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Archivio luce sul mistero

Archivio luce sul mistero (242)

Sabato, 24 Dicembre 2011 14:51

Dio nasce

174Mentre i “poteri forti” della cultura mondana divulgano l’apologia del soggetto vincente, emancipato, atletico, iperattivo, esaltando l’ideale della vita esuberante, il realismo della spregiudicatezza, la retorica libertaria dell’autocostruzione, noi riusciamo a rimanere affezionati alla narrazione cristiana di principi che si incarnano nella debolezza, nella nudità, nella dipendenza, la cui icona imperitura rimane l’inerme fragilità di un neonato. Se succede, significa che, nonostante tutto, non siamo ancora perduti. Abbiamo ancora un’anima. Per quanto avvolti e attratti da modelli umani che ci impongono l’eterna irresponsabilità di un’astratta giovinezza di plastica e che ci tengono sotto la mortificante morsa dell’inadeguatezza, ogni tanto, come per un sussulto di residua coscienza, sentiamo la voglia di rinascere, di tornare ad una immaginaria innocenza dove ancora tutto si può fare, dove nessuno ha già scritto per noi gli standard su come dobbiamo essere. La storia di Dio che nasce come ogni altro uomo possiede ancora l’energia narrativa sufficiente ad intercettare questi nostri bisogni di libertà umana. La storia di come è nato Gesù ci fa sentire meno soli. Attenua il nostro disagio, ci protegge dal narcisismo di massa. Il Figlio del Dio degli eserciti viene al mondo mentre l’imperatore, celebrando gli iperbolici riti del potere mondano, organizza un censimento, venendo così subito a contatto con la Storia, quella grande che va sui libri, portata di solito a fare violenza alla storia piccola, quella del limitato segmento delle vite personali. Imperterrita, la Storia fa le sue capriole e detta le sue leggi, senza guardare se una ragazza è incinta e non dovrebbe mettersi in viaggio. La Storia ci travolge spesso, con i suoi “unidicisettembre”, le sue crisi internazionali, le sue depressioni economiche, lasciandoci vagare in un sentiero invisibile alle rilevazioni satellitari. La Storia, con la complicità di coloro che la governano, riduce quasi sempre gli uomini a numeri da segnare su un registro. Però poi esiste il miracolo di questa memoria evangelica capace ancora di farci sentire che Dio conserva una passione illimitata per le piccole storie invisibili e che in quel Figlio che nasce risplende qualcosa che ci può salvare. Ci fortifica il coraggio del Dio dell’alleanza deciso a lasciarsi contenere nella minuscola storia di un uomo, così certo della bontà della propria creazione da farne la dimora del proprio Figlio, dalla quale ribadire, con la silenziosa e ostinata perentorietà della vita, che il senso del tempo sta tutto e solo nel gesto di reciprocità con cui l’amore  trasforma solitudini in legami. Mentre un imperatore misura la grandezza del mondo sommando milioni di individui tutti uguali, il Dio della creazione, nel segreto di una nascita, annuncia che l’avvento di ciascun uomo vale l mondo intero. Non esiste complesso di inadeguatezza di fronte  al gesto con cui il Dio di Gesù ci dichiara, con azzardo tutto umano, di ritenerci degni del suo amore, della sua passione, della sua stessa vita. (Giuliano Zanchi).
Sabato, 17 Dicembre 2011 14:08

Dio ha una casa

173L’ingenua presunzione del re Davide, di cui la Scrittura con superba libertà conserva dentro di sé il dettagliato documento, mette in mostra tutta l’improntitudine a cui può arrivare un uomo appagato, giunto al culmine dei propri progetti, avvolto dalla consolante agiatezza di una vita importante. Essa prende forma attraverso un’ambizione  che va a toccare i limiti stessi di quella trascendenza grazie a la quale il Dio dell’alleanza cerca di proteggere l’infantile invadenza umana . Davide immaginando di barattare con la devozione il senso di colpa della sua esistenza agiata, formula la pretesa di mettere su casa a Dio, avvolgendo la presunzione nell’involucro di pretesti fatui e pelosi. Nell’ambizioso progetto di costruire una casa a Dio, per equiparare la felice condizione di un re che abita “in una casa di cedro”, sta innanzitutto tutta l’ambiguità di una devozione  che pretende di determinare le condizioni del divino ad immagine e somiglianza dell’umano. Poiché il re vive in una casa, anche Dio deve averne una. Ma l’ambizioso progetto tradisce  anche il potere con cui l’uomo devoto pensa di poter definire i confini entro i quali Dio può stare dentro la storia umana. Ogni volta che è successo, la religione si è affrettata a diventare uno strumento di preservazione  di interessi molto umani. Naturalmente attraverso la voce  del profeta, l’Altissimo stesso ironizza su questa boriosità regale travestita da filiale sentimento religioso. Dio ride dell’uomo che si prende troppo sul serio che dimentica la grazia invisibile che ha costruito la sua fortuna, che trasforma una fortuna avuta in dono nell’arroganza paternalistica dell’uomo che si è fatto da sé. La voce di Dio annuncia che sarà ancora una volta l’iniziativa divina a garantire una casa alla boriosa vicenda umana di questo piccolo re terreno. La promessa di una casa risuona come l’offerta di un destino, sulla linea di una discendenza  lungo l’asse di una promessa antica secondo la quale, nella catena delle generazioni, l’Altissimo resta implicato fino a legare a sé il sangue dell’uomo. La casa di Davide, quella che il Dio del’alleanza si premura di costruire, disegna un progetto che attraversa le generazioni, fino ad incontrare l’assenso scandaloso di una ragazza nubile, a cui Dio si rivolge con la libertà  con cui ci si rivolge ad un uomo. Un Dio femminista che toglie di mezzo i maschi di casa, si rivolge direttamente ad una giovane femmina, mettendola in croce di fronte alle ferree convenzioni della sua tradizione, cercandone trepidamente l’assenso per un progetto che l’antico e potente re nemmeno sarebbe stato in grado di immaginare. Solo la sovranità divina può essere così umile da stare con il fiato sospeso di fronte alle labbra di una ragazza. Ma solo grazie a questa divina audacia la promessa rinnovata davanti alla presunzione di Davide ha trovato il suo definitivo compimento. Dio ha una casa. Ma la casa di Dio in mezzo agli uomini è la carne umana del Figlio (Giuliano Zanchi)
Sabato, 10 Dicembre 2011 10:33

Il mondo riconciliato


172Figura anche ingombrante quella del Battista se l’evangelista Giovanni deve impegnarsi a mettere in scena una sorta di quadro didattico attraverso cui esplicitare la corretta gerarchia che deve legare l’ultimo profeta all’autentico messia. L’ambiente che ha generato il Battista e Gesù dev’essere stato abbondantemente contiguo, comune, prossimo, tanto da rendere indiscernibile la linea di confine delle loro rispettive biografie spirituali. Le cerchie dei rispettivi discepoli devono anche essere state tra loro in un qualche antagonismo, forse anche al tempo in cui questo vangelo giovanneo prende forma, chiamandolo dunque al chiarimento sulla natura dei rispettivi maestri. L’evangelista incastona nella lirica del suo prologo una parentesi “dogmatica” incaricata di conferire importanza ma non primato al ruolo del Battista, di riconoscerne il ruolo ma di non equivocarne la natura, di esaltarne la funzione ma di non esasperarne le pretese. Ma non bastando l’unilateralità della sua lezione teologica, l’evangelista Giovanni convoca tutte le voci di una specie di commissione di inchiesta la cui puntigliosità ha lo scopo di produrre la stessa “confessione” del Battista,la sua aperta e inequivocabile dichiarazione di subalternità all’ineguagliabile grandezza messianica di Colui che non viene nominato ma si sa di imminente apparizione. Tutto viene postillato, con quello storicismo tipico che si va riscoprendo in Giovanni, da un preciso riferimento di luogo, che deve imprimere alla scena – e dunque alla confessione – un sigillo di inoppugnabile oggettività storica. In gioco è l’identità del Cristo alla cui più delicata apparizione la presenza del Battista deve aver fatto molta ombra. Come in Marco entrano in gioco il ruolo del battesimo e il richiamo a Isaia, ma che per Giovanni teologo dal volo d’aquila, sono elementi entro cui fare le debite distinzioni, mettendo in luce il senso nuovo e unico che essi acquistano nell’orizzonte della venuta messianica. Pure anticipazioni, ombre tipologiche dei compimenti che diverranno con Gesù, essi saranno il distintivo della scena inaugurale dell’ingresso dell’Altissimo nella storia degli umani. Il battesimo non sarà più emblema di una terapia morale richiesta da un’alleanza avvolta ancora dall’ombra, ma sarà quello operato nello Spirito, autentica ricreazione dell’uomo interiore, nuova genesi dell’umano, operata mediante la carne umana del Figlio, alla cui perfezione definitiva nessuno potrà mai togliere più nulla. Quanto a Isaia, sulla scia della felice immaginazione di un mondo riconciliato alla luce dell’alleanza, con Gesù acquisterà tutto il realismo della forma tipica dell’apparire di Dio nel suo Messia: si vedranno storpi camminare, ciechi vedere, prigionieri in libertà, fragilità recuperate, umanità reintegrate. E tutto questo sarà il segno che Dio opera. La venuta del Regno verrà sottratta all’immaginazione giudiziaria del Battista.Verrà consegnata invece alla letizia di una grazia indefettibile. Quella di cui Paolo insegna a gioire ai suoi cristiani di Corinto. (Giuliano Zanchi)
Sabato, 03 Dicembre 2011 17:34

La storia va lavata

Ism171La parola evangelica nasce proprio come esercizio di vigilanza. Marco è uno di quelli che ha avuto occhi per vedere. Quando “Gesù Cristo, Figlio di Dio” si è fatto vivo, lui lo ha riconosciuto. Nel suo perfetto atto di perspicacia teologale. Marco è anche uno di quelli che sa tirare subito i fili della storia, sa collegare le trame spesso invisibili di una vicenda che si spiega a partire da fatti lontani, sa gettare ponti fra l’apparente senzazione del presente e i chiari segni del passato. Stava già nella potente visione del profeta Isaia l’idea di qualcosache ora si traduce, sotto gli occhi di tutti, in un fatto evidente. Marco allora esplicita la coerenza di questa storia che, cantata con passione da un antico profeta, si è materializzata nella presenza reale di un mediatore atteso da sempre. Il primo evangelista, veicolo della testimonianza di Pietro, si disinteressa completamente di ricamare sulle origini umane di Gesù, allacciando la storia direttamente nel punto in cui essa manifesta le sue saldature più incandescenti con l’Antica Alleanza di Israele. La Nuova Alleanza irrompe attraverso l’irruente presenza dell’ultimo profeta dell’Antico Testamento. Il Battista, così Marco lo fa entrare in scena, appare come un personaggio disegnato dalla penna di Isaia, direttamente proiettato dalla sua immaginazione nel cuore di un’alleanza in procinto di rinnovarsi. Di quell’antico spasimo profetico Giovanni conserva tutta la tensione penitenziale, ne eredita l’indignazione, ne prolunga il senso critico, concentrando nell’imminente comparsa messianica l’esigenza di un atteggiamento religioso fondato sulle basi solide di una giustizia anche molto umana e terrena. Giovanni Battista fa ricominciare tutto da qui, da quella conversione con cui, dalla notte dei tempi, il Dio dei profeti chiama la devozione dell’auomo a passare dai sacrifici alla misericordia, dagli olocausti alla giustizia, dalla presunzione di un’appartenenza alla responsabilità di una relazione. A meno di tanto l’avvento del Figlio resterebbe, per l’ennesima volta, un’occasione mancata. La storia va lavata dai molti fraintendimenti con cui essa ha tenuto l’immagine di Dio ostaggio delle caricature umane. Giovanni battezza  e offre il perdono appropriandosi di una pratica  in auge nel calore spirituale che lo circonda. La fa diventare strumento simbolico di una sorta di palingenesi universale di Colui che deve venire sarà la definitiva chiave  di volta e che l’Apostolo Pietro scrivendo con leggittimo ed ingenuo realismo ai suoi cristiani, immagina come un vero dissolvimento della scena terrestre, una fusione al color bianco di tutti gli elementi di fronte alla presenza irresistibile e definitiva del Figlio che ritorna. La voce che chiama nel deserto, attraverso lo strumento riproduttore della liturgia, risuona nel presente di ogni discepolo, echeggia nello spazio di ogni nuovo cammino, ammonisce ancora il battezzato di oggi, mettendogli sotto gli occhi la mai raggiunta corrispondenza alla grazia secondo un battesimo di Spirito. Molto ancora resta da fare. (Giuliano Zanchi)
Venerdì, 18 Novembre 2011 09:51

Il bene misura della storia


lsm170Ciò che avete fatto ai miei fratelli, è a me che l'avete fatto. Il Padre è nei cieli, ma i cieli del Padre sono i suoi figli. Il povero è il cielo di Dio. Di più: è fratello di Dio. Nel suo cielo entreremo, solo se saremo entrati nella vita del povero. Perché il prossimo è simile a Dio (Mt 22,39). Un detto chassidico esorta: se un uomo chiede il tuo aiuto, non gli dire devotamente: «rivolgiti a Dio, abbi fiducia, deponi in Lui la tua pena», ma agisci come se non ci fosse Dio, come se in tutto il mondo ci fosse uno solo che può aiutare quell'uomo, tu solo. Una cosa mi affascina nel Vangelo: argomento del giudizio non sarà tutta la mia vita, ma le cose buone della mia vita; non la fragilità, ma la bontà; il Padre guarderà non a me, ma attorno a me, alla porzione di lacrime e di sofferenti che mi è stata affidata, per vedere se qualcuno è stato da me consolato, se ha ricevuto pane e acqua per il viaggio, coraggio per oggi e per domani. Dio non andrà in cerca della nostra debolezza, ma del bene fatto. Misura dell'uomo e di Dio, misura della storia è il bene. Davanti a Lui non temo la mia debolezza, ho paura solo delle mani vuote. Capire che si ha bisogno di noi, ora, è allora più importante che chiederci quale giudizio verrà dato, domani, alle nostre azioni. Ora è il tempo in cui sono io a giudicare il povero, e Dio stesso in lui; ora io sono per il bisognoso gesto di benedizione o atto di rifiuto. Ebbene questo stesso giudizio, quello che io ho riservato al povero, tornerà su di me nell'ultimo giorno: non c'è domani per chi non si apre al bisognoso, per chi potendolo non si è fatto pane all'affamato. Matteo presenta sei opere, vaste quanto è vasto il campo del dolore umano. A nessuno di noi è chiesto di compiere miracoli, ma di prenderci cura. Non di guarire i malati, ma di visitarli; di accudire con premura un anziano in casa, custodire in silenzioso eroismo un figlio handicappato, aver cura senza clamori del coniuge in crisi, di un vicino che non ce la fa. Esigente bellezza di questo Vangelo: prendersi cura del fratello è così importante che Dio lega la vita eterna ad un pezzo di pane dato all'affamato; è così facile che nessuno è senza un po' di tempo o di acqua o di cuore, da non poter essere salvo. Il giudizio però prende sul serio anche la fragile libertà umana: è possibile fallire la vita. Andatevene da me, maledetti. Lontani dal povero, siamo lontani da Lui, lontani da noi stessi. È questa la perdizione: lontananza dalla vita. È il giudizio di tutte le genti,Vangelo rivolto ad ogni uomo, cristiano, ebreo, musulmano, buddista, laico: l'unica cosa che di noi rimane è la nostra capacità di amare, nel tempo e per l'eternità. Ogni altro, è sempre l'Altro. Nel giudizio ultimo Dio non pone se stesso al centro, ma si dimentica dentro i diritti dei poveri, dove sogna un uomo senza fame e lacrime, senza prigioni e malattie, felice e salvo, simile a Lui. Il futuro non si attende, si genera; il nostro cielo, il nostro avvenire è frutto del bene che io e tu, che tutti abbiamo donato al Lazzaro innumerevole della terra. (E. Ronchi)
Giovedì, 10 Novembre 2011 09:42

Affidabile


lsm169La parabola dei talenti è una lieta notizia contro la paura, che stravolge il rapporto con Dio e rende sterile la vita. L'ultimo servo non ha capito che, affidandogli il talento, il padrone vuole fare di lui un amico; che quel talento è un dono di comunione, un atto di fiducia. Su tutto invece incombe la paura del castigo, e il dono da opportunità si trasforma in incubo. Il servo ha paura di Dio! Ne ha un'immagine orribile: sei duro... tu mieti dove non hai seminato... Errore fatale: si sbaglia su Dio e quindi sbaglia la vita; diviene, invece che amico, schiavo inerte, Adamo senza più giardino. Perché solo quando ti senti amato dai il meglio di te stesso, e mai la paura ti libera dal male. Dio invece sorprende i servi. Non vuole indietro i talenti affidati, raddoppia la posta, la moltiplica: sei stato fedele nel poco ti darò autorità su molto. Non di una restituzione si tratta, ma di un rilancio. Noi non esistiamo per restituire a Dio i suoi doni. Questa immagine, dettata dalla nostra paura, immiserisce Dio. Noi viviamo per essere come Lui, a nostra volta donatori: di pace, libertà, giustizia, gioia. Cose di Dio, che diventano seme di altri doni, sorgente di energie, albero che cresce, orizzonte che si dilata, grazia su grazia. Gloriosa e gioiosa pedagogia di vita. La parabola dei talenti è il poema della creatività. E senza voli retorici. Nessuno dei tre servi crede di dover salvare il mondo. Tutto invece odora di casa, di vite e di olivi, o, come nella prima lettura, di lana, di fusi, di lavoro e di attesa: fedele nel poco. Il mondo e la vita ci sono affidati come un dono che deve crescere, un giardino incompiuto che deve fiorire. Una spirale di vita crescente è legge alla creazione. Pena il non senso della vita. Dopo la lunga assenza di Dio, la sua lunga fiducia in noi, il giudizio non sarà sulla quantità del guadagno, ma sulla qualità del servizio; non sul numero, ma sulla verità dei frutti. Non esiste una tirannia della quantità nel Regno dei cieli: fedele nel poco. Quel giorno, dice un racconto chassidico, non mi sarà chiesto perché non sono stato come Mosè o Elia o uno dei profeti. Ma solo perché non sono stato me stesso. Devo camminare con fedeltà a me stesso, emozionato e disciplinato servo della vita, vero della verità tracciata in me da Dio. Nessuno è senza talenti. È legge della creazione. E vado avvolto da doni di Dio. Ogni creatura che incontro è un talento, da custodire e lavorare per fare ricca la mia e l'altrui vita. Ognuno è talento di Dio per gli altri. «Come talento io ho ricevuto te». Lo può dire la sposa allo sposo, il figlio al padre, l'amico all'amico: sei tu il mio talento! Poterlo dire a qualcuno, poterlo dire a molti, per entrare così con passo creatore nella liturgia della vita. (E. Ronchi)


Mercoledì, 09 Novembre 2011 09:39

Dieci piccole luci

lsm168Ecco lo sposo! Andategli incontro! In queste parole trovo l'immagine più bella dell'esistenza umana, rappresentata come un uscire e un andare incontro. Uscire da spazi chiusi e, in fondo alla notte, lo splendore di un abbraccio. Dio come un abbraccio. L'esistenza come un uscire incontro. Fin da quando usciamo dal grembo della madre e andiamo incontro alla vita, fino al giorno in cui usciamo dalla vita per incontrare la nostra vita, nascosta in Dio. Il secondo elemento importante della parabola è la luce: il Regno di Dio è simile a dieci ragazze armate solo di un po' di luce, di quasi niente, del coraggio sufficiente per il primo passo. Il regno di Dio è simile a dieci piccole luci, anche se intorno è notte. Simile a qualche seme nella terra, a una manciata di stelle nel cielo, a un pizzico di lievito nella pasta. Ma sorge un problema: cinque ragazze sono sagge, hanno portato dell'olio, saranno custodi della luce; cinque sono stolte, hanno un vaso vuoto, una vita vuota, presto spenta. Gesù non spiega che cosa sia l'olio delle lampade. Sappiamo però che ha a che fare con la luce e col fuoco: in fondo, è saper bruciare per qualcosa o per Qualcuno. L'alternativa centrale è tra vivere accesi o vivere spenti. Dateci un po' del vostro olio perché le nostre lampade si spengono... la risposta è dura: no, perché non venga a mancare a noi e a voi. Il senso profondo di queste parole è un richiamo alla responsabilità: un altro non può amare al posto mio, essere buono o onesto al posto mio, desiderare Dio per me. Se io non sono responsabile di me stesso, chi lo sarà per me? Parabola esigente e consolante. Tutte si addormentano, sagge e stolte, ed è la nostra storia: tutti ci siamo stancati, forse abbiamo mollato. Ma nel momento più nero, qualcosa, una voce una parola una persona, ci ha risvegliato. La nostra vera forza sta nella certezza che la voce di Dio verrà. È in quella voce, che non mancherà; che verrà a ridestare da tutti gli sconforti; che mi rialza dicendo che di me non è stanca; che disegna un mondo colmo di incontri e di luci. Dio non ci coglie in flagrante, è una voce che ci risveglia, ogni volta, anche nel buio più fitto, per mille strade. A me basterà avere un cuore che ascolta, ravvivarlo come una lampada, e uscire incontro a un abbraccio. (E. Ronchi)
Venerdì, 25 Novembre 2011 17:09

Il miracolo dell’incontro

Editoriale-1La forma del desiderio è per sua natura connessa all’inconoscenza. Sappiamo di volere ma non sappiamo cosa. Persino quando pensiamo di sì. Restiamo in fondo molto simili a quei bambini che aspettano un giocattolo con un’intensità definitiva e, un attimo dopo averlo ricevuto, lo abbandonano come morto sul pavimento. L’oggetto si è fatto piccolissimo. Il desiderio però è rimasto vivo e gigantesco. Pronto per il prossimo obiettivo. Il tempo poi ci insegna che il metabolismo  desiderio procede del tutto ai margini della pretesa di programmazione con cui mettiamo in fila gli splendenti oggetti delle nostre voglie. La vita dei nostri legami ha perfetta esperienza della natura di rivelazione da cui il desiderio trova le sue risposte. Le più intense storie affettive si sono presentate precisamente così. Dopo vent’anni d’amore due persone, guardando all’indietro la propria vicenda, la scoprono improvvisamente come la fortuita conclusione di una catena di circostanze senza la cui fatalità non si sarebbe prodotto nessun incontro: sarebbe bastato un ritardo di qualche minuto , girare un angolo piuttosto che un altro, volgere lo sguardo in un’altra direzione, e quella storia non avrebbe avuto la sua scintilla. L’incontro ha sempre la forma del miracolo. Non si, di cui può sapere quando l’altro passerà nello spazio della nostra vita. Lo si viene a sapere solo quando succede. Ma è in quel preciso istante che bisogna avere occhi per vedere. Non si deve perdere l’occasione. Se se ne è capaci, si genera una storia, un darsi del tempo, che è il vero oggetto del desiderio. La rivelazione del divino di cui la storia anticotestamentaria e la testimonianza evangelica continuano a custodire il fulgore inatteso, ha infiltrato la sua logica nel meccanismo già molto umano di questa vigilanza richiesta dal desiderio umano. Nemmeno di quell’Altro che è il Dio di Gesù si possono programmare le apparizioni e prevedere i segni. Quando la storia li ospiterà, saranno lì da vedere. Certo bisognerà avere lo sguardo ben addestrato al rovesciamento. Soprattutto in quel tempo in cui la storia terrena  del Signore Gesù avrà lasciato il campo all’attesa paziente del suo ritorno nel compimento di tutte le cose. Bisognerà stare attenti, nel tempo dell’assenza, a non equivocare. Segni della sua presenza saranno diffusi ovunque. Ma bisognerà avere occhio per vederli. Saranno sempre quelli di un tempo. Dove la giustizia fiorisce, dove l’integrità dell’uomo è preservata, dove la fraternità è difesa con le unghie e con i denti, dove la libertà è ripristinata per tutti , proprio lì in quel momento, sarà la mano del Signore ad agire. Inequivocabilmente. “saldamente” come dice Paolo. Farsi l’occhio su come il Signore Gesù ci ha insegnato a intravedere segni della sua presenza ci consente il discernimento del nostro presente a cui non far mancare “più alcun carisma”. Ma terrà vivo anche il nostro desiderio per tutto quello che deve ancora compiersi. Qualcosa che nessuno di noi può costruire nemmeno con l’immaginazione. Ma che, quando apparirà, sarà chiaro come il sole. (Giuliano Zanchi).
Martedì, 08 Novembre 2011 10:53

Potere è servire



Editoriale-okSono io di quelli che dicono e non fanno? La parola di Dio brucia le labbra se pronunciata male, ma brucia anche a pronunciarla senza che sia vissuta. E capisco la tentazione dei farisei, è la mia: accontentarsi di dire, appagati dalle parole. Dico parole di un fuoco che non mi arde dentro? Quando il mio compito primo non è neppure dire o proclamare, ma è ascoltare Dio. Il vangelo elenca tre errori che svuotano la vita. L'ipocrisia: dicono e non fanno. L'incoerenza è dentro di me, parte della mia vita. Eppure, non è l'incoerenza di chi è ancora lontano dalla Sua statura che Gesù condanna, ma l'ipocrisia dei pii e dei potenti, di chi non si sforza più, e lo giustifica. La vanità: tutto fanno per essere ammirati. Tutto, perché lo spettacolo sia applaudito. Conta ciò che gli altri vedono di me, io non sono che la mia immagine, sempre più straniera; vivo di riflesso, di echi, mi angoscia o mi esalta il giudizio degli altri. Vanità, che rende vuoto l'intimo. Il gusto del potere: impongono pesanti fardelli a tutti. Ho forse bisogno anch'io di abbassare qualcuno per sentirmi superiore? Di far chinare teste per sentirmi grande? Di essere severo, per sentirmi giusto? Il Vangelo offre altre regole per la verità della vita: l'agire nascosto invece dell'apparire, la semplicità invece della doppiezza, il servizio invece del potere. Il più grande comandamento, diceva Gesù, è «Tu amerai». Il più grande tra gli uomini, dice ora, è colui che traduce l'amore nella divina follia del servizio: il più grande tra voi sia vostro servo. Il folle in Cristo è ormai il più intelligente. Paradosso del vangelo, invocato da molti: Io mi aspetto che i cristiani ogni tanto accarezzino il mondo contro pelo» (Sciascia). Questa è la strada contromano di Gesù: Dio non tiene il mondo ai suoi piedi, è ai piedi di tutti. Dio non è il padrone dei padroni, è il servitore che in Gesù lava i piedi ai discepoli. Non è il Signore della vita, è di più, il servo di ogni vita. I grandi del mondo si costruiscono troni di morti, Dio non ha troni, cinge un asciugamano e vorrebbe fasciare tutte le ferite della terra. Dio come un servo: che non esige, sostiene; non pretende, si prende cura; non rivendica diritti, risponde ai bisogni. Servitore ineguagliabile. E se una gerarchia nella chiesa deve sussistere, sarà rovesciata rispetto alle norme della società terrena: Voi siete tutti fratelli. E poi rovesciata di nuovo, da Cristo, che si è fatto fratello, ma poi da fratello si è fatto ultimo. Gesù cambia la radice del potere, la capovolge al sole e all'aria. E rivela che ogni uomo è capace di potere se è capace di servizio. Servizio: questo il nome nuovo, il nome segreto della civiltà, perché questo è lo stile di Dio.(E. Ronchi)

Sabato, 22 Ottobre 2011 17:52

Il prossimo simile a Dio



lsm166Amerai con tutto? con tutto? con tutto? Per tre volte Gesù ripete l’appello alla totalità, all’impossibile. Perché l’uomo ama, ma solo Dio ama con tutto il cuore, lui che è l’amore stesso. Ripete due comandi antichi e noti, ma aggiunge: il secondo è simile al primo. Amerai il prossimo è simile ad amerai Dio. Il prossimo è simile a Dio, ha corpo, voce, cuore «simili» a Dio. Questo è lo scandalo, la rivoluzione portata dal Vangelo. Ama Dio con tutto il cuore. Eppure, resta ancora del cuore per amare il ma­rito, la moglie, il figlio, l’amico, il prossimo e perfino il nemico. Dio non ruba il cuore, lo moltiplica. Non è sottrazione ma addizione d’amore. La novità del cristianesimo non è il comando di amare Dio: amano il loro Dio molti uomini, lo fanno i mistici di tutte le religioni. Neppure quello di amare il prossimo come te stesso è proprio del cristianesimo, presente com’è nel primo Testamento. La novità del cristianesimo non è l’amore, bensì l’amore come quello di Cristo. Gli uomini amano, il cristiano ama al modo di Gesù. L’amore è Lui: quando lava i piedi ai discepoli, quando piange per l’amico morto, quando esulta per il nardo profumato di Maria, quando si rivolge al traditore chiamandolo amico, e prega per chi lo uccide, e neppure il suo sangue tiene per sé, e ri­comincia dai più perduti, e intende cancellare il concetto stesso di nemico. Amatevi come io vi ho amato. Non quanto, ma come; non la quantità ma lo stile. O rischiamo di esserne schiacciati. Impossibile amare quanto lui, ma possibile seguirne le orme, coglierne il sapore, il lievito, il sale e immetterlo nei giorni: come ho fatto io, così anche voi. Amerai. Tutto il nostro futuro è in un verbo, presentato però non come una ingiunzione, un secco imperativo, ma coniugato al futuro, perché amare è azione mai conclusa, perché durerà quanto durerà il tempo. Perché è un progetto, anzi l’unico. E dentro c’è la pazienza di Dio. Un futuro che traccia strade e indica una speranza possibile. Non un obbligo, ma una necessità per vivere, come respirare. Amare, voce del verbo vivere, voce del verbo morire. Cosa devo fare domani, Signore, per essere vivo? Tu amerai. Cosa farò l’anno che verrà, e poi dopo, per il mio futuro? Tu amerai. E l’umanità, il suo destino, la sua Storia? Solo questo: l’uomo amerà. Amare vuol dire non morire. Va’ e anche tu fa’ lo stesso. E troverai la vita. (E. Ronchi)
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