Curia Generale dell'Ordine
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Innegabili radici ambientali
Nell’Archivio Generale dell’Ordine dei Chierici Regolari della Madre di Dio è conservata un’ampia raccolta di omelie del Santo Fondatore. Gli scritti sono asserbati dentro una elegante custodia in cartapecora sul cui dorso compare stampigliato il titolo: SERMONI. In quella silloge è presente un dialogo, di cui purtroppo mancano le prime carte, nel quale Giovanni Leonardi espone la dottrina cattolica riguardante gli Angeli sotto forma di un breve compendio dotato di notevole capacità divulgativa.
Volendo perlustrare le lontane premesse dei futuri orientamenti dottrinali di una qualsiasi anima, non si deve prescindere dal prendere in esame anche certe motivazioni che, in apparenza, sembrerebbero solo di tipo emozionale-affettivo. Difatti, la loro riconosciuta incidenza nella concretezza del quotidiano vissuto, spesso diviene determinante cifra per definire dei singolari approdi rintracciabili solo attraverso valenze espresse, appunto, da oggettive realtà esistenziali.
Partendo allora da queste ovvie considerazioni, va ben al di là di un banale interesse, quasi di genere turistico, constatare come -nella città di Lucca e in un’area assai vicina alla zona nella quale il Santo attua la propria maturazione ascetica e dove finirà per fissare la stabile dimora della sua famiglia religiosa- persistano ancora oggi notevoli retaggi di ben definite memorie.
Queste sono in grado di rivelare possibili e non casuali radici alla base del culto degli Angeli che perciò ritroviamo ben presente tra le varie e differenziate note carismatiche dell’articolata spiritualità del Leonardi.
Difatti, siamo al cospetto di una suggestiva toponomastica particolarmente atta a sollecitare esplicite quanto nitide allusioni che vanno in direzione di un definito e preciso contesto culturale.
Tra storia e leggenda
La centralissima chiesa, contraddistinta dal suo purissimo stile romanico pisano-lucchese ed eretta nell’area dove una volta era ubicato il foro dell’antica città romana, è dedicata all’Arcangelo San Michele. Non a caso poi, sulla medesima piazza, viene ad affacciarsi un noto ristorante il cui nome non lascia dubbi: Locanda dell’Angelo. Parallela al tracciato dello storico “decumano” -come dire al fondamentale asse viario della originaria urbanistica tipicamente castrense, quale era stata Lucca a suo tempo dove Cesare, Pompeo e Crasso si erano ritrovati per il secondo triumvirato- scorre la Via dell’Angelo Custode. Mentre a metà circa della stessa, si ammira l’Oratorio degli Angeli Custodi. Vero è che questo ultimo fu edificato solo nel 1638, quando cioè il nostro Santo era salito al cielo ormai da una trentina di anni; ma è altrettanto certo che si trattò, in sostanza, della riedizione estremamente raffinata di un edificio sacro peraltro già fondato nel 1579 e dedicato a Santa Maria degli Angeli o dell’Angelo). Giova poi ricordare come presso Porta San Pietro, uno degli ingressi delle Mura cinquecentesche che sono tra le attrattive più significative di questa città con i suoi 4,3 chilometri di percorso assolutamente intatto, ci fosse -fin dal lontano 1220- la Chiesa e Monastero degli Angeli. Una ulteriore attestazione toponomastica viene rappresentata dalla Via degli Angeli oggi perpendicolare a Palazzo Lucchesini, sede del Liceo Classico Nicolò Machiavelli, e quindi a poco più di un centinaio di metri dalla chiesa di Santa Maria Corteorlandini dove, cioè, risiedeva il Leonardi con la comunità religiosa da lui fondata. Il nome di quella strada deriva dal modesto ospedale e dal cimitero una volta presenti in quella zona con annesso un piccolo oratorio dedicato, appunto, agli Angeli precisamente a seguito della tradizionale devozione verso questi spiriti eletti pronti ad accompagnare le anime dei trapassati, come devotamente recita la liturgia dei defunti.
Naturalmente, per il successivo evolversi urbanistico, buona parte di queste realtà -oggi ormai assai remote anche nella comune memoria- sono del tutto scomparse. Ma, ciononostante, ne è rimasto il persistente ricordo trasmessoci, appunto, grazie alla specifica targa che tuttora indica quella via.
Infine va rammentato che la vicina basilica di San Frediano, oltre agli ingressi della facciata, dispone anche di un accesso laterale che viene chiamato: “porta dell’Angelo”. Ebbene, la ragione di questo ultimo dettagliato vestigio, che ancora una volta evoca una chiara presenza, risiede nella sorprendente e, per certi versi, fabulosa vicenda attestata, però, da precise testimonianze firmate. Infatti nei pressi riposa il corpo ancora incontaminato della vergine lucchese S.Zita (1218-1278), patrona delle domestiche e dei fiori tanto che, in suo onore, ogni anno il 27 aprile, giorno della sua memoria liturgica, in città si celebra la vivace e pittoresca sagra dei fiori. Le antiche cronache raccontano che nella vigilia di Natale dell’ultimo anno di vita della santa, allorché Zita si accingeva a recarsi in San Frediano per la solenne celebrazione liturgica, il padrone presso il quale prestava servizio -il signor Fatinelli- la ricoprì di un ricco mantello bordato di pelliccia per difenderla da quell’inverno particolarmente pungente. Essa però ritenne di farne dono a un poveretto che, su quella porta della chiesa, sembrava morire dal freddo. Tuttavia, una volta tornata al nobile palazzo dove appunto prestava servizio quale domestica, fu ricoperta di invettive dal Fatinelli andato su tutte le furie. Ma, mentre essa tentava vanamente di scusarsi, ricomparve quella strana figura di povero che, restituito il mantello, sparì subito agli occhi dei presenti tra un abbagliante fulgore di luce. Tutti quanti allora, sbigottiti e ammirati, non esitarono a riconoscere, in quelle singolari sembianze, gli inconfondibili tratti di una figura angelica.
Dunque, in estrema sintesi: ben prima rispetto alla data del 1568, cioè l’anno in cui il giovane farmacista Giovanni Leonardi avrebbe lasciato la bottega dello speziale, secondo quella che era la ricorrente dizione di allora, al fine di prepararsi adeguatamente per accedere al sacerdozio, come di fatto poi sarebbe accaduto nel 1571, era avvenuto nel suo animo, per spontanea e naturale induzione, un intenso travaso di sane tradizioni e di secolari costumi che -di fatto- rimandavano a una ricchezza di popolare e devota spiritualità.
Secondo quanto è tuttora possibile constatare attraverso molteplici attestazioni radicate fin dal lontano alto medioevo, l’ambiente solitamente assai religioso della Repubblica aveva offerto perciò, con generosa larghezza, al neo presbitero un patrimonio culturale di notevole spessore capace di sollecitarlo verso una rispettosa venerazione degli Angeli, sia pure tramite il personale filtro di proprie e convinte coordinate intellettuali coltivate attraverso gli studi biblici e i molteplici commenti acquisiti dall’appassionata lettura della patristica.
Una catechesi senza orpelli
Venendo alla diretta osservazione del manoscritto, l’impatto che incuriosisce in prima istanza verte intorno al suo abito più appariscente ed esteriore. In questo senso il dialogo proposto dal Santo Fondatore si presenta in una veste espositiva piuttosto scolasticistica, vale a dire che lo sviluppo tematico avviene grazie a strutture comunicative articolate attraverso essenziali quesiti cui seguono risposte altrettanto scheletriche. Il tutto risulta formalmente predisposto sulla scorta di una ben acquisita falsariga. L’elaborazione appare perciò in perfetta linea con i moduli dei vari catechismi che si andavano sempre più diffondendo.
Il documento si manifesta speculare riflesso dell’impegno da tempo oggetto di promozione, all’interno del corpo ecclesiale, da parte delle anime più avvertite ormai ben consapevoli della necessità di una catechesi che rendesse percepibile l’annuncio rivelato tramite agevoli operazioni di sintesi. Cioè, c’era bisogno di facili strumenti che mediassero l’approccio al sacro soprattutto in funzione delle persone culturalmente più indifese di fronte alle devianze dottrinali.
Si trattava dunque di una pedagogia verso la quale già due secoli prima si era espresso, e con notevole intuito, il cancelliere dell’Università di Parigi Giovanni Gerson (1363-1429) redigendo il suo: De parvulis ad Christum trahendis.
Grande senso pastorale aveva manifestato Sant’Antonino a Firenze(1389-1459) nel comporre il Libreto de la doctrina christiana la quale è utile et molto necessaria per li pizoli et zovenzelli. L’impara per saper amare et honorare Idio benedetto et schivare le temptationi et peccati.
La bolla De reformatione curiae del concilio Lateranense V espresse la necessità di rinnovamento e puntualizzò il richiamo affinché si curassero le più fondamentali nozioni religiose come il credo, gli inni sacri, i salmi, ecc.
Nel 1528 Lutero emise un testo adatto ai fanciulli e l’anno seguente pubblicò il Der grosse Katechismus come agile guida per i parroci. Calvino stampò altri due catechismi: uno nel 1536 col titolo Le formulaire d’instruire les enfants en la chretienté e poi quello cosiddetto “di Ginevra”. Da ricordare poi è il Catechismo, ovvero simbolo apostolico di Pietro Martire Vermigli il quale aveva esposto le sue dottrine di dissenso religioso anche a Lucca in S.Frediano proprio negli anni (1540-1541) della nascita del Leonardi.
In campo cattolico, ci furono i manuali di Witzel (1535), del Castellino (1537), dell’oratoriano Crispoldi (1539), del Contarini (1542), del Canisio (1554) e di Domenico Soto (1563). Ma quello che dette una decisiva svolta in proposito fu il testo conciliare del 1566: Catechismus ex decreto Concilii Tridentini ad parochos Pii V Pont. Max. jussu editus.
Da quel documento fiorirono molteplici prontuari finalizzati ad una capillare catechesi. Tra gli stessi, rilevante collocazione meritò quello approntato dal nostro Santo nel 1574 con una precisa finalità pastorale: Doctrina christiana da insegnarsi dalli curati nelle loro parrocchie a’ fanciulli della città di Lucca e sua Diocesi. Lo scritto si colloca, dunque, tra i vari modi di fronteggiare una necessità di vasto respiro ecclesiale qui solo parzialmente tratteggiata.
La conoscenza angelica
Secondo una precisa chiave di lettura, per Giovanni Leonardi ogni tipo di conoscenza va sempre decodificata attraverso puntuali criteri teologici. Ossia qualsiasi pura e semplice gnoseologia non può inverarsi se non in rapporto ad una qualificante acquisizione spirituale. Per cui, solo in quanto accessibile esempio, l’umano apprendimento viene da lui assunto per riflettere sulle modalità di una conoscenza così singolare come è quella degli Angeli.
Da questo punto di vista, il manoscritto affronta il tema dell’apprendere angelico come speculare riflesso della infinita luce di Dio. Per cui alla domanda: ”Intendeno l’Angeli come noi?” e proprio riferendosi al procedimento abituale del nostro modo di acquisizione del reale, la risposta è duplice.
Essi non avvertono davvero il mortificante limite umano: “Non; perché noi pigliamo la cognitione da queste cose quaggiù materiali”, evocando così la nota sintesi lapidaria del tomismo circa una percezione realizzata lungo i gradini di una faticosa ascesa:“Per sensibilia ad intelligibilia”.
Quindi, prima di tutto l’autore nega con fermezza che avvenga per gli Angeli un simile passaggio. In seguito tiene a chiosare subito la loro unica e irripetibile specificità realizzata grazie a una dinamica esclusivamente“visiva”. Difatti, è proprio questa che costituisce la base della conoscenza angelica. Essa viene a qualificarsi come del tutto originale perché correlata, appunto, alla visione beatifica già in atto e realizzata solo in virtù di un imperscrutabile disegno provvidenziale: “Ma l’Angelo non così. Poiché da Dio nella creatione loro li furno infuse le specie et similitudini di tutte le cose naturali”.
In altri termini, nell’uomo avvengono molteplici passaggi attuati con modalità ascensionali, nel senso che egli cresce per successive gradazioni fino allo sforzo massimo di pervenire ad attingere finalmente il limite del trascendente.
Per gli Angeli, viceversa, il sapere deriva dalla diretta e immediata “lettura” del volto di Dio infusa, in ognuno di essi, nel momento stesso della loro chiamata all’esistenza. Quindi, grazie a questo singolarissimo e incommensurabile dono creativo, per essi il conoscere è già in qualche modo immissione, sia pure solo partecipativa, dentro l’enigma del divino.
La suggestiva bellezza degli Angeli
Infine il dialogo si avvia alla conclusione ponendo particolarmente in luce come una delle note più caratterizzanti che, nella comune sensibilità popolare, viene associata alle figure angeliche sia la incantevole bellezza, quasi come fosse sicuro ed inconfondibile contrassegno di riconosciuta appartenenza.
Cioè il lettore viene indotto a rilevare quanto talvolta -proprio in relazione ad un percorso di revisione interiore- l’ammaliante fascino degli Angeli possa rivelarsi così determinante al punto da catturare le anime in virtù di quel singolare e seducente riflesso della divina perfezione. Giovanni Leonardi avverte, quindi, quella incantevole ed armonica presenza angelica quale impercettibile, ma esaltante intuizione di una tale contiguità alla infinita ed assoluta bellezza di Dio che davvero suggestiona e genera nell’animo stupefatta meraviglia.
Ulteriore conferma di un simile convincimento è facilmente desumibile anche da suo “sermone” che potremmo definire quasi concettualmente parallelo al presente passaggio del dialogo che ho appena finito di commentare.
L’omelia -intitolata, neanche a dirlo, De divina pulchritudine- vede segnato il suo abbrivio da un incipit decisamente assiomatico: “Dio è somma beltà…della quale volendo parlare, è come volere votare tutto il mare a goccia a goccia”.
Il brulicante e variegato senso del bello rinvenibile nel creato si dipana, poi, tra numerose ed armoniche forme con un ruolo di spicco riservato alle figure angeliche rimirate nei loro affascinanti e suggestivi profili. A quel punto l’autore sembra avvertire come una irresistibile ed estatica cattura ancorché sollecitata da indicibile, quasi fisico, diletto e da intimo appagante gaudio.
“La bellezza delli Angioli tutta serà in Dio quale è tanta che non si puol dire.
“Che, se tanta è quella di un’anima, che serà di un Angelo ? “Che se un Angelo solo vidde San Giovanni, ancor’ che fusse quel gran intelletto, così fu bastante di farlo buttare a terra per adorarlo; dal qual fu ripreso dicendoli: <<Noli facere, quia conservus tuus>>[Cfr. Ap. 19,10]. Cosa che serà poi la bellezza di quello ? E che mai e che serà poi di tanti miglioni di miglioni ? E questa poi se tutta fosse unita in una essentia sole, che saria ?
“O Dio, o quor mio, o anima mia! Divengo muto! Perdo il senso! Non so che dirmi, rimango attonito!”
Dalla sdrucita carta di Archivio, attraverso quelle poche e incantate espressioni del Santo, così intensamente cariche di indicibile e gratificata sorpresa, traspare chiarissimo e si consegna alla nostra meditata riflessione un messaggio di piena gratitudine a Colui che, essendo la stessa bellezza infinita, ha voluto elargirne proprio in quelle celestiali creature, e con tanta generosa abbondanza, i tratti più ammalianti e suggestivi.
Vittorio Pascucci OMD
IL MISTERO DELLA CROCE NELLA SPIRITUALITÀ E NEL CARISMA DI SAN GIOVANNI LEONARDI
Nella presentazione di una biografia di san Giovanni Leonardi il compianto arcivescovo di Lucca Mons. Giuliano Agresti così scriveva: «Rimane il punto nodale su cui san Giovanni Leonardi poggiò la sua singolare testimonianza e tutta la sua vita: il primato dell’”essere” sul fare. […]. L’obbedienza, la croce, l’amore di Dio, la primalità della preghiera, la contemplazione insieme alla croce sono i termini leonardiani in cui si legge tutto il segreto della fecondità di una vita e di una testimonianza diun uomo evangelico, forte, umile e povero, questo Santo la cui peripezia cristiana e sacerdotale porta con sé il grave dramma dei profeti e la crocifissione dei veri servi del Vangelo». Sono accenti intensi, pennellate forti che traducono il Vangelo allo stato puro, che rimandano ad una spiritualità veramente pasquale, proprio come quella che il Leonardi augurava ai suoi in occasione delle della Pasqua del 1604: «Desidero da Gesù Crocifisso alle riverenze Vostre le sante e buone feste, e che a tutti grazia conceda, che morti e sepolti ad ogni sorta d’imperfettione, con Lui nel santo giorno della risurrezione in novità di vita di perfettione resurgano. Amen”. Come non scorgere in questo augurio pasquale lo spirito dell’apostolo Paolo dell’essere nascosti con Cristo in Dio?: «Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio! Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con Lui nella gloria” (Col 3, 3-4). Credo che il carisma di san Giovanni Leonardi vada cercato proprio in questa centralità pasquale di cui e per cui vive la Chiesa. Ci interessa vedere come questo mistero della croce, sintesi amorosa e gloriosa di Cristo, ha trasfigurato l’esistenza di san Giovanni Leonardi, che porta in sé la tempra dell’uomo nuovo, della creazione nuova.
Lucca la città del Volto Santo
La storia personale del Leonardi, iniziata a Lucca, la Città del Volto Santo, icona incomparabile di vita e di dono, deve averlo educato ad avere «sempre davanti agli occhi della mente e del cuore, Cristo e Cristo crocifisso», ed aiutato a spendere la propria esistenza per la gloria del Signore risorto. Chissà quante volte si deve essere soffermato, quasi rapito, a rimirare quel Volto Santo, severo e dolce a un tempo, da secoli venerato nella cattedrale di Lucca. Nella ieratica icona di Cristo, certo crocifisso, ma in abiti regali, si è talmente immedesimato, da far sua la paolina identificazione mistica con il Maestro: «Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). Si sprigiona nel nostro santo una gioia incontenibile che non riesce a trovare i termini umani (cfr 2 Cor 12,4) per poter esprimere l’amore che sente: «Amatissimo, amatissimo, amatissimo, Amore mio divino». Certamente San Giovanni avrà avuto modo di leggere l’invito fatto da Santa Caterina da Siena in una lettera diretta a Mellina di Lucca ad andare a venerare il Volto Santo presente nella sua città quando così le scriveva: «[…]a la fonte de la prima Verità trovarai la dignitate e la bellezza de l’anima tua, vedarai il Verbo[…] Andatevene a quella dolcissima e venerabil Croce, in essa troverete lo Agnello […] non sapete che e’ discepoli santi ebbono più doppo la partita del maestro conoscimento e sentimento di Lui che pria? Però che tanto si dilettavano de l’umanitade sua che non cercavano più oltre. Ma poi che la presenzia fu partita, essi si diero a conoscere et intendere la bonitate sua. Però, disse la prima Verità: Egli è bisogno ch’io vada acciò che il Paraclito vegna a voi”. Certo è che il santo a quella Croce è andato più volte, non solo in senso fisico, ma ancor più spiritualmente riuscendo a comporre in uno, visione e «sentimento di lui» nella sua assenza corporea, appresa «a la fonte de la prima Verità» e compresa in virtù di presenza «dolcissima» apportata dallo Spirito Paraclito.
Cristo al centro di tutte le cose
Giovanni Leonardi si inserisce pienamente nella corrente spirituale della "Devotio moderna", così come egli stesso giunge attraverso la mediazione dei Domenicani riformati di san Romano e l’amicizia con San Filippo Neri. Alla base di tutto c’è la convinzione che la vita spirituale, il cammino della santità, non si fonda su una «gnosis» per «iniziati», né per «i sapienti» ed i «giusti», ma su un avvenimento reale, un incontro imprevedibile nelle circostanze della vita accessibile inoltre a qualunque persona, di qualunque stato o condizione, che lo accolga con stupore di bambino. Appassionata adesione a Cristo incontrato ed amato come ebbe ad affermare Giovanni Paolo II: «non come una formula, ma come una Persona, con la certezza che essa ci infonde: Io sono con voi». Il cristocentrismo di San Giovanni Leonardi è caratterizzato da un affetto personale per Cristo che si avvicina a noi nel Vangelo e ci trasforma e trasfigura in Lui. E, come ha scritto recentemente il Papa Benedetto XVI nella sua prima enciclica: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò una direzione decisiva». Questo profondo primato cristologico permette a Giovanni Leonardi di vincere due tentazioni: La tentazione che l’età del Rinascimento conobbe, forte e sottile, fu quella di “naturalizzare” la Grazia, riducendo tutto all’umano; senza negare Dio, ma fondando tutto sull’uomo. Giovanni Leonardi risponde a questa tentazione distruttiva dell’avvenimento cristiano mettendo al centro della sua vita spirituale la Persona viva di Cristo e la grazia dei suoi sacramenti nella comunione della Chiesa. Ma un’altra tentazione si affacciava sulla scena dell’epoca storica, come reazione alla mondanità imperante: sfidare bellicosamente il mondo che non si lascia incontrare da Cristo. Giovanni Leonardi non conobbe fra Girolamo Savonarola, che terminò la sua vita sul rogo di Piazza della Signoria, in Firenze, nel 1498. Certamente ne stimò la vita santa, gli intenti apostolici di genuina ispirazione evangelica. Ne lesse le opere, come documentato dalla presenza di numerosi incunaboli e cinquecentine, nella biblioteca del convento di santa Maria Corteorlandini di Lucca e appartenenti al nostro santo; ne difese l’ortodossia durante il processo inquisizionale come documentato dalla stessa Commissione storica per la causa di canonizzazione di Girolamo Savonarola; ma tutto il suo apostolato è l’antitesi del metodo savonaroliano e della durezza sconfinata del predicatore che giungeva ai roghi delle vanità ed alla direzione della repubblica fiorentina. Il cristiano è invitato a seguire il Signore nella sua umiltà e nella sua croce. Presuppone una fede pienamente ortodossa pur accentuando l’aspetto morale ed educativo. Questa prospettiva cristologia è costante in tutto l’arco biografico e nel profondo convincimento di fede del Leonardi che tocca uno dei suoi vertici più evidenti nel commento al libro di Giobbe. Da questi testi risulta evidente che l’ultima parola sulla ricerca ansiosa di un Dio a cui lanciare le nostre angosciate domande, proprio come fa Giobbe, è la parola della Croce. E’ Cristo per Giovanni Leonardi, l’uomo nuovo. Su di lui sono puntati i suoi occhi. Il pericolo di costruirsi un Cristo a propria misura, è scongiurato dal fatto che l’icona della croce si staglia permanente e inequivocabile per correggere ogni falso giudizio, ogni distorsione sugli autentici sentimenti del Figlio. (Cfr Fil 2,5).
La scuola della croce cattedra di santità
La scuola della Croce è sempre stata la cattedra dei Santi: «Tutti li santi che al cielo sono andati, hanno innalzato la Croce nel loro cuore» (San Giovanni Leonardi, Sermone per l’esaltazione della croce). La scuola della croce mette a nudo l’inconsistenza delle nostre pretese, la fatuità dei nostri sogni di grandezza nella ricerca di una protezione dell’io identificata come fonte di successo. Il santo proprio alla scuola della croce, comprende la lezione evangelica del chicco di grano che caduto a terra muore e porta frutto; del «chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, chi invece la perde la salverà» (Cfr Lc 17,33). E’ una sapienza nuova quella che sgorga dalla contemplazione della croce: sapientia crucis che genera un modo di rapportarsi con se stessi e con gli altri, in cui la misura di tutto è data da un Altro: “e con Lui misurate le cose”. Il metro di giudizio e di azione non può più essere la propria sapienza o intelligenza, ma quella nuova che si apprende alla schola crucis, come gesto estremo dell’amore di Dio. Perché con questo Gesù sta descrivendo il suo personale cammino, che attraverso la croce lo conduce alla risurrezione.
La croce alfabeto di Dio
San Giovanni Leonardi non è un teologo sistematico da cui attendersi una completa sintesi di pensiero strutturata e accademicamente offerta. La sua è l’esperienza di un uomo che ha avuto il coraggio di compiere nella propria vita le condizioni fissate da Gesù. Il timore e la paura che ci paralizzano quando siamo messi di fronte alla necessità di compiere il «passaggio», la Pasqua appunto, di portare la nostra croce in Cristo, sono state scacciate proprio da quella grandezza d’animo (macrothimya) che ha permesso al Leonardi di fidarsi di Dio: «Quanto al portare la Croce, ha da esser virtù di Quello che ha da scacciare da voi il timore e la paura, et un poco più levate i vostri cuori a Dio e con Lui misurate le cose» (Lettera del 16 maggio 1592). La croce non si porta né la si accetta, e ancor meno la si capisce, se non si è sostenuti da un amore più grande, da una misura più alta. Il timore e la paura che impediscono lo sviluppo dell’uomo nuovo nascono da un deficit di contemplazione dell’amore. Se non guardi non capisci. Se non leggi la croce, non impari l’alfabeto di Dio. Essa va letta e contemplata come il massimo segno dell’amore trinitario, la sua agape. Allora la Croce, contemplata sotto questo aspetto, non è più il segno del dolore di fronte al quale ci si deve rassegnare in modo quasi ineluttabile. Se la croce è il linguaggio dell’amore di Dio, essa è rivelazione di Dio stesso; è uno squarcio sul cuore di Dio attraverso il costato trafitto di Gesù. Una viva, efficace e feconda evangelizzazione in ordine alla fede e alla salvezza, non può non avere come punto di riferimento la sacra Scrittura e il Crocifisso. L’una e l’altra sono inscindibili. Il crocifisso è il più bel libro da cui imparare il linguaggio dell’amore e la risposta dovuto. «Dice esserci proposto come un libro in cui leggiamo et impariamo ogni virtù, come rimedio in ogni nostra tentazione e, come uno specchio, per conoscer le nostre imperfettioni. Dice che questo libro è quello che vidde san Giovanni segnato con 7 sigilli (Cfr Ap 5). Et in questo si leggon tutti gli attributi di Dio e tutte le nostre miserie. Però si dice di quello che era scritto dentro e fori».
«La croce piantata nel cuore»
La croce, afferma San Giovanni Leonardi, deve essere piantata nella terra della nostra anima perché ne occupi il posto centrale; deve essere piantata nella nostra mente per infiammarci al ricordo della sua passione. Questa è l’azione permanente di Dio: «La croce fu piantata nel mezzo della terra perché “Dio ha operato la salvezza della nostra terra” (Salmo 73,12), e per farci capire, o carissimi, che il Signore desidera che la Croce occupi il posto centrale nella vita dell’uomo che è la sua anima. La Croce è piantata nel nostro cuore da Dio tutte le volte che ci dona la sua Grazia. La piantò nel giorno del nostro Battesimo quando fummo rigenerati da questo santo lavacro. La piantò nella Cresima, quando ci arruolò nella sua santa milizia. La pianta e la continua a piantare ogni qual volta che noi ci confessiamo con vivo dolore. L’ha piantata tutte le volte che lo abbiamo ricevuto nel Santissimo Sacramento dell’Eucarestia. La pianta nella mente dei suoi fedeli quando si accende in noi e si infiamma il ricordo della sua passione». Dall’umiliazione alla gloria. Giovanni Leonardi non esita a riconoscersi in questa logica, a farla propria, a rileggervi il suo personale percorso, certo che solo questo può assicurare una vittoria che non si gioca in termini politici o di successi misurati sulla scalata del potere umano o delle strategie vincenti. La croce smentisce in modo radicale un giudizio che si modella sui parametri di un potere perseguito ad ogni costo. L’uomo nuovo che ha sepolto se stesso con Cristo ed è risorto con lui per rivestirsi dei suoi stessi sentimenti: «poiché, quanto più ci troviamo derelitti et privi di speranza, è allora quando Dio ci vuole esaltare. Et seppur il non permetterà in questa vita, per qualche suo occulto ordine, ci innalzerà poi nell’altro». E’ evidente che questo scopre una nuova antropologia. La croce è la creazione dell’Adamo nuovo, di quell’uomo «agapico» che costituisce il punto di approdo dell’amore e che così potentemente ci ha descritto Benedetto XVI nella sua Enciclica «Deus caritas est».
Il grido del giusto sofferente
Giovanni Leonardi è ben consapevole, e questo soprattutto si legge fra le righe del commento al libro di Giobbe, figura del giusto sofferente e quindi, anticipo di Cristo stesso, che nella Divina Provvidenza si nasconde un mistero positivo che solo l’esito finale di una serie di eventi può dare a conoscere. L’ultima parola, quella esaustiva, in cui si ricapitolano tutte le domande, è Cristo crocifisso. In lui è Dio a farsi carico del nostro male fino a soffrire lo scandalo della croce. Ma soprattutto è Colui che è «morto ed è risorto per noi» (2 Cor 2,15). Nel grido disperato di Giobbe che nell’angoscia della sua notte del dolore rinnega la vita e il suo senso, (Giobbe 3,1-3), anche il nostro Santo cerca insieme al protagonista del dramma biblico e umano una possibile risposta. Questa non poteva che essere cristologia. E’ in Cristo crocifisso, evento di un Dio solidale con il male dell’uomo; coinvolgimento dell’Innocente con i tanti innocenti della storia anch’essi vittima della violenza omicida e del dolore inspiegabile; si riscrive un modo nuovo di essere uomo, che il Leonardi identifica con Gesù: il quale «stetit» in mezzo ai due ladri: «stetit» Cristo in Croce; «stetit» con tutto affetto; «stetit» usque ad mortem» (Mt 26,38). Perfino quel lacerante grido di Giobbe, che tanto conflitto genera anche agli interpreti della sacra scrittura: «perisca il giorno in cui nacqui» (3,3), viene riletto alla luce del grido di Cristo nel Getsemani: «la mia anima è triste fino alla morte» (Mc 14,34). Quindi non una maledizione, non una bestemmia, ma l’estrema confessione della fragilità umana e il suo appello a chi poteva soccorrerlo. «Questo, disse, esprime la parte sensitiva la qual rifugge il patir, onde habbiamo di Crist Signore: Tristis… (Mc 14,34). Come dir’ volesse: Se io non fussi nato non sentirei tanti dolori. Et, sì come Nostro Signore non peccò ancorché dicesse quelle parole et altre, parimenti così né meno il Santo Job».
Lo sguardo che «scuopre Cristo»
Il 16 maggio 1592 il Leonardi da Decimo sua città natale, scriveva ai suoi religiosi di Lucca: dopo soli 9 giorni replica, dallo stesso borgo, con un altra lettera. Due testi da leggere e meditare per intero con estrema attenzione perché intrisi di sofferta pacatezza e di paterno equilibrio. Ebbene si noti come in entrambe il solo rimprovero che loro rivolge è la constatazione di una scarsa fiducia nella provvidenza e quindi la calda esortazione, nelle mille ansie che sgomentano e fanno trepidare, a rimirare Cristo crocifisso. L’unico riferimento a quanto possa accadere deve essere la sua immagine viva da stampare nel più profondo dell’animo, perché in ogni tempo, ieri, oggi e sempre, sia sostegno nel difficile cammino della fede. «Io, adonque, vado nel nome di Dio e da voi mi parto con il corpo lassandovi il cuore. Vi ricordo la pace, la concordia e l’unità insieme. Habbiate Cristo avanti in tutte le cose, l’honore del quale tenga in voi il primo luogo». Con maggiore forza e insistenza, nella lettera del 16 settembre 1603: «Saluto tutti caramente nel Signore, con pregarvi per amore dello stesso Signore, di essere tutti uniti in quello che si pretende fare, avendo avanti agl’occhi della mente nostra solo l’honore, il servizio, la gloria di Cristo Gesù Crocifisso, spogliandovi totalmente di ogn’altra affezione et interesse proprio, con accompagnare il tutto con continue orazioni». Su Cristo Gesù sono puntati gli occhi del Leonardi. Lui parola viva dell’amore del Padre. Da qui deriva, mediante il ricorso tipologico alla figura di Giobbe quel patto degli occhi che accompagnerà sempre l’umana e spirituale vicenda del nostro Santo. L’ampia riflessione portata avanti sul versetto iniziale del trentunesimo capitolo del libro di Giobbe: «Avevo stretto con gli occhi un patto», (Giobbe 31, 1), offre ancora una conferma della radicalità con cui Giobbe aveva sempre posto in essere le sue fondamentali scelte di vita. Il fatto che il Leonardi nel suo commento vi insista con tanta forza e che questa espressione torni spesso nella sua riflessione, sono la conseguenza di un atteggiamento che lo identifica. «Il patto degli occhi», è metafora di quel «vedere» che nel linguaggio della Scrittura conduce, pur attraverso un percorso faticoso e sofferto, alla contemplazione del Mistero di Dio. Sono gli occhi della fede con i quali si opera una vera metamorfosi dello sguardo che può penetrare la realtà e leggerla alla luce del progetto di Dio. Nel citato commento a Giobbe sviluppa una analogia con i due grandi luminari della creazione: il sole e la luna che “con la bellezza e splendor loro rendeno luminoso et bello tutto questo universo e il cielo stesso”. Parimenti Dio ci ha dato, in questo microcosmo che è il nostro corpo, i due occhi con i quali possiamo distinguere tutto e godere di tutta la bellezza della creazione. Però attenzione: è con gli occhi che va stretto patto fondamentale. Cosa vogliamo guardare? Quale sarà l’oggetto a cui essi si devono volgere, proprio perché non diventino occasione di morte ma di vita? L’approdo della lunga e articolata metafora del santo è uno solo: «scuoprir Cristo». Non raggiungere questa meta è condannarsi a una perenne cecità. Ancor di più come afferma il Leonardi: «se qualcuno ti regalasse uno stiletto d’oro e poi con quello uccidessi chi te lo donato. Non meriteresti forse questo un grave castigo? Certo si. Così parimente l’huomo con questi occhi verso Dio. Scuoprir Cristo:». L’itinerario della Croce trova una personale sintesi nella donna che più di ogni altra creatura lo percorse in profonda associazione con il Figlio. Maria, la Madre. San Giovanni Leonardi in brevissimi tratti ci lascia intravedere questo mistero che unisce la madre al Figlio, con quel suo «stare» che non è l’occupazione di uno spazio fisico ai piedi della croce, ma una partecipazione reale e provvidenziale a quanto realizzato da Cristo stesso. Bellissima l’espressione che rende questa intima comunione che fa di Maria un tutt’uno con il sacrificio del Figlio: «Stava la Vergine più vicina alla Croce col Figlio perché l’anima è più dove ama che dove anima». L’anima di Maria, il suo spirito, più che essere dentro di Lei per «animarla», tenerla in vita, si era trasferito dove era l’oggetto del suo amore. Stava sulla croce: «anzi era in croce col Figlio».
P. Francesco Petrillo