente a nessuno. Gesù non vuole essere riconosciuto per uno che fa miracoli, non vuole che lo acclamino per delle azioni prodigiose, e soprattutto vuole che il segreto riguardo alla sua identità di Messia sia svelato e proclamato quando sarà appeso alla croce. Solo allora è lecito, a chi ha capito Gesù, dire che egli era buono, che era giusto (cf. Lc 23,47), che era il Figlio di Dio (cf. Mc 15,39; Mt 27,54).

Gesù è discreto di fronte alla gente, fa silenzio e fa fare silenzio per non destare l’applauso, conosce l’arte della fuga per sottrarsi al facile consenso degli altri, ma va in collera, si sdegna visibilmente di fronte alla sofferenza, alla menzogna, al misconoscimento della verità, alla pigrizia e alla vigliaccheria delle persone.

Commento al Vangelo di Enzo Bianchi 
Sabato, 09 Agosto 2014 18:56

La mano di Dio tra le tempeste

304I discepoli si sentono abbandonati nel momento del pericolo, lasciati soli a lottare contro le onde per una lunga notte. Come loro anche noi ci siamo sentiti alle volte abbandonati, e Dio era lontano, assente, era muto. Eppure un credente non può mai dire: «Io da solo, io con le mie sole forze», perché non siamo mai soli, perché intrecciato al nostro respiro c'è sempre il respiro di Dio, annodata alla nostra forza è la forza di Dio. Infatti Dio è sul lago: è nelle braccia di chi rema, è negli occhi che cercano l'approdo. E la barca, simbolo della nostra vita fragile, intanto avanza nella notte e nel vento non perché cessa la tempesta, ma per il miracolo umile dei rematori che non si arrendono, e ciascuno sostiene il coraggio dell'altro. Dio non agisce al posto nostro, non devia le tempeste, ma ci sostiene dentro le burrasche della vita. Non ci evita i problemi, ci dà forza dentro i problemi. Poi Pietro vede Gesù camminare sul mare: «Signore, se sei tu, comanda che io venga da te sulle acque». Pietro domanda due cose: una giusta e una sbagliata. Chiede di andare verso il Signore. Domanda bellissima, perfetta: che io venga da te. Ma chiede di andarci camminando sulle acque, e questo non serve. Non è sul mare dei miracoli che incontrerai il Signore, ma nei gesti quotidiani; nella polvere delle strade come il buon samaritano e non nel luccichio di acque miracolose. Come Pietro, fissare lo sguardo su Gesù che ti viene incontro quando intorno è buio, quando è tempesta, e sentire cosa ha da dire a te, solo a te: vieni! Con me tutto è possibile . «E venne da Gesù» dice il Vangelo. Pietro guarda a lui, non ha occhi che per quel volto, ha fede in lui, e la sua fede lo rende capace di ciò che sembrava impossibile. Poi la svolta: ma vedendo che il vento era forte, si impaurì e cominciò ad affondare. In pochi passi, dalla fede che è saldezza, alla paura che è palude dove sprofondi. Cosa è accaduto? Pietro ha cambiato la direzione del suo sguardo, la sua attenzione non va più a Gesù ma al vento, non fissa più il Volto ma la notte e le onde. Quante volte anch'io, come Pietro, se guardo al Signore e alla sua forza posso affrontare qualsiasi tempesta; se guardo invece alle difficoltà, o ai miei limiti, mi paralizzo. Tuttavia dalla paura nasce un grido: Signore salvami! Un grido nel buio, nel vento, nel gorgo che risucchia. E dentro il grido c'è già un abbraccio: ho poca fede, credo e dubito, ma tu aiutami! Ed è proprio là che il Signore Gesù ci raggiunge, al centro della nostra debole fede. Ci raggiunge e non punta il dito per accusarci, ma tende la mano per afferrare la nostra, e tramutare la paura in abbraccio.
Ministranti-di-MnsterOltre quattrocento ministranti provenienti dalla Diocesi di Münster Germania, sono stati accolti nella Chiesa di Campitelli per un incontro di preghiera. Il gruppo è stato  accompagnato dal Vescovo ausiliare S.E. Christoph Hegge che ha presieduto l’incontro Domenica 2 agosto. Papa Francesco martedì 5 agosto alle ore 18  incontrerà 50mila ministranti tedeschi. Il pellegrinaggio romano  dal 4 all'8 agosto prossimi, è la prima tappa del pellegrinaggio internazionale dei ministranti europei che si terrà sempre nella capitale dal 3 al 5 agosto 2015. L’evento, programmato e in seguito organizzato dal Coetus Internationalis Ministrantium (CIM), avrà come tema focale il versetto di Isaia "Eccomi, manda me!" (Isaia 6,8). 

4 agosto 2014
Pubblicato in 2014
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