Cookie Consent by Popupsmart Website

stemma e nome

Visualizza articoli per tag: luce sul mistero

Sabato, 03 Marzo 2012 17:04

Fede nell’alleanza

184Il fascino irrequieto esercitato dal racconto del mancato sacrificio del figlio di Abramo, su cui giustamente sono stati versati fiumi di inchiostro, ha la consistenza delle emozioni catartiche indotte dalle tragedie greche. Il tema di fondo, del resto, staziona attorno a orbite del tutto simili. L'incommensurabile fragilità della libertà umana contro l'indecifrabile strapotere del divino. La libertà non è che un perimetro illusorio? Il divino è puro arbitrio a dimensione trascendente? L'vventura umana è forse il periglioso camminare in punta di piedi sul filo di rasoio della dipendenza? Esiste qual­cosa di sacro che non sia perciò stesso dispotico? Nelle antiche tragedie - come si sa - il peso del divino è schiacciante. La libertà, più che umana, è eroica. La testimonianza biblica - come testimonia questo controverso racconto - conserva la questione. Mantiene persino il copione di una tragedia standard in cui il divino mette alle corde l'uomo imponendogli il sacrificio più disumano che si possa immaginare. Ma la strategia del racconto è precisamente quella di disinnescare il cortocircuito di fondo. Si esprime in forma narrativa quello che nella realtà è una fondamentale conquista teologica. Il Dio dell'alleanza non ha certamente bisogno di prove del sangue per tenere viva la sua alleanza con gli umani. Ci vorranno la Legge e i Profeti, lungo secoli di un duro e continuo esercizio di riscrittura, per radicare il popolo dell'alleanza nelle impegnative conseguenze legate a questa convinzione. Ma questa nuova sapienza, che consente all'uomo di rivolgersi a Dio secondo il registro della confidenza e non dell'asservimento discende direttamente dal monte su cui si è impedito alla fede di Abramo di esprimersi in forma disumana. L'umanità di Dio ha cominciato lì a risplendere. Nell'incarnazione del Figlio essa avrebbe dovuto riaccendersi in modo del tutto definitivo. Sempre sopra una montagna - dove nella Scrittura accade ogni evento di rivelazione essa dà a vedere l'abisso teologale di cui è na­scosta e quotidiana manifestazione il corpo umano di Gesù. Marco, mentre imbastisce questo racconto di sapore del tutto escatologico non è altro che una variante delle apparizioni postpasquali del Risorto - è cosciente di presentare una sorta di itinerario iniziatico a beneficio del discepolo. Come tanti Isacco, ignari discepoli vengono condotti in cima al monte per comprendere la vera natura del divino che si rivela nella vita del maestro di Nazareth. Intanto essa resta incomprensibile se non compresa alla luce della Legge e della Profezia Mosè ed Elia - esattamente come per i frastornati discepoli di Emmaus. Guardate Gesù alla luce della Legge e dei Profeti e diventa più bianco della neve.

Tuttavia questa rivelazione gloriosa del Figlio sarà vera gloria soprattutto nell'atto della donazione suprema. Allora lì si capirà fino in fondo la profonda umanità del Dio dell'alleanza. Se, per tenerla viva, qualche figlio si deve sacrificare, Dio sacrifica il suo, non quello degli altri. Chi più del Padre di Gesù ha fede nell'alleanza? (Giuliano Zanchi)


 
Etichettato sotto
Sabato, 25 Febbraio 2012 14:21

I primi passi

183Questa specie di evangelo in nuce che Pietro, o chi scrive per lui, depone tra le righe di una lettura indirizzata alla sua comunità, ha tutta la consistenza di una Summa teologica ridotta ai minimi termini, ma in grado di avvitare in un unico punto di considerazione  tutte le tappe essenziali della costruzione salvifica amorevolmente edificata attorno alla vita umana. L’autore di questa lettera ricongiunge, con una sola manciata di parole, le arcate temporali di un’architettura della grazia che  nel Cristo risorto la sua chiave di volta. Si parte difatti dalla sua morte. Atto sacrificale dalla portata definitiva dal cui spiraglio il fendente della grazia divina  riesce a penetrare nei recessi dove stazionano in attesa le generazioni di un’alleanza ormai antica. Finalmente raccoglie i suoi frutti la pazienza divina. La salvezza di Noè si può guardare adesso come profezia di un miracolo incalcolabilmente più efficace. Stesso segno dell’acqua. Ma, grazie alla pasqua del Figlio, veicolo di una riconciliazione universale, capace ormai di vincolare i confini dello spazio e di penetrare, da cima a fondo i depositi del tempo. A partire da qui l’architettura teologica rimbalza direttamente oltre la storia e al di là del tempo. Solo dall’alto di questa vertiginosa visione si può inquadrare  nell’ampio reticolato viario della vocazione cristiana l’elementare segmento di conversione verso cui s’imbocca il discepolo di oggi, chiamato ancora alle elementari distanze della sequenza quaresimale, come i primi tentennanti passi di un bambino che impara ancora a muovere le gambe. La liturgia con le sue selezioni bibliche, ricollega simbolicamente il cammino al tempo delle origini, a quel discernimento originario degli spiriti che costituisce la sostanza del mito genesiaco, evocato in questo caso attraverso la grande prova del diluvio. Nell’economia dei primi undici capitoli di Genesi, che sono una sorta di unitario romanzo delle origini, la vicenda del diluvio rappresenta come l’esito di un dilagare inarrestabile del male che coincide con una ferma e irremovibile conferma dell’alleanza. Questo non è un Dio portato a pentirsi. Se necessario, rimodella all’infinito la sua creazione, ripartendo da quel poco di fango buono che rimane. Il resto è semplice congettura umana. L’accento è infatti posto sulla grande scena in cui il Dio degli eserciti viene descritto come un guerriero che appende in cielo il proprio arco, deciso ad attaccarlo per sempre al chiodo, per liquidare una volta per tutte la logica dispotica del sacro arcaico. Ma la prova non è originaria perché avviene in un presunto inizio cronologico. Essa è originaria perché rappresenta il motore enigmatico di ogni desiderio. Sempre e ovunque esista un essere che voglia considerarsi umano. Nemmeno il Figlio può realmente immettersi in una reale avventura umana senza attraversare il crogiolo del desiderio messo alla prova. Marco la racconta con laconica levità. A Marco basta assicurarci dal fatto che nulla è stato risparmiato al Figlio (Giuliano Zanchi)


 
Etichettato sotto
Sabato, 18 Febbraio 2012 11:29

Basta una parola

182Agli occhi assuefatti di uno scriba integrato negli schemi delle convenzioni religiose appare già un'idea limite una remissione delle colpe da applicare a un paralitico la cui disgrazia è sufficiente ratifica del suo debito morale. La supponenza poi con cui Gesù se ne fa protagonista, beh, quello sembra del tutto intollerabile. I nodi delle questioni si assommano. La prima domanda è certamente quella che riguarda quest'uomo paralitico, ennesima prova vivente di un'equazione a cui persino l'antica fede non ha mai definitivamente rinunciato, continuando a leggere fra le righe della disgrazia umana la giustizia impeccabile della volontà di Dio: non vorremo noi assolvere qualcuno su cui l'Altissimo ha già emesso la sua evidente sentenza!

La seconda questione viene aperta da questo disinvolto rabbino deciso a pronunciare, con sconcertante leggerezza, parole di perdono come estraesse sostanze da un proprio patrimonio: non vorrà pretendere di giudicare al posto di Dio!

Marco prepara del resto molto bene il contesto di questa irritazione raccontando in modo molto plastico e molto commovente l'inventiva audacia di gente che ha deciso fino in fondo di essere fraternamente accanto allo sfortunato sfidando pure l'infausta scomunica di cui l'amico appare portatore. Pare di vedere questi teologi della Scrittura trattenere l'impazienza per l'invadente sceneggiata di scoperchiare un tetto e mettere al centro dell'attenzione un rifiuto umano già messo ai margini dalle leggi sempiterne di Dio. Pare di sentirli protestare mediante la cantilena del loro catechismo.

Tutto per un attimo rimane un semplice agone di parole. Una teologia contro un'altra. Un'eresia in faccia a un'ortodossia.

Il segno però interviene a sciogliere inutili equivoci di scuola. Disquisire del perdono è un'attitudine alla portata di tutti. Dare vita alla grazia è solo di chi può amministrarne le ragioni. Vogliamo vedere? Basta una parola, come il giorno della creazione, e l'informe ritrova integrità. Prendi la tua barella e torna a casa. La sapienza narrativa di Marco, con laconicità traboccante di ironia, disegna la silenziosa e quasi meccanica obbedienza del miracolato: che si alza, prende la sua barella, e se ne va. Manca solo il sonoro per l'ovazione di gente semplice perfettamente cosciente di aver visto compiersi, in quel preciso istante, la vera volontà di Dio. Non solo il Dio di Gesù non consegna alla disgrazia fisica l'uomo peccatore, ma quando ne incontra uno si comporta così. E i teologi, tutti a riscrivere i loro saggi.

Perché chi veramente ha penetrato, seppure nel confuso istinto della fraternità umana, i meandri dorati dei pensieri di Dio, sono quei quattro che si prendono la briga di calare una barella da un tetto. È il movente di quella prossimità quasi animale, immediata, tenace, che lambisce con più approssimazione di ogni altra sapienza teologica i lembi dei pensieri di Dio. A Gesù basta vedere lo spettacolo di questa fede, questa esibizione di elementare resistenza umana, per pronunciare parole che Dio ha in animo da sempre. (Giuliano Zanchi).

 
Etichettato sotto
Sabato, 11 Febbraio 2012 13:51

Liberaci dal male

181I l legame del male al peccato è arcano. Non si tratta naturalmente dell'ovvia corrispondenza fra un male perpetrato che configura immediatamente un peccato conclamato. Non è tanto in questione la colpa di chi ha compiuto il male. Ma, più enigmaticamente, del senso della colpa che affiora alla coscienza di chi il male gli tocca patirlo. Appena toccato nella carne, l'essere umano si chiede istintivamente per quale responsabilità debba patire quel dolore. Il paradosso è di quelli radicali che chiamano in causa la costitutiva contingenza umana. Il dolore, anche quando è semplicemente subìto, non è mai percepito come innocente. L'irragionevolezza del dolore invoca responsabilità che l'uomo si sente costretto a proiettare su di sé. La forza del male del resto, nella sua oscura invincibile potenza, fa sempre la sua apparizione con i tratti inconfondibili del sacro.

A questo enigma, incandescente e oscuro a un tempo, la religione ha offerto spesso la sua cornice teologale. Nemmeno nell'antica alleanza, patria letteraria e spirituale del Dio della misericordia e delle viscere, sa evitare l'equazione che collega i sintomi della malattia all’impurità morale, il dolore alla colpa, la sofferenza all'espiazione. La verità dell'equazione sta nel fatto che il male documenta quell'irre­solutezza umana la cui ricomposizione rinvia necessariamente alla giusta relazione con Dio. La sua falsità sta nel semplificare questo rinvio in un atto di meccanica autoritaria decisione divina. Gli amici teologi di Giobbe, ci si ricorderà, sono l'insuperabile incarnazione letteraria della teorizzazione dogmatica di quella falsità. Potere e strapotere del sacro arcaico. La sua potenza, così onnipotente da es­sere prepotente, tutela la propria sovrana grandezza mediante un giustizialismo che adotta come moneta di scambio il dolore della carne. Essa è dunque documento della scomunica divina. Naturalmente si trasforma anche in esclusione sociale.

Di queste abiette e cupe convenzioni, come si sa, Gesù sarà metodico maestro di sospetto. In esse egli vede nascosta la propensione umana a forgiare caricature del divino a uso e consumo di ben discutibili ordini sociali. Ma la sua vocazione (fin dal principio dei tempi) di essere icona veritiera del Dio dell'alleanza gli impone di scagionare l'immagine di Dio dalle infamie attribuite ad essa da ogni religione da bancarella. I segni di guarigione, che il Figlio opera fra la costernazione stessa di chi ne è oggetto diretto, hanno precisamente questa ragione. Essi si intendono come rivelazione in atto del Dio vero che, di fronte all'uomo fragile, si china ristabilendone l'integrità. Di questo ordinario miracolo non si dovrà fare propaganda ai quattro venti. Il beneficiato ne farà personale atto di fede. Ma che almeno ai sacerdoti però ne sia mostrata la tangibile evidenza. Il loro accertamento è chiamato a leggere il fenomeno clinico come rivelazione dell’Altissimo. Eppure è difficile, per quanto maldestro, chiudere la bocca alla meraviglia. (Giuliano Zanchi) 

 
Sabato, 04 Febbraio 2012 17:32

Il mistero del dolore

180Il legame del male al peccato è arcano. Non si tratta naturalmente dell'ovvia corrispondenza fra un male perpetrato che configura immediatamente un peccato conclamato. Non è tanto in questione la colpa di chi ha compiuto il male. Ma, più enigmaticamente, del senso della colpa che affiora alla coscienza di chi il male gli tocca patirlo. Appena toccato nella carne, l'essere umano si chiede istintivamente per quale responsabilità debba patire quel dolore. Il paradosso è di quelli radicali che chiamano in causa la costitutiva contingenza umana. Il dolore, anche quando è semplicemente subìto, non è mai percepito come innocente. L'irragionevolezza del dolore invoca responsabilità che l'uomo si sente costretto a proiettare su di sé. La forza del male del resto, nella sua oscura invincibile potenza, fa sempre la sua apparizione con i tratti inconfondibili del sacro. A questo enigma, incandescente e oscuro a un tempo, la religione ha offerto spesso la sua cornice teologale. Nemmeno nell'antica alleanza, patria letteraria e spirituale del Dio della misericordia e delle viscere, sa evitare l'equazione che collega i sintomi della malattia all’impurità morale, il dolore alla colpa, la sofferenza all'espiazione. La verità dell'equazione sta nel fatto che il male documenta quell'irre-solutezza umana la cui ricomposizione rinvia necessariamente alla giusta relazione con Dio. La sua falsità sta nel semplificare questo rinvio in un atto di meccanica autoritaria decisione divina. Gli amici teologi di Giobbe, ci si ricorderà, sono l'insuperabile incarnazione letteraria della teorizzazione dogmatica di quella falsità. Potere e strapotere del sacro arcaico. La sua potenza, così onnipotente da essere prepotente, tutela la propria sovrana grandezza mediante un giustizialismo che adotta come moneta di scambio il dolore della carne. Essa è dunque documento della scomunica divina. Naturalmente si trasforma anche in esclusione sociale. Di queste abiette e cupe convenzioni, come si sa, Gesù sarà metodico maestro di sospetto. In esse egli vede nascosta la propensione umana a forgiare caricature del divino a uso e consumo di ben discutibili ordini sociali. Ma la sua vocazione (fin dal principio dei tempi) di essere icona veritiera del Dio dell'alleanza gli impone di scagionare l'immagine di Dio dalle infamie attribuite ad essa da ogni religione da bancarella. I segni di guarigione, che il Figlio opera fra la costernazione stessa di chi ne è oggetto diretto, hanno precisamente questa ragione. Essi si intendono come rivelazione in atto del Dio vero che, di fronte all'uomo fragile, si china ristabilendone l'integrità. Di questo ordinario miracolo non si dovrà fare propaganda ai quattro venti. Il beneficiato ne farà personale atto di fede. Ma che almeno ai sacerdoti però ne sia mostrata la tangibile evidenza. Il loro accertamento è chiamato a leggere il fenomeno clinico come rivelazione dell’Altissimo. Eppure è difficile, per quanto maldestro, chiudere la bocca alla meraviglia. (Giuliano Zanchi)

 
Sabato, 28 Gennaio 2012 13:01

Nel breve sabato

179Nell’ economia spirituale dell’Antico Testamento l’esercizio della profezia può certamente permettersi di stare sempre un gradino sopra le altre grandi istituzioni del popolo. Il sacerdozio e la regalità sono costantemente sottomesse al suo caustico potere di discernimento. Come una spada a doppio taglio la parola del profeta sa disinnescare il delirio di onnipotenza del re, come smascherare il formalismo rituale del sacerdote. Il profeta è la voce con cui Dio diagnostica attimo per attimo lo stato di salute dell’alleanza. Ma persino il primato della profezia è giustamente condizionato al suo grado di alta fedeltà all’intenzione teologale che la fonda. Il serrato dialogo dell’altissimo con il grande Mosé, profeta dei profeti prima del Figlio, mette in scena la giusta subordinazione della voce profetica  alla sua fonte divina , paventando persino la morte a fronte di una trasgressione tanto grave. In fondo anche il profeta ha le stesse tentazioni del re e del sacerdote. Sono del resto sempre le stesse. Una sta nell’impadronirsi della voce di Dio per trasformarla in veicolo di preoccupazioni troppo umane. L’altra addirittura mette la presunzione profetica a servizio di idoli lontani dallo spirito dell’alleanza . L’essere umano, specie se religioso, sa fare mercato di tutto, persino della voce di Dio. Ma essa possiede anche sempre le sue strategie di riscatto. I falsi profeti, prima o poi, vengono alla luce. Quando un giovane rabbino di provincia entra nella sinagoga della sua città e si mette a insegnare, il bagliore di un’autorevolezza inaudita invade di colpo la storia. E tutti sono immediatamente capaci di riconoscere la differenza. Succede anche semplicemente nell’incessante mormorio della comunicazione umana. Quando in mezzo a mille quaquaraqua da marciapiede si alza la voce della persona che sa quel che dice, chiunque se ne accorge. Persino che sono in malafede. Ma nel caso del rabbino Gesù di Nazareth, questa elementare prova di umana eloquenza mostra di avere radici dalle profondità inimmaginabili. L’autorevolezza capace di emanare dall’eloquio di Gesù riguarda gli orizzonti sfuggenti e gli abissi impenetrabili delle questioni teologali. Quando Gesù parla delle cose di Dio, mostra di sapere quello di cui parla. Letteralmente. Non con la sapienza indiretta del fariseo che ha setacciato con la fatica degli anni un piccolo tesoro di convinzioni dentro la rete misteriosa della Scrittura, ma con la scienza di prima mano di qualcuno che parla di qualcosa di proprio. Di questa autorevolezza gli ascoltatori hanno subito un’immediata sensazione. Essa è persino capace di risvegliare l’inquietudine dei demoni, figure dell’irreligione, sempre molto a loro agio con la lingua convenzionale del formalismo religioso, ma sempre in difficoltà con la parola di fuoco della fede profonda. E con studiata nonchalance Marco la mette subito a confronto con la parola opaca dei farisei, umiliata un istante, archiviata in un battere di ciglia, messa ai margini da un atto di rivelazioni di un sabato come gli altri.
Venerdì, 20 Gennaio 2012 21:08

Dio inedito

178La Scrittura, timori non ne ha. Sa ospitare la sacrosanta indignazione di Giobbe, il relativismo secolare di dell’Ecclesiaste, l’aperto erotismo del Cantico. Nel libricino di Giona, di cui qui la liturgia ci apparecchia giusto il bel finale, la Scrittura mette in scena tutta la pusillanime e riottosa grettezza di una religione dell’appartenenza che si rovescia in una pratica dell’esclusione. Giona è quello che, prima di piegarsi al mistero della divina grazia, fin che può si tiene lontano da questo Dio assurdo che intende reclutarlo come supino strumento di un invito alla conversione  che – così pensa Giona-, anziché in un atto di reale e puntigliosa resa dei conti, finirà a tarallucci e vino. L’ostacolo più consistente al lavoro della grazia non è mai la resistenza del miscredente ma il risentimento dell’appartenente. Eppure il Dio dell’Alleanza, esattamente come fa con l’ultimo peccatore smarrito, ricorre fino in capo al mondo anche il credente immusonito. Se è necessario gli fa provare il buoi degli abissi e il furore della canicola per fargli capire che nemmeno per lui stare nel perimetro delle relazioni vitali è cosa scontata una volta per tutte. Allora il missionario Giona va. Ma come tutti i pretoriani di parrocchia, attraversa la città con profondi dubbi su quel Dio che ha tanto a cuore gente come questa. Quanti Giona si costringono anche oggi a sorridere all’indifferente e svagato uomo della città contemporanea rimpiangendo i tempi in cui si poteva ecclesiasticamente più ultimativi! Eppure è da moto tempo che la testimonianza del Regno non sopporta più di interpretarsi come perentorietà giudiziaria. Il tempo si è fatto breve. La storia è cambiata. Giacché il Figlio ha chiarito ogni dubbio. Il Dio tanto incompreso da Giona ha trovato in Gesù di che mostrare un volta per tutte il suo volto più radioso e convincente. Il suo Regno è prossimo. Non per approssimazione temporale (non significa tra un attimo), ma per immediatezza storica (significa il suo “essere qui”). Il Dio/Samaritano si è finalmente chinato, da prossimo impeccabile, sulla storia umana. Si potrebbe anche semplicemente tradurre: Io(ci) Sono). Di questa stratosferica novità Gesù va cercando consapevoli e partecipi divulgatori. Va a pescarli in riva a un lago, ai margini dell’operosità rurale, alla periferia della coscienza spirituale. Gente semplice, reclutata da una misteriosa forza d’attrazione, destinata a trasformare in carne e sangue della propria esistenza la straziante passione di questo strano rabbino di passaggio per l’immagine di una Dio misericordioso. Marco ne mete in mostra la prontezza. La risolutezza di questi Giona dei tempi nuovi manifesta appunto tutta la proporzione  dell’inedito che con il Dio di Gesù si appropria della storia. Modellati ad immagine e somiglianza del loro maestro essi, che non mancheranno (nemmeno loro) di rimanere confusi di fronte alla sua radicalità spirituale, lo seguiranno sulla strada di un sogno universale. Quando Dio sceglie qualcuno è sempre per poter amare tutti.

 
Etichettato sotto
Sabato, 14 Gennaio 2012 11:47

Un nuovo inizio

177Dio parla sempre con parole umane. Abbiamo dovuto faticosamente riscoprirlo dopo secoli di ombrosa dimenticanza. Eppure era persino scritto nelle sublimi vocazioni dei grandi uomini di Dio. Anche a Samuele non arrivano le sommesse parole dell’Altissimo se non attraverso l’ascolto illuminato di Eli. Pieni di immaginazione per un sacro che comunica attraverso fenomeni paranormali restiamo sordi alla vera voce di un Dio che chiede ascolto attraverso l’elementare parola della prossimità. Solo quando si capisce che la sua sapienza  si mette silenziosamente in cattedra nelle scelte di ogni giorno e nei legami quotidiani, come Samuele, finalmente ci si sveglia e si comincia a crescere. Prima si resta nel sonno di un autismo senza vie di uscita. Nemmeno l’incontro fra Gesù e i suoi discepoli è scoccato a qualche segno di natura paranormale. Esso tuttavia non ha mancato di straordinarietà. Deve essere stato a suo modo così folgorante che Giovanni, pura dalla distanza del tempo e dalla trasfigurazione letteraria, non si trattiene dal registratore la memoria esatta dell’orario. Erano circa le quattro del pomeriggio. Come dimenticarsi? Sembra la memoria trafitta di un innamorato che del primo sguardo conserva intatto ogni dettaglio. L’incontro con il Maestro, destinato a portare queste ancora ignare vite dove forse esse non avrebbero voluto arrivare, affiora dal terreno fecondo della testimonianza del Battista, questo nuovo intransigente Elia, che sveglia dal loro sonno i propri discepoli indicando loro la vera fonte della voce che da tempo credono di ascoltare. Io vi ho parlato ma è lui che vi chiama. La sequela nasce sempre dall’umile ritrarsi di qualcuno che accetta di aver esaurito il suo compito. Non diventiamo nemmeno grandi se chi ci ha messo al mondo non è capace di farlo. Da questo primo atto di referenza, una sorte di morte simbolica, la catena degli incontri entra in un vortice di impressionante efficienza, con una progressione simile al dilagare del male dopo la menzogna dei progenitori, ma in senso opposto, come la scintilla di un nuovo inizio innescata dall’indice del profeta che fa segno sul figlio. Apparentemente il dialogo è quello della prosa da ascensore, ovvietà da semaforo, battute in codice da incontro all’angolo di una strada. Che sorpresa, come va, che mi dici. Dove abiti. Niente di che. Ma qui è già tracciato il criterio della sequela, precisamente attraverso questa esausta lingua della strada, meraviglioso sedimento della parola elementare, dentro la quale conserva le sue radici l’unica forma umana della vera conoscenza, dell’autentica prossimità dell’affidabile relazione: per sapere dove uno è, in quale punto della vita risiede, occorre seguirlo precisamente lì. Lo sanno tutti quelli che hanno avuto la grazia di amarsi. Legarsi significa rendersi domestici. Diventare di casa. Ma in questo caso la sottile ironia vale già tutto il vangelo. Giacché la dimora del Figlio è il grembo eterno di Dio. Battute a parte, è lì che egli ci invita ad andare. (Giuliano Zanchi).
Etichettato sotto
Sabato, 31 Dicembre 2011 09:24

Dio della Riconciliazione e della Pace

175Nella convenzione umana dei transiti cronologici la liturgia ci saluta con quella forma di augurio che si chiama “benedizione”. Ci facciamo gli auguri non per inerzia scaramantica ma perché ci vogliamo bene. Vorremmo tutto il bene di ciascuno. In questo la parola biblica ci mette sulla via di una coltivazione “laica” della speranza. Accogliamo difatti la benedizione di Dio non come “l’abracadabra” di un sortilegio di cui accaparrare le sillabe, ma come una promessa d’amore di cui riascoltare emozionati il suono. Succede di tutto a questo mondo, eppure Dio non smette di “dire bene di noi,  Mentre con presuntuosa ansia di prestazione ci immaginiamo eroi della speranza  nel credere  in lui, restiamo ingenuamente ignari del fatto che in realtà è “Dio a credere in noi”. Se il nostro tempo possiede una certezza, essa sta tutta entro questi limiti. Ci sono mote cose da imparare dal racconto evangelico che indora questo sommesso mormorare della speranza. Anzitutto dall’euforia dei pastori, trasformati da una sognante tradizione  nell’immobile dolcezza  di gesso dei mestieri di una volta, certamente popolo di cuori traboccanti di fiducia nella vita con gli occhi spalancati  al primo segno di grazia capace di affiorare dalla terra. Da loro s’impara la necessità di condividere l’inatteso dono. La gioia è come il dolore. Ha sempre bisogno di qualcuno che aiuti a portarne il peso. Non esiste felicità individuale. Se non lega ad altri, essa è semplicemente parodia di sentimenti immaginari. Si deve imparare molto dal silenzio di Maria, Il silenzio – così ci insegna, senza dire una parola, la madre del Signore Gesù- non è assenza di pensieri, vuoto delle idee, deserto dell’immaginazione. Non è nemmeno rassegnazione di fronte alla vita che spesso ci lascia senza parole. Il silenzio nasce invece come spazio di distillazione delle cose vissute. Custodire le cose nel segreto e meditarle nel cuore significa edificare alte mura di protezione attorno alla grazia quotidiana che la vita ci fa incontrare offrendo ad essa come casa il nostro corpo: “domus aurea”.  Nell’orto chiuso di questa tenace distillazione spirituale è possibile produrre, con insistenza che deve essere instancabile, gli antidoti al risentimento, al conflitto, all’antagonismo, a quella metastasi dei sentimenti che mette l’uomo contro l’uomo. In questa liturgia si chiede pace. Ma ci terrebbe sideralmente lontani dalle nostre possibilità, pur rimanendo al cuore delle nostre preoccupazioni, la retorica della “pace nel mondo”, senza misurare le dirette responsabilità della pace sempre da curare nel tumultuoso mare dei nostri ambigui sentimenti. Si chieda perciò, in questo salto di tempo, perdono per le inimicizie, per i rancori che dividono, per il male che si insinua, con felpata discrezione, persino nel perimetro degli affetti più cari. Si cerchi di essere grati per tutte quelle volte in cui si è riusciti a volersi bene, per quanto si è stati alla stessa tavola, rinnovando l’immenso invisibile miracolo del patto umano. (Giuliano Zanchi)
Etichettato sotto
Sabato, 17 Dicembre 2011 14:08

Dio ha una casa

173L’ingenua presunzione del re Davide, di cui la Scrittura con superba libertà conserva dentro di sé il dettagliato documento, mette in mostra tutta l’improntitudine a cui può arrivare un uomo appagato, giunto al culmine dei propri progetti, avvolto dalla consolante agiatezza di una vita importante. Essa prende forma attraverso un’ambizione  che va a toccare i limiti stessi di quella trascendenza grazie a la quale il Dio dell’alleanza cerca di proteggere l’infantile invadenza umana . Davide immaginando di barattare con la devozione il senso di colpa della sua esistenza agiata, formula la pretesa di mettere su casa a Dio, avvolgendo la presunzione nell’involucro di pretesti fatui e pelosi. Nell’ambizioso progetto di costruire una casa a Dio, per equiparare la felice condizione di un re che abita “in una casa di cedro”, sta innanzitutto tutta l’ambiguità di una devozione  che pretende di determinare le condizioni del divino ad immagine e somiglianza dell’umano. Poiché il re vive in una casa, anche Dio deve averne una. Ma l’ambizioso progetto tradisce  anche il potere con cui l’uomo devoto pensa di poter definire i confini entro i quali Dio può stare dentro la storia umana. Ogni volta che è successo, la religione si è affrettata a diventare uno strumento di preservazione  di interessi molto umani. Naturalmente attraverso la voce  del profeta, l’Altissimo stesso ironizza su questa boriosità regale travestita da filiale sentimento religioso. Dio ride dell’uomo che si prende troppo sul serio che dimentica la grazia invisibile che ha costruito la sua fortuna, che trasforma una fortuna avuta in dono nell’arroganza paternalistica dell’uomo che si è fatto da sé. La voce di Dio annuncia che sarà ancora una volta l’iniziativa divina a garantire una casa alla boriosa vicenda umana di questo piccolo re terreno. La promessa di una casa risuona come l’offerta di un destino, sulla linea di una discendenza  lungo l’asse di una promessa antica secondo la quale, nella catena delle generazioni, l’Altissimo resta implicato fino a legare a sé il sangue dell’uomo. La casa di Davide, quella che il Dio del’alleanza si premura di costruire, disegna un progetto che attraversa le generazioni, fino ad incontrare l’assenso scandaloso di una ragazza nubile, a cui Dio si rivolge con la libertà  con cui ci si rivolge ad un uomo. Un Dio femminista che toglie di mezzo i maschi di casa, si rivolge direttamente ad una giovane femmina, mettendola in croce di fronte alle ferree convenzioni della sua tradizione, cercandone trepidamente l’assenso per un progetto che l’antico e potente re nemmeno sarebbe stato in grado di immaginare. Solo la sovranità divina può essere così umile da stare con il fiato sospeso di fronte alle labbra di una ragazza. Ma solo grazie a questa divina audacia la promessa rinnovata davanti alla presunzione di Davide ha trovato il suo definitivo compimento. Dio ha una casa. Ma la casa di Dio in mezzo agli uomini è la carne umana del Figlio (Giuliano Zanchi)
Etichettato sotto
© 2024 Ordine della Madre di Dio. All Rights Reserved. Powered by VICIS