Curia Generale dell'Ordine
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Il 2 febbraio la Chiesa celebra la presentazione di Gesù al tempio. Tra le memorie romane questa festività liturgica si unisce al patrocinio che la città di Roma riserva a Santa Maria in Portico. Infatti, le antiche cronache, ricordano che un terribile sciame sismico sconvolse l’Urbe nel Gennaio del 1703. Questo grave pericolo vide il popolo romano supplicante davanti all’icona della Madre di Dio, invocata da secoli quale particolare protettrice della Città con il titolo di Romanae Portus Securitatis. La memoria di antichi benefici già concessi per intercessione di Maria, come la liberazione dalla peste nel 1656, durante la quale Roma rimase miracolosamente illesa, favorirono il nuovo ricorso alla Vergine. Già nel 1662 era stato edificato per volere del Popolo e del papa Alessandro VII, l’attuale santuario opera di C. Rainaldi, dove vi è conservata la preziosa icona venerata nell’antico rione di Campitelli fin dal VI secolo. Ma veniamo ai fatti di trecento anni fa. La mattina del 2 febbraio1703, il Senato Romano volle ringraziare la Vergine per lo scampato pericolo dal violentissimo terremoto che coinvolse Roma e gran parte degli stati pontifici. Si stabilì con voto solenne che la Città avrebbe digiunato per cento anni ogni 1 febbraio vigilia della festa della Presentazione al tempio e della Purificazione di Maria. Il voto venne immediatamente ratificato dal Papa Clemente XI che, recatosi nel santuario di Campitelli intonò il Te Deum di ringraziamento. L’impegno fu rinnovato e confermato in modo perpetuo dal papa Pio VII nel 1802. Una lapide posta al Campidoglio ricorda tutt’ora il singolare evento. Lo stesso Senato Romano stabilì che ogni sabato per un anno intero, sarebbe intervenuto nel santuario al canto solenne delle litanie. La Comunità di Campitelli erede di queste antiche memorie, rinnova ogni anno durante la luminosa liturgia della Presentazione al Tempio il grazie al Signore, unendosi alla voce e alla devozione di tanti fedeli che hanno in questo luogo onorato la Madre di Dio.
La prima Narratione scritta da San Giovanni Leonardi
I lineamenti storici dell’antico culto riservato alla Madre di Dio nel cuore della città di Roma, arricchiti nei secoli dal genere letterario della Legenda furono raccolte nella prima Narratione pubblicata dal Leonardi nel 1605 (Giovanni Leonardi, Narrazione della miracolosa immagine di Santa Maria in Portico, a cura del Centro Studi OMD, Emmegrafica, Velletri 2005).
La Narrazione si apre con il preambolo storico e i personaggi protagonisti del racconto: Il pontefice Giovanni I, l’imperatore Giustino, nel tempo in cui Teodorico Re dei Goti di fede Ariana opprimeva l’Italia. Si fa subito riferimento al luogo degli eventi: Roma e alla nobile «Signora per nome Galla», figlia del princeps senatus Aurelio Memmio Simmaco, consigliere di re Teodorico, che lo fece assassinare nel 525 per infondati sospetti di tradimento. Galla, ricca, giovane e molto religiosa, dopo la morte del marito decise di esprimere la carità di Cristo con azioni concrete e quotidiane, trasformando il suo palazzo in ospizio per i poveri e i pellegrini: «Ora per molte che fossero le opere pie, in che ella con santo zelo si esercitava, fu però singolarissima nel sovvenire con le proprie facoltà ai poveri bisognosi: onde per la gran riverenza e affezione che al Signore e alla Beatissima Vergine aveva, pigliò per uso di dar pranzo ogni giorno nel suo Palazzo a dodici poveri. E perché oltre al frequentare con gran diligenza questa santa opera, attese anche a servire con purità d’anima al Signore. Custodendo senza macchia di peccato nell’anima sua quell’immagine che la divina Maestà le aveva impressa, meritò aver per mano degli Angeli l’immagine dell’istesso Signore e della Beatissima Madre sua. Sopra la credenza apparve con grande splendore nell’aria la veneranda Immagine della Beatissima Vergine con il suo diletto Figliolo nelle braccia […]». Il Coppiere, una sorta di maggiordomo, avvertì immediatamente Galla che si levò da tavola e si recò al detto luogo nel quale vide la luce, ma non scorse nessuna immagine. Il segno doveva essere interpretato dall’autorità della Chiesa. Galla si recò nel Palazzo del Laterano e supplicò il Pontefice Giovanni I che in processione con il clero e il popolo romano, si recò presso il luogo del prodigio. Il Pontefice vi entrò pieno di stupore e vista la luce vi rimase in profonda orazione : «O Santissima Madre di Dio, degnatemi di concedermi tanta grazia, ch’io possa nelle mie mani ricevere la vostra immagine, e ciò detto i Serafini ponendola a basso, nelle sue mani riverentemente la collocarono, ed egli con molte lagrime di devozione e allegrezza ricevendola, voltatosi al Popolo l’alzò a vista di tutti» (Cf. Narrazione 19ss). Due prodigi confermarono l’apparizione quasi ha dare l’approvazione dell’evento: le campane delle Chiese di Roma suonarono a festa toccate da mani angeliche e la Città venne immediatamente liberata dal morbo della peste: è il 17 luglio del 524. Galla edifica una Chiesa sul luogo dell’apparizione dedicandola al Salvatore e alla Santissima Madre: «la quale fino al giorno presente si chiama volgarmente Santa Maria in Portico».
Il Leonardi prosegue il racconto segnalando il legame che i pontefici romani hanno avuto con l’immagine e il luogo nel quale esse è custodita. Papa Gregorio Magno (590-604) invocò il suo patrocinio nella peste del 599. Alessandro II (1061-1073) eresse una Confraternita grazie ai tanti prodigi avvenuti, Gregorio VII (1073-1085) risollevò le sorti del fatiscente santuario, riconsacrando la chiesa e collocando l'icona mariana in un tempietto-ciborio posto sopra l'altare maggiore, ponendovi in mosaico una serie di iscrizioni che facevano riferimento alla nobile Galla, ai poveri e alla prodigiosa apparizione. Celestino III (1191-1198) fondò l’ospedale di Santa Maria in Portico. Callisto III (1455-1458) invocò la Vergine per la peste. Paolo II (1464-1471) che per devozione personale asportò di notte l’immagine la vide ritornare miracolosamente nello stesso luogo. Leone X (1513-1521) indisse una processione per scongiurare l’invasione turca. Adriano VI (1522-1523) ricorse alla Vergine per salvare Roma dalla Peste. Paolo III (1534-1539) la invocò per proteggere Roma e l’Italia dalle invasioni turche. Il Leonardi prosegue la Narrazione descrivendo «il sacro luogo ove al presente si riposa» e le tracce delle memorie antiche che «scuoprono tutto il successo dell’apparizione della S. Immagine». Il racconto si conclude con una nota liturgica che cioè il 17 luglio si celebra la festa dell’apparizione, della Dedicazione della Chiesa di Santa Maria in Portico e l’orazione per l’ostensione dell’icona. Infine il ringraziamento a Clemente VIII (1592-1605) per aver unito la Chiesa alla Congregazione del Leonardi (1601) e in appendice alcune note riguardanti la vita di Santa Galla tratte dal Libro IV dei dialoghi di San Gregorio Magno.
Le fonti a cui si ispirò il Leonardi
Possiamo dire che le fonti ispiratrici della Narrazione scritta dal Leonardi sono da individuare in quella documentale, archeologica e iconografica. Innanzitutto, il Leonardi, fa riferimento alla «Historia e gli antichi manoscritti esposti in pubblico». Queste pergamene sono state da lui consultate in quanto affisse alle porte dell’antico santuario mariano. Sulla loro importanza il Leonardi annota: «Più volte sono stati pregati i nostri Padri […] di far stampare l’ ‘Historia della miracolosa immagine della Beatissima Vergine la quale nella stessa Chiesa di S. Maria in Portico onorevolmente si conserva […] se bene doveria bastare l’antica e pubblica tradizione di quella […] e degli antichi manoscritti di detta Chiesa esposti in pubblico in essa […] (Narrazione, 17)
L’altra fonte possiamo individuarla nelle testimonianze archeologiche che portano impressi i caratteri dell’antico culto a Santa Maria in Portico celebrata con il titolo di Madre di Dio. Si tratta dell’altare consacrato dal papa Gregorio VII (1073-1085) nel quale si fa riferimento al dogma efesino: «Ad honorem D(omi)ni n(ost)ri IHV (Iesu) XPI (Christi) | et beate Marie semper Vir|ginis genitricis ei(us) d(omi)ne n(ost)re | […]». Infine il ciborio che custodiva l’altare e l’icona di santa Maria in Portico era fregiato dal distico: «Hic est illa piae genitricis imago Mariae |Quae discumbenti Gallae patuit metuenti». Del Ciborio, testimoniato dal Leonardi e dai primi Padri non rimane traccia, se non nelle fonti scritte. È ipotizzabile che i distici gregoriani scorressero alla base del fastigio. A lato erano poste le sigle greche MP-ΘY e sulla sommità angolare in un sacello era custodita la veneranda icona di Santa Maria in Portico. Il titolo dogmatica Theotokos-Dei Genetrix definito durante il Concilio di Efeso (431), divenne formula ispiratrice della eucologia liturgica e della stessa devozione popolare. Esso era nota prima dell’assise conciliare, come testimonia l’antifona Sub tuum paesidium datata al III secolo. A partire da Efeso in tutte le liturgie di oriente e d’occidente si ebbe una vera e propria esplosione del culto mariano. Basti pensare al popolare inno Akatistos V-VI secolo e alle festività mariane. La formulazione dogmatica efesina diventò normativa per lo sviluppo della venerazione alla Madre di Dio. In primo luogo, il suo ricordo è legato al memoriale di Cristo e al mistero della sua incarnazione. In secondo luogo, il culto mariano trova spazio nei momenti centrali della liturgia quali la preghiera eucaristica e la professione di fede battesimale. Su questa linea tradizionale il luogo dove si custodisce l’icona di Santa Maria in Portico, è lo stesso spazio dove si celebra l’Eucaristia il memoriale del Signore, quasi a voler consegnare in questa immagine quanto espresso nelle anafore eucaristiche che riservano un posto privilegiato alla «Tutta santa Madre di Dio».
Infine la terza fonte che ispirò il Leonardi è senz’altro quella iconografica. Non si può certo attribuire all’icona attualmente venerata nel santuario mariano di Piazza Campitelli la datazione del VI secolo, tuttavia la rielaborazione tardo medievale applicherebbe ad essa alcuni canoni che rimanderebbero a copie precedenti. Nel XII secolo i racconti di visioni e miracoli si fanno sempre più frequenti e vengono raccolti, ordinati e diffusi come opere edificanti. La credenza nelle apparizioni di Maria si diffonde, nel periodo compreso fra la fine dell’antichità cristiana e l’inizio dell’Alto Medioevo, tanto nel mondo greco che in quello latino. Vedere Maria per vedere Dio «come in uno specchio» (1Cor 13,12) questa è l’immagine biblica che sta alla base delle apparizioni della Vergine. Tale credenza si propaga sotto forma di testimonianze letterarie, tanto che, fra il V e l’IX secolo, sono sempre più numerosi i racconti di visioni che circolano all’interno di una letteratura concepita per l’edificazione. Tali Legende vengono raccontate con un linguaggio accessibile a tutti, traducendo in forme semplici la concezione che gli uomini del Medioevo hanno delle corrispondenze fra il mondo celeste e quello terreno. Ora, l’iconografia di Santa Maria in Portico conferma quanto è riferito dall’antica Historia: «[...]Admiranda propterea est nobis hec Sacrosancta Imago, quam nec signavit, nec coloravit manus pictoris, nec sculptoris errantis, sed formavit et benedixit omnipotentia Conditoris, qui sicut ad ilicem Mambre cum tribus personis, ut Abraham adoraretur apparuit; et in cammino ignis ardentis cum tribus pueris similis filio hominis quartus assistens declaravit in gloriose et sanctissime Galle palatio se orandum quando voluit, et quomodo voluit imaginem demonstravit. Digitus quoque Dei, qui in tabulis lapideis, Moyse intra nubem orante, ad recte vivendum Israelitis legem sculpsit […]» (Cf. D. Carbonaro L’antica Oratio per l’ostensione dell’immagine di Santa Maria in Portico, Edizioni Monfortane, Roma 2001, 76-77). Gli studiosi sostengono che l’immagine attualmente venerata nel santuario di Campitelli, fu conservata nell’antica chiesa di S. Maria in Portico fin dal secolo XII. Tuttavia, i canoni iconografici tramandati, ci consegnano una rappresentazione molto più antica. Le lontane forme protoromaniche: colonnine in stile ionico, le teste degli Apostoli Pietro e Paolo - secondo il tipo dei vetri cimiteriali - le forme greco-siriache come l’inquadratura a rose e gli alberi ornamentali, fanno supporre due momenti compositivi. Nel VI secolo, si stabilisce la tipologia iconografica legata agli eventi della miracolosa visione di santa Galla, mentre l’icona attuale per la gamma cromatica degli smalti e la naturalezza dell’esecuzione, fu realizzata tra l’XI e il XIII secolo. La sua sacralità e il concetto di «immagine acheropita» (non dipinta da mani d’uomo) portarono a giustificare attraverso la legenda popolare la sua origine divina e la sua incorruttibilità. Il testo che il Leonardi aveva potuto consultare affisso alla porta del santuario e l’antica oratio pronunciata durante l’ostensione dell’icona attualizzavano sul luogo dell’apparizione, il simbolo di quella luce manifestatasi secoli prima come afferma l’antica Historia:«[…] ut ibi santissima veneraretur Imago, ubi signo lucis per manus sanctorum angelorum allata, Christus sedem elegerat […]. L’icona di Santa Maria in Portico fu considerata un vero e proprio «palladio» dell’Urbe, invocata come «protettrice e liberatrice» della Città di Roma. L’ immagine di Santa Maria in Portico fu portata diverse volte in processione dai Pontefici nella letania con altre insigni icone romane nei momenti di maggiore calamità: l’Acheropita della Scala Santa e la Salus Populi Romani. Come ebbe ad affermare il Leonardi nella Narrazione l’icona di Santa Maria in Portico celebra «l’immagine dell’istesso Signore e della Beatissima Madre sua» ed il titolo con il quale è ricordata sul luogo dell’apparizione: Madre di Dio «MP ΘY», richiama il mistero dell’ Incarnazione e della divina maternità di Maria. Ella è prima testimone di Dio fatto uomo che la chiesa professa, la liturgia celebra e l’iconografia annuncia nella trama simbolica. Venerando Santa Maria in Portico la tradizione popolare romana ha sempre mantenuto questi elementi spirituali come motivanti la comprensione della sua fede e del mistero celebrato.
Il corpo di Santa Francesca Romana, donna evangelica che fu sposa, madre e serva fedele del Signore, nel IV centenario della canonizzazione, sta visitando alcune Chiese di Roma legate alla sua presenza e alla sua spiritualità. Nella Chiesa di Santa Maria in Campitelli le reliquie saranno venerate il 7 e l’8 febbraio. Santa Francesca non ebbe modo di vedere durante la sua vita l’attuale Chiesa di Campitelli perché edificata nella metà del XVII secolo, tuttavia pregò come tutti i romani dinanzi all’icona di Santa Maria in Portico, oggi venerata nel santuario di Campitelli. In effetti, le testimonianze storiche accertano che il nome dei Ponziani, è tra le famiglie patrizie medievali che appaiono negli elenchi della “Nobile società di Santa Maria in Portico”. La Compagnia, fu fondata da Alessandro II nel 1061 e Celestino III nel 1191 la legò all’Ospedale di Santa Maria in Portico, in seguito unito a quello della Consolazione presso il Campidoglio (Cf. L. Pasquali, Compendio storico della miracolosa immagine di S. Maria in Portico, Roma 1901, 37-62). San Giovanni Leonardi durante la sua permanenza romana nell’Oratorio di San Girolamo “il fonte e l’origine dello spirito in Italia”, fu accompagnato e presentato presso il Monastero di Tor De’ Specchi, da San Filippo Neri per la direzione spirituale delle Oblate. Così Ludovico Marracci riferisce nella biografia del Santo: “Si stese ancora la carità di Giovanni ad aiutare nello spirito le Reverende Madri di Torre di Specchi, per mezzo delle sacramentali Confessioni, e degli esercitij spirituali, fatti da molte di quelle alle di lui mani. Et alcune li restarono tanto affettionate, e tanto gran concetto della sua virtù formarono, che essendo di già passato da questa all’immortal vita, lo scrissero nel catalogo de’i loro Santi Tutelari, e con gran fede alle di lui intercessioni ricorrendo, molte gratie ne ricevettero, siccome da’i processi autenticamente formati è manifesto. E forse per questa loro devotione al Santo Fondatore, procurarono poi quelle Reverende Madri, & ottennero da Paolo V per Confessori ordinarij i figliuoli di Giovanni, i quali le servirono in tal cura per qualche tempo.” (L. Marracci, Vita del Venerabil Padre Giovanni Leonardi Lucchese, Roma 1623, 256-257). In seguito, la nobile Duchessa di Gravina Felice Maria Orsini (1565-1647), la cui storia è narrata tra le memorie dei padri dell’Ordine della Madre di Dio, fu accolta fra le Oblate di Tor De’ Specchi nel 1620. Lasciò nel 1646 la sua casa e i suoi possedimenti ai padri leonardini di Napoli, edificando il santuario napoletano di Santa Maria in Portico a Chiaia e commissionando una preziosa copia dell’effigie romana della Madonna di Campitelli (C. A. Erra, Memoria De’ Religiosi della Madre di Dio, 1759 239-253).
Santa Francesca Romana: origini, sposa per obbedienza
La nobile Francesca Bussa de’ Buxis de’ Leoni, nacque a Roma nel 1384, in una famiglia abitante nei pressi di Piazza Navona e fu battezzata nella chiesa romanica di Sant’Agnese in Agone.Ebbe un’educazione elevata per una fanciulla del suo tempo, grandicella accompagnava la madre Jacovella de’ Broffedeschi, nelle visite alle varie chiese del suo rione, ma spesso fino alla lontana chiesa di santa Maria Nova sull’antica Via Sacra, gestita dai Benedettini di Monte Oliveto, dai quali la madre era solito confessarsi e in questa chiesa, anche Francesca trovò il suo primo direttore spirituale, padre Antonello di Monte Savello, che ben presto si accorse della vocazione della fanciulla alla vita monastica, nonostante vivesse negli agi di una ricca e nobile famiglia. Ma fu proprio questo benedettino a convincerla ad accettare la volontà del padre, Paolo Bussa de’ Buxis de’ Leoni, che secondo i costumi dell’epoca, aveva combinato per la dodicenne Francesca, un matrimonio con il nobile Lorenzo de’ Ponziani; il padre, in quel periodo conservatore del Comune di Roma, intendeva così allearsi ad un’altra famiglia nobile. I Ponziani si erano arricchiti con il mestiere di macellai, comprando case e feudi nobilitandosi, essi risiedevano in un palazzo di Trastevere al n. 61 dell’attuale via dei Vascellari, che nel Medioevo si chiamava contrada di Sant’Andrea degli Scafi; dell’antico palazzo più volte trasformato nei secoli, rimangono le ampie cantine e al pianterreno l’ambiente quattrocentesco con il soffitto a cassettoni. Una volta sposata, Francesca andò ad abitare nel palazzo dei Ponziani, ma l’inserimento nella nuova famiglia non fu facile, e questa difficoltà si aggiunse alla sofferenza provata per aver dovuto rinunciare alla sua vocazione religiosa; ne scaturì uno stato di anoressia che la sprofondò nella prostrazione. Si cercò di sollevarla da questa preoccupante situazione ma invano; finché all’alba del 16 luglio 1398 le apparve in sogno sant’Alessio che le diceva: “Tu devi vivere… Il Signore vuole che tu viva per glorificare il suo nome”. Al risveglio Francesca, accompagnata dalla cognata Vannozza, si recò alla chiesa dedicata al santo pellegrino sull’Aventino, per ringraziarlo e da allora la sua vita cambiò, accettando la sua condizione di sposa e a 16 anni ebbe il primo dei tre figli, che amò teneramente, ma purtroppo solo uno arrivò all’età adulta.
Santità vissuta in famiglia e nelle opere di carità
Con la cognata Vannozza, prese a dedicare il suo tempo libero dagli impegni familiari, a soccorrere poveri ed ammalati; erano anni drammatici per Roma, gli ecclesiastici discutevano sulla superiorità o meno del Concilio Ecumenico sul Papa; lo Scisma d’Occidente devastava l’unità della Chiesa e lo Stato Pontificio era politicamente allo sbando ed economicamente in rovina. Roma per tre volte fu occupata e saccheggiata dal re di Napoli, Ladislao di Durazzo e a causa delle guerriglie urbane, la città era ridotta ad un borgo di miserabili. Papi ed antipapi di quel periodo di scisma, si combattevano fra loro e spesso mancava un’autorità centrale ed autorevole, per riportare ordine e prosperità. Francesca perciò volle dedicarsi a sollevare li misere condizioni dei suoi concittadini più bisognosi; nel 1401 essendo morta la moglie, il suocero Andreozzo Ponziani le affidò le chiavi delle dispense, dei granai e delle cantine; Francesca ne approfittò per aumentare gli aiuti ai poveri e in pochi mesi i locali furono svuotati. Il suocero allibito decise di riprendersi le chiavi, ma ecco che essendo rimasta nei granai soltanto la pula, Francesca, Vannozza e una fedele serva, per cercare di soddisfare fino all’ultimo le richieste degli affamati, fecero la cernita e distribuirono anche il poco grano ricavato; ma pochi giorni dopo sia i granai che le botti del vino erano prodigiosamente pieni. Andreozzo che comunque era un uomo caritatevole, che già nel 1391 aveva fondato l’Ospedale del Santissimo Salvatore, utilizzando la navata destra di una chiesa in disuso, oggi chiamata Santa Maria in Cappella, restituì le chiavi alla caritatevole nuora. A questo punto Francesca decise di dedicarsi sistematicamente all’opera di assistenza; con il consenso del marito Lorenzo de’ Ponziani, vendette tutti i vestiti e gioielli devolvendo il ricavato ai poveri e indossò un abito di stoffa ruvida, ampio e comodo per poter camminare agevolmente per i miseri vicoli di Roma. Era ormai conosciuta ed ammirata da tutta Trastevere, che aveva saputo del prodigio dei granai di nuovo pieni, e un gruppo di donne ne seguirono l’esempio; con esse Francesca andava a coltivare un campo nei pressi di San Paolo, da cui ricavava frutta e verdura trasportate con un asinello e che poi elargiva personalmente alla lunga fila di poveri, che ormai ogni giorno cercava di sfamare. Alla morte del suocero Andreozzo de’ Ponziani, Francesca si prese cura dell’Ospedale del Ss. Salvatore, ma senza tralasciare le visite private e domiciliari che faceva ai poveri. Incurante delle critiche e ironie dei nobili romani a cui apparteneva, si fece questuante per i poveri, specie quelli vergognosi e per loro chiedeva l’elemosina all’entrata delle chiese; mentre si prodigava instancabilmente in queste opere di amore concreto, tanto che il popolino la chiamava paradossalmente “la poverella di Trastevere”, Francesca riceveva dal Signore il dono di celesti illuminazioni, che lei riferiva al suo confessore Giovanni Mariotto, parroco di Santa Maria in Trastevere che le trascriveva. Queste confidenze, pubblicate poi nel 1870, riguardavano le frequenti lotte della santa col demonio; del suo viaggio mistico nell’inferno e nel purgatorio; delle tante estasi che le capitavano; e poi dei prodigi e guarigioni che le venivano attribuite.
Le tragedie familiari
Ma questi doni straordinari che il Signore le aveva donato, furono pagati a caro prezzo, la sua vita spesa tutta per la famiglia ed i poveri di Roma, fu funestata da molte disgrazie; già quando aveva 25 anni nel 1409, suo marito Lorenzo, comandante delle truppe pontificie, durante una battaglia contro l’invasore Ladislao di Durazzo re di Napoli, contrario all’elezione di papa Alessandro V (1409-1410), venne gravemente ferito rimanendo semiparalizzato per il resto della sua vita, accudito amorevolmente dalla moglie e dal figlio. Nel 1410 la sua casa venne saccheggiata e i loro beni espropriati, mentre il marito sebbene invalido fu costretto a fuggire, per sottrarsi alla vendetta di re Ladislao, che però prese in ostaggio il figlio Battista. Poi a Roma ci fu l’epidemia di peste, morbo ricorrente in quei tempi, che funestava alternativamente tutta l’Europa, il suo slancio di amore verso gli ammalati, le fece commettere l’imprudenza di aprire il suo palazzo agli appestati; la pestilenza le portò così via due figli, Agnese ed Evangelista e lei stessa si contagiò, riuscendo però a salvarsi; passata l’epidemia poté ricongiungersi con il marito e l’unico figlio rimasto Battista. È di quel periodo l’apparizione in sogno del piccolo figlio Evangelista, insieme con un Angelo misterioso, che s. Francesca da allora in poi avrebbe visto accanto a sé per tutta la vita.
Fondatrice di confraternita
Francesca Bussa, continuando ad aiutare i suoi poveri ed ammalati, senza fra l’altro trascurare la preghiera, tanto da dormire ormai solo due ore per notte, prese a dirigere spiritualmente il gruppo di amiche, che la coadiuvavano nella carità quotidiana e si riunivano ogni settimana nella chiesa di Santa Maria Nova. E durante uno di questi incontri, Francesca le invitò ad unirsi in una confraternita consacrata alla Madonna, restando ognuna nella propria casa, impegnandosi a vivere le virtù monastiche e di donarsi ai poveri. Il 15 agosto 1425 festa dell’Assunta, davanti all’altare della Vergine, le undici donne si costituirono in associazione con il nome di “Oblate Olivetane di Maria”, in omaggio alla chiesa dei padri Benedettini Olivetani che frequentavano, pronunziando una formula di consacrazione che le aggregava all’Ordine Benedettino. Nel marzo del 1433 Francesca poté riunire le Oblate sotto un unico tetto a Tor de’ Specchi, composto da una camera ed un grande camerone, vicino alla chiesa parrocchiale di Sant’Andrea dei Funari; e il 21 luglio dello stesso 1433, papa Eugenio IV eresse la comunità in Congregazione, con il titolo di “Oblate della Santissima Vergine”, in seguito poi dette “Oblate di Santa Francesca Romana”, la cui unica Casa secondo la Regola, era ed è quella romana.
Religiosa lei stessa, la santa morte
Si recava ogni giorno nel monastero da lei fondato, ma continuò ad abitare nel Palazzo Ponziani, per accudire il marito malato; dopo la morte del marito, con il quale visse in armonia per 40 anni, il 21 marzo 1436 lasciò la sua casa, affidandone l’amministrazione al figlio Battista e a sua moglie Mabilia de’ Papazzurri, e si unì alle compagne a Tor de’ Specchi dove fu eletta superiora. Trascorse gli ultimi quattro nel convento, dedicandosi soprattutto a tre compiti: formare le sue figlie secondo le illuminazioni che Dio le donava; sostenerle con l’esempio nelle opere di misericordia alle quali erano chiamate; pregare per la fine dello scisma nella Chiesa. Prese il secondo nome di Romana e così fu sempre chiamata dal popolo e dalla storia, perché Francesca fu tra i grandi che seppero riunire in sé, la gloria e la vitalità di Roma; il popolo romano la considerò sempre una di loro nonostante la nobiltà, e familiarmente la chiamava “Franceschella” o “Ceccolella”. Francesca Romana insegnò alle sue suore la preparazione di uno speciale unguento, che aveva usato e usava per sanare malati e feriti; unguento che viene ancora oggi preparato nello stesso recipiente adoperato da lei più di cinque secoli fa. Ma la ‘santa di Roma’ non morì nel suo monastero, ma nel palazzo Ponziani, perché da pochi giorni si era spostata lì per assistere il figlio Battista gravemente ammalato; dopo poco tempo il figlio guarì ma lei ormai sfinita, morì il 9 marzo 1440 nel palazzo di Trastevere. Le sue spoglie mortali vennero esposte per tre giorni nella chiesa di Santa Maria Nova, una cronaca dell’epoca riferisce la partecipazione e la devozione di tutta la città; fu sepolta sotto l’altare maggiore della chiesa che avrebbe poi preso il suo nome. Da subito ci fu un afflusso di fedeli, tale che la ricorrenza del giorno della sua morte, con decreto del Senato del 1494, fu considerato giorno festivo. Fu proclamata santa il 29 maggio 1608 da papa Paolo V; e papa Urbano VIII volle nella chiesa di Santa Francesca Romana, un tempietto con quattro colonne di diaspro, con una statua in bronzo dorato che la raffigura in compagnia dell’Angelo Custode, che l’aveva assistita tutta la vita. Santa Francesca Romana è considerata compatrona di Roma, viene invocata come protettrice dalle pestilenze e per la liberazione delle anime dal Purgatorio e dal 1951 degli automobilisti. La sua festa liturgica è il 9 marzo.
Lunedì di Pasqua del 1450
La storia, il luogo e l'immagine
La pia usanza di erigere edicole sacre lungo le vie, sui muri delle case, sull'ingresso dei poderi è antichissima. Un uso che segnava oltre la devozione punti di riferimenti nel territorio. Tante sono le testimonianze rimaste quasi intatte da molti secoli.
Così nel quattrocento sorgeva un'edicola dedicata alla Madonna sul margine della via che collegava a Napoli i vari comuni vesuviani, nel lato del Monte Somma. Tale edicola era a pochi chilometri dalla Capitale del meridione d'Italia, in territorio del comune di Sant'Anastasia nella contrada che si chiamava "Arco" per la presenza di arcate di un antico acquedotto romano. Il Domenici parla di un arco «grande, antico di fabbrica che li faceva (all'immagine) ghirllanda e corona e la difendeva dalle piogge, grandine e tempeste... e che era rifugio degli uomini e degli animali». Perciò l'immagine era detta "Madonna dell'Arco".
L'edicola, come ci testimonia fr. Ludovico Ayrola, in uno scritto della fine del seicento, era formata da «una piccola, povera ed antica conicella di fabbrica, in cui con semplici colori effigiata si vedeva la gloriosissima Vergine Maria con faccia grande e sovramodo venerabile». Il Domenici, nel suo Compendio, così descrive il dipinto dell'edicola, che egli vide la prima volta nel 1594:
«Questa divotissima Immagine della Madre di Dio sta dipinta in muro, che con la man sinistra teneramente abbraccia il suo Sacratissimo Figliolo, il quale con la mano destra stringe un pomo: la cui dolcissima Madre mostra l'età di una dolcissima fanciulla di diciott'anni circa, ed è agli occhi di tutti devota, graziosa e bella, tirando più presto al chiaro e bianco che al nero e oscuro... Par che stia a sedere sopra una sedia, secondo alcuni, ma secondo altri pittori siede sopra una meravigliosa nube... Né è da passare con silenzio la proprietà singolare di questa Sacratissima Immagine, avendo un'attrattiva mirabile di modo che rapisce i cuori delle persone che la risguardano, anzi secondo i tempi par che si mostri allegra e malinconica e da qualsivoglia parte e in qualsivoglia modo si risguardi, essa con occhio grazioso e vago vi mira, e ferisce né mai vi saziate di vederla e di mirarla».
Il dipinto certamente non vanta pregi artistici, ma colpisce la mesta espressione del volto dominato da due grandi occhi che hanno l'effetto di penetrare l'animo di chi li guarda, lasciandovi un ricordo indelebile.
Il primo miracolo
Il lunedì di Pasqua del 1450, celebrandosi come di consuetudine ogni anno, dagli abitanti della contrada una festicciola in onore della Beata Vergine Maria, avvenne un prodigio che richiamò su quell'immagine l'attenzione di tutti i fedeli delle terre circonvicine. Presso l'edicola tra le altre cose si giocava a palla-maglio; il gioco consisteva nel colpire una palla di legno con un maglio, e vinceva colui che faceva andare più lontano la propria palla.
Tirò il suo colpo il primo giocatore, poi l'altro, tirò il suo con più energia ed abilità tanto da poter esser certo della vittoria se questo tiro non fosse stato fermato dal tronco di un albero di tiglio, che era sulla direzione e vicino all'edicola della sacra immagine. Indispettito e fuor di sé dalla collera, questi bestemmiò ripetute volte la Santa Vergine, poi, raccattata la palla dal suolo, al colmo dell'ira, la scagliò contro l'effige, colpendola alla guancia sinistra, che subito, quasi fosse stata carne viva, rosseggiò e diede copioso sangue. Gli astanti che, attratti dal gioco, si erano fatti intorno ai due giocatori, ebbero un grido di orrore.
Riavutisi dallo stupore, i presenti presero il disgraziato, e gridando ad un tempo miracolo e giustizia, ne avrebbero fatto scempio, se non fosse giunto opportuno a liberarlo dalle loro mani il conte di Sarno, Gran Giustiziere del Regno, comandante la compagnia contro i banditi. Questi, trovandosi nella contrada, richiamato dal tumulto, accorse con i suoi uomini e s'impadronì del reo, cercando di calmare e trattenere la folla eccitata che chiedeva giustizia.
(Alcune versioni dei fatti dicono che il Giustiziere del Regno, dopo aver constatato il miracolo, lo fece processare e impiccare all’albero di tiglio lì vicino che in 24 ore si seccò. Altre che fu la gente stessa ad impiccarlo, ma che il ramo si ruppe ed il ragazzo si salvò. La versione più probabile è forse questa: la Madonna avrebbe permesso un omicidio di fronte a Lei? Nonostante l'empietà del gesto? No... la Madonna non è una dea assetata di sangue, ma una Madre Misericordiosa..... N.d.R.)
Sparsasi intorno la fama dell'accaduto, fu un accorrere quotidiano di fedeli. Per venire incontro a questi fedeli, proteggere la sacra Immagine e celebrare la liturgia fu costruito prima un tempietto, con un altare dinanzi, poi, più tardi, una chiesetta e due stanzette, una a pianterreno ed una superiore, per ospitare un custode. L'unico custode di cui abbiamo memorie fu il tale Sebastiano da Aversa terziario domenicano, che dovette curare con solerzia e devozione la chiesetta a lui affidata, perché nel 1544 fece fondere una campana di buone dimensioni, recante la seguente iscrizione: «Io fra Sabba, Terziario dell'Ordine Domenicano, ho fatto fare questa campana di elemosine l'anno del Signore 1544».
I fedeli accorsi nei primi tempi, dopo il miracolo della guancia insanguinata, dovette essere numerosi, e molti i voti e le elemosine, perché troviamo che la chiesetta, quantunque piccolissima, fu dichiarata Rettoria e beneficio canonico, senza cura pastorale, ed i Rettori erano nominati dalla Sede Apostolica. Infatti la confraternita di S.Maria delle Grazie eretta in Sant'Anastasia nella chiesa di S.Maria la Nova era tenuta ad intervenire alle processioni delle domeniche di quaresima stabilite nella chiesa di S.Maria dell'Arco; e d'altra parte il Rettore aveva l'impegno di pagare ogni anno, nel giorno di S.Andrea apostolo, un carlino al Vescovo di Nola.
Il sogno della Madonna
A incrementare la devozione a questa Immagine del Beata Vergine Maria fu la tal Eleonora, già moglie di Marcantonio di Sarno, del Comune di Sant'Anastasia. Apparsole in sogno la stessa Madonna dell'Arco, la avvisò del pericolo che correva l'edicola di precipitare al suolo, e le comandò di provvedere. Al mattino Eleonora si recò alla chiesetta, guardò attentamente l'edicola e trovò esatto quanto in sogno Maria le aveva indicato. Piena di zelo si mise all'opera; ma, povera di mezzi, non potette fare altro che innalzare una rozza scarpata di pietra dietro il muro che minacciava di crollare.
Venuto a sapere di questa esigenza il cavaliere napoletano, Scipione De Rubeis Capece Scondito proprio perché devotissimo della Vergine dell'Arco e anche riconoscente per una grazia ricevuta, provvide a migliorare non solo la statica, ma all'ornamento e decorazione di tutto il tempietto che munì di un robusto cancello di ferro; inoltre per evitare che l'Immagine stessa non fosse guastata dall'intemperante devozione dei fedeli, ne coprì il volto con un grosso cristallo fino al busto ed il rimanente con un cancello di legno dorato.
La "particolare" testimonianza di Aurelia del Prete
Viveva, non molto lontano dalla chiesa della Madonna dell'Arco, una certa Aurelia Del Prete maritata a Marco Cennamo, conosciuta in tutta la contrada per triste fama di bruttezza fisica e morale. Un giorno costei, spaccando della legna si ferì un piede e temendo cose peggiori, fece voto alla Vergine dell'Arco che, se fosse guarita, in segno di riconoscenza, avrebbe portato alla chiesetta una coppia di piedi di cera.
Il lunedi di Pasqua di Resurrezione di quell'anno 1589 essa, cedendo alle preghiere del marito, che si recava alla chiesetta per portarvi anch'egli un voto di cera promesso per una grave malattia agli occhi da cui era guarito, si accompagnò con lui trascinandosi dietro con una corda un porcellino, per trovare occasione di venderlo alla fiera che fin da allora si teneva nei dintorni del Santuario. A causa della gran calca di popolo il porcellino le sfuggi di mano e si mise a correre spaventato tra la folla. Aurelia, bestemmiando, imprecando, si diede a corrergli dietro ed a cercarlo e cosi venne a trovarsi dinanzi alla chiesetta proprio mentre il marito, vi giungeva dall'altra parte con il suo voto. Il porcellino, per caso, era là, in mezzo a loro. A tale vista l'ira della donna giungendo al colmo esplose sbattendo a terra il voto di cera che aveva portato il marito, lo calpestò bestemmiando e maledicendo l'immagine della Vergine Maria e colui che l'aveva dipinta e chi veniva a venerarla. La cosa continuò nonostante le implorazioni del marito e di alcuni presenti.
L'anno seguente una malattia ai piedi portò la donna a restare a letto fino a quando, nonostante le cure dei medici, nella notte tra la domenica di Pasqua e il Lunedì, i piedi si staccarono dalle gambe! I parenti ed Aurelia stessa collegarono la cosa al fatto sacrilego dell'anno precedente. Pur volendo tenere nascosto il tragico evento la cosa si riseppe e siccome l'evento poteva essere di monito per tanti fedeli i piedi dell'Aurelia, dopo alcune vicissitudini, furono esposti nel Santuario.
In breve la fama di tale miracolo si sparse dappertutto; e da vicino, da lontano, da ogni parte, fu un accorrere di fedeli e di curiosi che si recavano all'Arco, per sincerarsi della cosa, o per implorar grazie dalla Vergine.
Di giorno in giorno la folla aumentò, divenne immensa, diventò preoccupante. Fu così necessario porre degli alabardieri e degli uomini armati lungo tutto il percorso per evitare inconvenienti. «Era - dice il Domenici - tale il rumore della moltitudine che pareva un mare quando sta in tempesta!». Il Vescovo di Nola, Monsignor Fabrizio Gallo, cercando di impedire una interpretazione superstiziosa del fatto, ordinò che si chiudesse la chiesetta, si sbarrasse il cancello del tempietto, per proibire ai fedeli di venerare l'Immagine. Poi volle sincerarsi personalmente dell'accaduto ed il giorno 11 maggio, venuto all'Arco, istituì un regolare processo canonico. Interrogò il marito, il medico che l'aveva curata, Francesco d'Alfano, lo speziale Alfonso de Moda, il Cav. Capecelatro ed altri; e infine la stessa Aurelia Del Prete ed avuta relazione dell'accaduto, domandò ad essa cosa ne pensasse; la donna rispose:
«Perchè l'anno passato bestemmiai la Madonna Santissima dell'Arco e questa quaresima non l'ho confessato; questa senza dubbio è la causa del castigo che ricevo allo scadere dell'anno.».
Così il Vescovo, senza attendere la conclusione del processo, ritirò il divieto che proibiva ai fedeli di venerare l'Immagine.
L'opera di S. Giovanni Leonardi e la costruzione del Santuario
L'afflusso di molti fedeli crearono particolari problemi organizzativi ed economici. Alcuni dissensi si crearono, e si trascinarono per diversi anni, tra il Vescovo di Nola, il Comune di Sant'Anastasia e il Vicerè di Napoli circa la chiesetta della Madonna dell'Arco.
Solo il Papa Clemente VIII, eletto il 30 gennaio 1592, risolse la annosa questione. Il 9 settembre 1592 mandò da Roma il Padre Giovanni Leonardi da Lucca, fondatore della Congregazione dei Chierici Regolari della Madre di Dio con alcuni suoi preti; e con la lettera della Sacra Congregazione, a firma del Cardinale Alessandrino, incaricò il Vescovo di Nola di affidargli la cura spirituale della Chiesa, e di deputare tre o quattro uomini del Casale di Sant'Anastasia per l'amministrazione delle elemosine e dei beni temporali.
Il giorno 8 ottobre dello stesso anno, con regolare nomina da parte del Vescovo, il P. Giovanni Leonardi prendeva possesso della chiesa ed iniziava il suo ministero coadiuvato da tre suoi sacerdoti. Il 6 aprile 1593 per una maggiore funzionalità, anche in vista di una costruzione di un nuovo e più grande edificio per il culto, tutto, anche la parte economica, fu affidato al Leonardi. Nel suo santo zelo il Padre diede subito inizio all'opera già da tanto tempo e da tutti desiderata; un tempio cioè degno della gloria di Maria.
Il 1° maggio dello stesso anno, giorno di sabato, ne fu posta con grande solennità la prima pietra, benedetta dal Vescovo di Nola Mons. Gallo. Su di essa fu inciso da una parte:
Nell'anno del Signore 1593 il primo maggio,
essendo Papa Clemente VIII,
Re d'Ispagna Filippo II,
e Vescovo di Nola Fabrizio Gallo
fu posta questa prima pietra.
E dalla parte opposta:
Alla Beata Vergine dell'Arco
per la bestemmiatrice Aurelia
castigata nei piedi
l'anno 1590 il giorno 20 aprile.
Bisognò superare non poche difficoltà tecniche, perché l'antica edicola e la cappelletta fatta costruire dal De Rubeis, pur rimanendo dove erano, si trovassero nel centro della chiesa.
La devozione alla Beata Vergine dell'Arco sotto la cura spirituale e l'amministrazione del santo P.Giovanni Leonardi crebbe in quantità e in qualità. Una pallida idea ce la dà una lettera scritta dal Leonardi al Vescovo di Nola per rendere conto dell'amministrazione di un anno. Qui risulta che di sole elemosine aveva raccolti ben 85.009 ducati. Ciò fa pensare a quanta fiducia si era conquistata presso tutti e quanto i fedeli gli fossero grati della sua opera e del suo zelo. Il Vescovo di Nola, poi, scrivendo alla S.Congregazione lo fece con queste parole: «Osservando quanto bene, anzi ottimamente il detto P.Giovanni Leonardi siasi condotto, non solo devesi meritatamente quietare, ma devesi stimare degno di essere premiato, onde lo lodiamo ampiamente».
Le stelle attorno al volto della Vergine e altri prodigi
A molti miracoli e molte grazie è legata la devozione alla Vergine Maria dell'Arco; ne fanno fede le testificazioni di migliaia di ex-voto. Tante le testimonianze riportate dal Domenici nel suo scritto; se ne contano circa duecento con riferimenti a persone ben precise, a testimonianze e per alcune anche a veri e propri processi canonici.Oltre a queste innumerevoli grazie ricevute per intercessione della Beata Vergine Maria, la storia della devozione a questa sacra immagine è costellata anche da fenomeni straordinari testificati da testimoni autorevoli in verbali notarili.
Il miracolo della pietra spezzata. Quando fu costruito il tempietto attuale, si volle rivestire di marmi il muro dov'è dipinta l'immagine della Madonna. Con brutta sorpresa si trovò una grossa pietra vesuviana, incastrata nel muro, che con una delle sue punte arrivava sotto la figura della Madonna. Non si riusciva a toglierla con nessun mezzo, anzi c'era pericolo che da un momento all'altro tutto l'intonaco dov'era dipinta l'immagine andasse in briciole. L'architetto Bartolomeo Picchiatti, vistosi perduto, prese in mano la pietra e pregò con fede la Madonna di dargliela. Essa si spezzò: metà restò nel muro e metà cadde a terra. Questa, a ricordo, fu esposta in chiesa, ma per salvarla dai fedeli che ne prendevano delle schegge per devozione, fu collocata in alto in uno dei pilastri del santuario, dove ancora si può vedere.
Era la notte del 15 febbraio 1621
Nel pomeriggio del 7 marzo del 1638 alcune pie donne che pregavano, nell'alzare gli occhi verso la miracolosa Immagine notarono qualche cosa d'insolito. Fissando più attentamente lo sguardo videro che la guancia colpita dalla palla del sacrilego giocatore, sanguinava di nuovo. Prima timidamente, poi a gran voce gridarono al miracolo, facendo accorrere i vicini ed i frati, che, atterriti, dovettero constatare la verità di quanto le buone donne asserivano.
Il prodigio non cessò quella sera, ma fu visibile a tutti per diversi giorni, dando modo così alla notizia di diffondersi anche lontano. E da tutte le parti fu un accorrere concitato di fedeli, curiosi, ammirati ed atterriti insieme; la folla aumentò di giorno in giorno, fu tanta che le autorità stesse religiose e civili non poterono trascurare la cosa. Accorse infatti da Napoli il Viceré D.Ramiro Felipe Muñez de Guzman, duca di Medina las Torres (1637-43); e nello stesso giorno il Vescovo di Nola Monsignor Giambattista Lancellotti mandò il suo Vicario Generale D.Domenico Ignoli, perché constatasse l'accaduto. Il tutto fu testificato con un atto ufficiale da un pubblico notaio e alla presenza del Viceré, di tutti i Padri del convento, di molti Padri Minori Conventuali e di tutti i sacerdoti della Collegiata di Somma.
Tra i vari prodigi certamente quello più evangelico vissuto in modo giornaliero, è stato (ed è ancora oggi) l'assistenza spirituale e materiale ai pellegrini. In certe occasioni però quello che era una evangelica quotidianità diventava testimonianza di grande carità cristiana. Ci si riferisce qui a quei catastrofici eventi che la popolazione campana ha vissuto nei quattro secoli dell'esistenza di questo augusto Santuario mariano.
Quando vi fu l'eruzione del Vesuvio tra la fine del 1631 e l'inizio dell'anno seguente furono ospitati e curati migliaia di persone finché non terminò il pericolo. Anche in questa circostanza si racconta di un prodigio accaduto: per tutto il tempo dell'eruzione il volto della Madonna scomparve e si rese visibile solo alla fine dell'eruzione. A ricordo di tale evento fu posta, dietro l'edicola della sacra Immagine, una lapide di raro marmo nero con una scritta incisa in lettere d'oro.
Anche durante la peste del 1656, che colpì tutta la Campania, mietendo centinaia di migliaia di vittime, il Santuario di Madonna dell'Arco fu un luogo di ricovero e di cura. In questa occasione è nata la devozione di ungersi in casi di malattia con l'olio della lampada votiva che arde, giorno e notte, presso l'Immagine della Beata Vergine. Molte testimonianze attendibili ci sono rimaste a proposito della guarigione avuta dal male della peste nell'invocare con fede la Madonna. Così in altre simili occasioni il Santuario è diventato luogo di riparo e di carità evangelica nell'assistenza dei rifugiati.
Un'altro prodigio che va narrato per la sua eccezionalità e le sicure testimonianze riportateci, accadde al tramonto del 25 marzo 1675. Un religioso del convento piamente pregava dinanzi all'altare di Maria, quando, alzando gli occhi verso l'Immagine, vide sotto la lividura della guancia risplendere una luce color d'oro e tutto intorno sfavillare numerose e piccole stelle. Ritenendo che fosse un'allucinazione chiamò il sacrestano, e senza prevenirlo, l'invitò a guardare l'Immagine. L'interrogato colmo di meraviglia, confermò la visione della luce e delle stelle, e corse a chiamare il Priore, in quel tempo il P.Rossella. Questi si fece accompagnare da altri due frati all'altare della Vergine e constatò anch'egli il miracolo.
Il mattino dopo all'alba, il Vescovo di Nola, Monsignor Filippo Cesarino, avvisato dal Priore del convento, si recò a visitare la Sacra Immagine. Osservò lungamente le stelle, e commosso volle che immediatamente anche il suo Vicario osservasse ed attestasse quel prodigio. Ordinò ai Padri di divulgare la notizia e di non porre ostacoli alla gioia ed al fervore dei fedeli, ed appena ritornato a Nola, comandò che per tutta la Diocesi s'istituissero pubbliche processioni di ringraziamento. Il Vicerè del tempo, Antonio Alvarez Marchese D'Astorga, (1672-75), accorse anche lui al Santuario, e confermando l'ordine del Vescovo di Nola, comandò che per mano di un pubblico notaio venisse redatto un documento riguardante l'accaduto, da inviare poi al Re di Spagna, assieme a una riproduzione dipinta del miracolo stesso. Dopo il Viceré vennero e constatarono il prodigio il Cardinale Orsini (più tardi papa Benedetto XIII), l'Inquisitore di Napoli e i Consultori del Sant'Uffizio Vaticano.
Il 26 aprile, quindi circa un mese dopo (il che significa che tale prodigio durò molto tempo), il notaio Carlo Scalpato da Nola redasse l'atto ufficiale in presenza e con la testimonianza di moltissime persone autorevoli, religiose e civili, tra le quali troviamo il Nunzio della S.Sede presso il Regno di Napoli S. Ecc. Marco Vicentino, Vescovo di Foligno; il Vescovo di Nola Filippo Cesarino; il Vicario Generale della Diocesi, Giovanbattista Fallecchia; il Duca D. Fabrizio Capece Piscicelli del Sedil Capuano e suo fratello Girolamo; Don Nicola Capecelatro; il residente del Duca di Toscana presso la Corte di Napoli, D. Santolo di Maria, ed il giudice del luogo dott. Onofrio Portelli.
Visita del Papa Pio IX
Pio IX, in seguito alle vicende politiche che lo costrinsero ad abbandonare la sua Sede vaticana, fu ospite del Re di Napoli, Ferdinando II. Stando a Napoli il Papa udì del Santuario e della portentosa Immagine della Madonna dell'Arco. Così volle recarsi a venerare in forma solenne questa Immagine tanto cara al popolo napoletano.
Il 15 dicembre 1849 infatti, a mezzogiorno, il corteo pontificio giunse al Santuario. Accompagnavano Pio IX alcuni Cardinali, ed il Cav. D. Alfonso d'Avalos Marchese di Pescara e Vasto, in rappresentanza dell'autorità civile. Il Sig. De Ionez, Maggiore degli Svizzeri, faceva da cerimoniere. Alla porta del Santuario erano a ricevere Sua Santità, il Maestro Generale dei Domenicani P. Vincenzo Aiello, venuto per l'occasione da Roma, il Provinciale P. Girolamo Gigli, il Priore del convento P. Gian Paolo Brighenti, il Vescovo di Nola Mons. Gennaro Pasca, la Collegiata di S. Anastasia, tutti i frati del convento e una moltitudine di popolo. Appena giunto, il Pontefice, accortosi che le guardie d'onore avevano proibito ai fedeli d'entrare nel tempio, diede ordine che al popolo non fosse vietato l'ingresso, dicendo:
«Innanzi alla Madonna il Papa non entra senza il suo popolo».
Poi giunto dinanzi all'Immagine, s'inginocchiò e poste le guance fra le palme, pianse, rimanendo così in preghiera per molto tempo.
Il Nunzio a Napoli Mons. Naselli impartì la benedizione eucaristica. Terminata la celebrazione Pio IX entrò in sacrestia, dove ammise al "bacio apostolico" tutti i presenti. Poi, dopo aver visitato il convento ed il vicino Ospizio dei Poveri, fece ritorno a Napoli.
La solenne Incoronazione
Una delle date che vanno ricordate per la storia del Santuario è quella della solenne Incoronazione dell'Immagine della Madonna dell'Arco, in quanto questa ha dato inizio alla solenne celebrazione che si svolge ogni anno, la seconda domenica di settembre.
Monsignor Tommaso Passero, dell'Ordine dei Predicatori, devotissimo della Vergine, Vescovo di Troia, chiese al Papa di poter incoronare solennemente la sacra Immagine. Il 22 agosto 1873 ottenne tale permesso. Egli stesso offri le due corone di oro, ed affidò il compito di organizzare il solenne rito a S. Ecc. Mons. Tommaso Michele Salzano, Arcivescovo di Edessa, anch'egli dell'Ordine Domenicano.
© Santuario Madonna dell’Arco
Concilio di Trento
Gli avvenimenti straordinari, che interessano la Chiesa universale, si riflettono sulle chiese locali e sugli istituti religiosi. Nella congregazione verginiana, come la decadenza era stata preceduta dal Grande Scisma d’Occidente, così la ripresa fece seguito alla celebrazione del concilio ecumenico di Trento. In particolare il concilio si era posto il problema della riforma degli istituti religiosi nella quinta sessione del 17 giugno 1546 con l’istituzione dei lettorati di sacra scrittura e nella seduta finale del 3 dicembre 1563 con le disposizioni circa l’ammissione e la formazione dei nuovi candidati. Inoltre i papi, da Paolo IV in poi, si impegnarono con energia per l’attuazione del concilio, inviando nei singoli istituti visitatori apostolici con ampie facoltà di convocare i rispettivi capitoli generali per rinnovarne e aggiornarne le costituzioni.
Nelle more del concilio, i monaci di Montevergine imboccarono la strada della rinascita con la riforma scolastica del 1556. Furono disposti due cicli: il primo per lo studio della grammatica della logica e della filosofia, riservato ai nuovi arrivati per accedere al noviziato; il secondo per lo studiò della teologia e del diritto canonico, riservato ai giovani professi, per accedere agli ordini sacri. Alla fine di ciascun ciclo gli allievi venivano sottoposti all’esame di profitto davanti ad una commissione composta da tre o cinque membri, i quali esprimevano il proprio giudizio mediante votazione segreta; era considerato maturo soio chi otteneva la maggioranza dei voti favorevoli.
In questa scuola si formò una nuova generazione di monaci i quali, per santità di vita, per capacità di governo e per elevatezza d’ingegno, illustrarono la congregazione, migliorarono i rapporti con la curia romana e resero possibile la liberazione dall’opprimente commenda laica dell’Ospedale dell’Annunziata. Nel 1567 il papa Pio V rese vincolanti le conclusioni di una commissione cardinalizia, da lui nominata, intese ad eliminare le controversie e ridare la pace e la tranquillità ai monaci. In realtà si trattò di una specie di accordo provvisorio, che prese il nome di Magna Concordia, il quale riconobbe ai monaci le giuste rivendicazioni circa il vitto e il vestito, ma non la piena liberazione dalla commenda; ed inoltre suggerì di ridurre a soli 18 il numero dei monasteri verginiani, che in quel momento ascendevano a 53, in modo che si potesse più facilmente provvedere alla loro manutenzione ordinaria e straordinaria e consentire in essi una più comoda abitazione, assegnando 50 monaci a Montevergine e 22 alle case dipendenti. La stessa commissione elaborò 25 norme di comportamento monastico, che presero il nome di Statuti di Pio V e furono dati alle stampe nel 1571.
I monaci di Montevergine, che avrebbero dovuto non senza rancore e rimpianto abbandonare 35 monasteri, ripresero la via di Roma quando al soglio pontificio fu elevato il francescano Felice Peretti col nome di Sisto V, il quale da semplice frate e da vescovo dì Sant’Agata dei Goti più di una volta si era recato a venerare la sacra icona del Partenio e personalmente aveva constatato gli inconvenienti che comportava l’ibrida unione della congregazione di Montevergine con l’Ospedale dell’Annunziata di Napoli. Le speranze non rimasero deluse. Sisto V con motu proprio del 27 febbraio 1588 liberò definitivamente la congregazione verginiana dalla commenda, fulminando di scomunica qualunque persona, ecclesiastica o laica, avesse osato ingerirsi nelle cose di Montevergine.
San Giovanni Leonardi
Per aiutare i monaci a risanare le gravi ferite inferte dalla commenda e a percorrere il faticoso cammino della rinascita, il papa Clemente VIII nel 1596 inviò a Montevergine Giovanni Leonardi, fondatore dei Chierici Regolari della Madre di Dio a Lucca, col titolo di commissario pontificio con ampie facoltà di visitare i singoli monasteri della congregazione e di deciderne la sopravvivenza in rapporto alla capacità recettiva ed economica, di correggere gli abusi nel capo e nelle membra, e di aggiornare le costituzioni in rapporto ai dettami conciliari e alle mutate situazioni del tempo.
Il Leonardi conservò la carica di commissario apostolico fino al maggio 1601. Nel frattempo ebbe la possibilità di visitare tutti i monasteri che in quel momento formavano la congregazione verginiana, e di controllarne le entrate, di interrogare e di ascoltare tutti i religiosi residenti in quelle case e di lavorare alla redazione delle nuove costituzioni. Dovette purtroppo constatare che, nonostante le disposizioni del papa Pio V e i ripetuti decreti pontifici circa la soppressione dei piccoli monasteri, le case verginiane erano aumentate, passando da 53 a 59; mentre il numero dei monaci era rimasto pressoché immutato passando da il francescano 304 a 343 unità, delle quali ben 110 erano state assegnate al santuario di Montevergine, 20 a Casamarciano, 18 a Napoli, 13 a Capua, 12 a Penta e 10 a Roma, mentre le rimanenti 169 unità erano state distribuite negli altri 54 monasteri con una presenza di monaci che oscillava da 1 a 7 unità.
A giudizio del commissario, l’ostacolo maggiore per una seria e duratura riforma era costituito da quei “piccioli monasteri, sentine di ogni male, e meritatamente da San Bernardo definiti sinagogae satanae”. Tenuto poi presente che l’introito generale della congregazione si aggirava sui 20.000 scudi, di cui bisognava accantonare 5.000 per la manutenzione dei fabbricati, e conteggiato che il costo annuo di ogni religioso si aggirava sui 60 scudi annui, concluse che la congregazione verginiana non avrebbe dovuto superare il numero di 260 religiosi, da distribuirsi in 18 monasteri da conservare, affidando ai rispettivi superiori la gestione provvisoria dei monasteri più vicini da abbandonare.
Secondo i suggerimenti del papa, il Leonardi avrebbe dovuto assicurare la piena attuazione della riforma, procedendo contro i monaci che si erano allontanati dall’osservanza della regola di San Benedetto e degli statuti del papa Pio V, estirpando il vizio della proprietà privata, ripristinando la vita comune nel vitto e nel vestito, riportando all’antico splendore la liturgia e richiamando la perfetta osservanza dei digiuni e del capitolo delle colpe, dell’orazione mentale e della clausura.
I risultati del lungo e laborioso lavoro della riforma, spesso contrastato dall’orgoglio e dalla rivalità dei monaci, furono approvati dal papa Clemente VIII e codificati nelle dichiarazioni alla regola di San Benedetto, data alla stampa nel 1599. Alla redazione delle dichiarazioni, intese a dare una aggiornata e sicura interpretazione all’antico testo della regola di San Benedetto e a migliorare gli statuti del papa Pio V, avevano collaborato il vescovo di Aversa Bernardino Morra e il monaco verginiano Severo Giliberto. Quest’ultimo nel capitolo generale del 1599 venne eletto per un sessennio abate generale direttamente dal commissario apostolico, divenendo così il primo superiore ad accompagnare i monaci sui nuovo binario della riforma.
© P.M. Tropeano, Montevergine nei secoli, 2005, 115-118
Fondato intorno al 529 da S. Benedetto da Norcia, l'ordine monastico dei Benedettini costituì indubbiamente il più importante ordine religioso del medioevo.
La prima comunità benedettina si costituì a Subiaco e fu la prima delle altre numerosissime che rapidamente si diffusero in Italia ed in Europa. Adattandosi alle evoluzioni sociali e storiche, la regola di S. Benedetto subì nel tempo varie interpretazioni nelle diverse congregazioni, come quella dei Benedettini di Cava, dei Camaldolesi, dei Verginiani.
In Puglia il monachesimo benedettino si affermò in modo considerevole tra l'XI ed il XII secolo per il decadere degli istituti brasiliani, per il deteriorarsi della lega greco-bizantina, per il processo di rilatinizzazione del territorio favorito dalla diffusione della riforma gregoriana. Con il favore ed il sostegno di re normanni, di feudatari e signori locali, ovunque sorsero abbazie, priorati, chiese, monasteri dipendenti dai fiorenti centri benedettini di Cava dei Tirreni, di S. Lorenzo d'Aversa, di Montevergine.
La congregazione benedettina dei Verginiani fu fondata a Montevergine nel 1124 da S. Guglielmo da Vercelli. Papa Alessandro III nel 1181 riconobbe il loro ordine indipendente sotto la regola di S. Benedetto.
I primi ad insediarsi nel territorio di Sant'Agata di Puglia furono i Benedettini di Cava che ebbero, dal 1086, il possesso del casale e priorato di S. Pietro d'Olivola, delle chiese di S. Maria Guardiola e S. Benedetto e, secondo il Guillaume, anche della chiesa di S. Biagio.
I Camaldolesi di S. Lorenzo d'Aversa dal 1092 ebbero il possesso del casale e della chiesa di S. Maria d'Olivola, delle chiese di S. Nicola e di S. Marina dello stesso casale.
Verginiani s’insediarono nel casale di S. Pietro Ursitano nel 1171.
La costruzione del monastero di S. Pietro Ursitano (località poco distante dal paese), secondo lo storico santagatese Lorenzo Agnelli, prese l’avvio proprio ad opera del fondatore dell’ordine, S. Guglielmo da Vercelli.
Poco si può dire del priorato e della successione dei priori e degli abati che lo ressero. Molti documenti sono andati dispersi al momento della soppressione, nel 1807, ed anche nel trasporto delle pergamene dall'Archivio storico di Montevergine a quello di Napoli.
Decaddero fino a scomparire le comunità benedettine di Olivola tra il XIII ed il XIV secolo, ma non toccò la stessa sorte al priorato di S. Pietro Ursitano, per il quale, tra il primo ed il secondo decennio del '500, si aprì un nuovo capitolo di storia.
Fra Martino Sessa da Trevico edificò, a sud ovest del paese, su una preesistente chiesa intitolata a S. Maria delle Grazie, fuori dal centro abitato, tra il 1510 ed il 1520, chiesa e monastero di S. Maria delle Grazie, ove, nel 1557, fra Sebastiano Geremia trasferì l'antico priorato di S. Pietro Ursitano. Intorno alla nuova cellula benedettina, che divenne polo di richiamo di sentita religiosità mariana, si sviluppò il nuovo rione di S. Maria delle Grazie.
Il Lugano ed il Tranfaglia concordemente sostengono che i Verginiani tennero il priorato di S. Pietro Ursitano dal 1171 al 1807. Il Tranfaglia precisa: “Questo monastero nasconde la sua origine nelle tenebre dell'antichità e solo sappiamo dall'archivio di Loreto che con una lettera dell'11 febbraio del 1557 fu permesso a fra' Sebastiano di trasferire in S. Agata il priorato di S. Pietro Ursitano edificato, come dalla visita del 1520, da fra' Martino di Trevico, suo priore con una grotta e altre comodità e colla chiesa...”.
Il possesso fu confermato da vari papi: da Celestino III nel 1197, da Alessandro IV nel 1261, da Urbano IV nel 1264.
Nel 1339 il casale di S. Pietro Ursitano, con il monastero, fu ceduto in fitto da Filippo, abate di Montevergine, a padre Nicola da Apice, per un compenso annuo di 40 tomoli di grano e di orzo.
Della storia dell'antico priorato restano regesti di interessanti pergamene, pubblicati dal rev.mo P. Giovanni Mongelli nella sua pregevole opera in sette volumi Abbazia di Montevergine. Regesto delle pergamene, Roma, 1956-62.
S. Giovanni Leonardi a Sant’Agata di Puglia
Papa Clemente VIII, in risposta alle direttive ed allo spirito innovatore del Concilio di Trento, volle che si controllasse l'osservanza monastica dell'ordine dei Verginiani e, su consiglio dì S. Filippo Neri, affidò a S. Giovanni Leonardi (fondatore dell'Ordine dei Chierici Regolari della Madre di Dio e cofondatore del Collegio Urbano di Propaganda Fide di Roma) il compito di visitare i monasteri benedettini - in tutto una cinquantina - di Montevergine.
Il Breve apostolico porta la data del 29 marzo 1596. La visita apostolica durò cinque anni.
Secondo il decreto pontificio, i monasteri andavano distinti in tre classi: nella prima rientravano le comunità monastiche con 12 religiosi professi con celle distinte; nella seconda quelle di sei – sette, nella terza quelle con un numero inferiore di religiosi.
Così, per esempio, nella prima classe rientravano i monasteri di Montevergine, Roma, S. Guglielmo, Napoli, Casamarciana, Capua, Marigliano, Penta, Salerno, Candida; nella seconda un’altra diecina, tra cui Aversa e Benevento; nella terza oltre venti, tra cui Avellino, Sant’Agata di Puglia, Forenza, Ascoli, Troia, Deliceto, Forenza.
Il Santo giunse a Sant'Agata di Puglia dalla Baronia il 2 maggio 1596, nelle vesti di commissario visitatore e riformatore apostolico. Ricevuto con i dovuti onori, visitò la chiesa di S. Maria delle Grazie, che trovò decentemente e convenientemente adorna. Non si conservava il SS.mo Sacramento. Il monastero aveva solo tre celle per cinque monaci ed una rendita di 400 scudi d’oro. Non potendo assicurare la normale osservanza monastica, doveva essere soppresso. Ma le suppliche del popolo commossero il Santo, che concesse prima sei mesi (il Santo firmò il decreto il 13 febbraio 1597 in Montevergine) e poi tre anni per l'ampliamento dell'edificio (decreto del 17 aprile 1600, sempre da Montevergine). I lavori durarono quasi quattro anni. Si spesero mille ducati, duecento offerti dal marchese di Sant'Agata di Puglia, Carlo Loffredo, ed ottocento dall'Università e dal popolo.
L'edificio fu migliorato ed ingrandito tanto da poter ospitare dodici monaci. Così, nel decreto del 26 aprile del 1600 il monastero di S. Maria delle Grazie è riportato tra quelli da lasciare aperti, in tutto 18.
Il priorato venne definito Badia il 19 maggio del 1611 «motu proprio» da papa Paolo V. Il suo primo abate fu don Anselmo Ambrosino di Mercogliano. I successori, don Luigi Ricciardi e don Urbano de Martino Musacchi, ingrandirono e migliorarono l'edificio, don Mancine reintegrò l'osservanza regolare. Papa Benedetto XIV, il 16 gennaio 1747, ebbe ad elogiare l'operosità e la rettitudine dei nostri monaci, i quali con zelo si dedicavano agli studi ed alla formazione dei giovani, facendo del monastero un centro di divulgazione culturale e di elevazione spirituale.
Dipendevano dalla comunità benedettina di Sant’Agata le grange di Ascoli, Deliceto, Forenza, Troia (i cui conventi furono soppressi da S. Giovanni Leonardi), che fruttavano la rendita di mille ducati annui.
Certamente il Santo non una volta andò Sant’Agata, ma più volte, dovendo verificare l’esattezza dell’esecuzione dei Suoi decreti.
Alla presenza di S. Giovanni Leonardi, che aveva fatto costruire il famoso Santuario in Pomigliano d’Arco, è da collegare l’introduzione a Sant’Agata del culto della Madonna dell’Arco, cui alla fine del ‘500 si intitolò una chiesetta rurale, prima intitolata a S. Maria della Pace, chiesa tuttora aperta al culto.
Dell’Ordine del Verginiani il santagatese don Donato Porro fu due volte abate generale, dal 24 maggio del 1607 al 25 maggio 1611, e nel 1618.
La soppressione
La serena vita dei nostri conventi, monasteri e chiese fu letteralmente sconvolta dalla temperie politico-religiosa della fine del ‘700 e il primo decennio dell’800, coincidente con il processo di laicizzazione che, avviato da tempo, la rivoluzione francese, il periodo napoleonico, il Decennio francese mettevano in atto allo scopo di ridimensionare l’autorità ecclesiastica e controllare o confiscare i beni di opere pie ed ordini religiosi.
Un decreto del 13 febbraio 1807 di Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone e re di Napoli, stabiliva la soppressione degli ordini religiosi possidenti e, quindi, anche di quello benedettino. Di conseguenza i Benedettini di Montevergine dovettero lasciare chiesa e monastero di S. Maria delle Grazie di Sant’Agata di Puglia.
Andati via i Padri, chiesa e monastero, intorno a cui era sorto il rione di S. Maria delle Grazie, subirono spoliazioni e violazioni d’ogni sorta. Il ricco archivio, la prestigiosa biblioteca, due importanti dipinti raffiguranti l’uno S. Guglielmo e Pellegrino e l’altro S. Benedetto, numerosi e preziosi arredi sacri, persino porte, pietre intagliate ed embrici furono sottratti. Restavano in attesa di destinazione una campana e l’organo.
I santagatesi, ai quali la soppressione del monastero aveva lacerato una delle pagine più significative della loro storia, attenti e vigili, sapevano come recuperare e salvare l’una e l’altro.
La campana, già destinata alla fonderia dei cannoni, serviva per il nuovo orologio pubblico. Il vecchio non funzionava più, la popolazione ne pativa ed i malati, che non potevano assumere le medicine a tempo, rischiavano di morire. Questo comunicò il sindaco Giuseppe Del Buono all’Intendente di Capitanata. Si costruì il nuovo orologio e si collocò sulla Casa comunale (Archivio di Stato di Foggia, Amm. Int., F. 141, f. 65). La sua anima fu proprio la campana piccola della chiesa di S. Maria delle Grazie. Ha battuto il tempo a quarti d’ora dal 14 giugno del 1814, ed i suoi rintocchi hanno scandito ore lieti e tristi della comunità santagatese.
Anche l’organo doveva rimanere in loco. Fra tutte le chiese santagatesi l’unica ad esserne sprovvista era quella di S. Maria del Carmine. Ma la confraternita del Carmine non aveva la somma sufficiente per acquistarlo. Si raccolsero tra i fedeli in brevissimo tempo i 25 ducati richiesti e, con il permesso dell’Intendente, in un tripudio di popolo, l’organo fu sistemato nella chiesa del Carmelo, tanto cara a mons. Antonio Lucci, santo vescovo di Bovino, che la vide nascere e benedisse. La festa del Carmelo del 15 luglio 1812 fu particolarmente solenne, essendo le cerimonie sacre accompagnate ed arricchite dal suono dell’organo. A 376 canne (se ne aggiunsero altre nel restauro) e 9 registri, di buona fattura, esso attesta, data l’alta committenza, la sua nobile origine.
La chiesa di S. Maria delle Grazie fu affidata alla confraternita dell’Immacolata, che aveva sede nella chiesa dell’Annunziata dei padri francescani conventuali (anche il loro ordine fu soppresso). La confraternita dell’Immacolata ne ebbe cura fino al 1851, anno in cui vi si costituì con real decreto del 2 agosto, sotto il pontificato di Pio IX, la confraternita di S. Maria delle Grazie, che provvide alla cura, al restauro ed alla manutenzione del sacro edificio, ancora oggi, grazie ad essa ed ai fedeli, aperto al culto e luogo di forte richiamo mariano. Vi si pratica, infatti, il culto della Madonna della Consolazione, della Madonna delle Grazie, della Vergine Incoronata con gran concorso di devoti.
Passò al Comune il monastero i cui locali furono utilizzati per pretura, carcere, scuole elementari, ginnasiali e professionali.
Imponente e magnifica costruzione, realizzata grazie ai decreti di S. Giovanni Leonardi ed alla pietà della popolazione, essa attesta la presenza in Sant’Agata dei Benedettini e di S. Giovanni Leonardi, ma anche di un venerabile, padre Pietro Casani, che accompagnò il Santo nella visita e funse da segretario.
Chiesa e monastero sono due tangibili preziose testimonianze della plurisecolare presenza dei Verginiani a Sant’Agata di Puglia (oltre sei secoli), presenza nella cui storia si rileggono molte vicende della comunità, alla cui crescita spirituale e civile i Padri hanno decisamente contribuito.
Religiosi santagatesi nell’Ordine dei Chierici Regolari della Madre di Dio
Nell’Ordine dei Chierici Regolari della Madre di Dio sono entrati ben cinque religiosi santagatesi.
Il primo fu padre Nicola D’Amato, che celebrò la sua prima messa il 17 luglio 1923 in S. Maria in Campitelli ed il 15 agosto nella chiesa matrice di S. Nicola del suo paese natale. Fu rettore a Fosciandora, e rettore generale dell’Ordine dal 1946 al 1953; è stato postulatore generale dell’Ordine e parroco della chiesa di S. Maria in Campitelli. Lo hanno seguito padre Vespasiano Mele, padre Mario Mele (fratelli), padre Nicola Testa, padre Filippo Santoro, padre Paolo Fredella.
Il testo della visita apostolica
Die 2 Maij. Adm. R. D. Commiss. ad S. Agatham, quam dicunt de Apulia, iter direxit, et in conventu pread. Religionis honorifice receptus, ecclesiam reperiit convenientem et ornatam omniaque in ea satis munda et decentia; non tamen ibi …servabatur SS. Euchar. Sacram. Domum invenit angustam nimis, cum 3 tantum cellis. Habitant ibi quinque monachi, et proventus ad summum ascendit quatuorcentum aureorum, aut circa. Interrogati monachi de priore et pace, dixerunt bene. Illius terrae populi petierunt obnixe non sopprimi locum, et ad aliquam expensam, incertam tamen, obtulerunt se paratos; ….locus inaptus nimis videtur aedificationi.
In hoc loco referit prior (foglio bucato) eius bona stabilia non parvi pendenda, absque Apostolico indulto fuisse (foglio bucato) […] pta.
Giorno 2 maggio 1596. Il molto reverendo Sig. Commissario Apostolico diresse il suo viaggio a Sant’Agata che dicono di Puglia e nel convento di predetta Religione [fu] ricevuto con onori, trovò la chiesa decente ed ornata e tutto abbastanza pulito e decente; non vi si conservava il SS.mo Sacramento dell’Eucaristia. Trovò la casa abbastanza angusta, con solo tre celle. Vi abitano cinque monaci, e i proventi assommano a scudi 400, o circa. Interrogati i monaci intorno al priore ed alla pace dissero bene. La popolazione di quella terra chiese con fermezza che non si sopprimesse il luogo, e si disse disposta a collaborare con qualche somma, ma non la precisò. …il luogo poco adatto alla costruzione. In questo luogo riferì il priore che alcuni beni stabili di certa consistenza erano stati alienati senza l’Indulto Apostolico.
Documenti e Bibliografia essenziale
Archivio storico dell’abbazia di Montevergine
Archivio storico della SS.ma Trinità di Cava dei Tirreni
Archivio storico dell’Ordine dei Chierici Regolari della Madre di Dio (docc. fattimi pervenire in CD dal rev.mo Padre Davide Carbonaro – che ringrazio).
G. Mongelli, L'Archivio Storico dell'Abbazia di Montevergine, Vol. Il, Roma, 1974.
P. N. D'Amato, S. Giovanni Leonardi, in “Incontro”,Rivista dell'Associazione Santagatesi residenti in Roma, febbraio 1969.
D. Donofrio Del Vecchio, Monachesimo benedettino in Sant’Agata di Puglia, in “Itinerari Santagatesi”, Matera 1982.
Tranfaglia, Montevergine e la congregazione verginiana, Roma 1929.
Padre Vittorio Pascucci, La riforma cattolica in S. Giovanni Leonardi, Lucca 2004.
Dora Donofrio Del VecchioFondato intorno al 529 da S. Benedetto da Norcia, l'ordine monastico dei Benedettini costituì indubbiamente il più importante ordine religioso del medioevo.
La prima comunità benedettina si costituì a Subiaco e fu la prima delle altre numerosissime che rapidamente si diffusero in Italia ed in Europa. Adattandosi alle evoluzioni sociali e storiche, la regola di S. Benedetto subì nel tempo varie interpretazioni nelle diverse congregazioni, come quella dei Benedettini di Cava, dei Camaldolesi, dei Verginiani.
In Puglia il monachesimo benedettino si affermò in modo considerevole tra l'XI ed il XII secolo per il decadere degli istituti brasiliani, per il deteriorarsi della lega greco-bizantina, per il processo di rilatinizzazione del territorio favorito dalla diffusione della riforma gregoriana. Con il favore ed il sostegno di re normanni, di feudatari e signori locali, ovunque sorsero abbazie, priorati, chiese, monasteri dipendenti dai fiorenti centri benedettini di Cava dei Tirreni, di S. Lorenzo d'Aversa, di Montevergine.
La congregazione benedettina dei Verginiani fu fondata a Montevergine nel 1124 da S. Guglielmo da Vercelli. Papa Alessandro III nel 1181 riconobbe il loro ordine indipendente sotto la regola di S. Benedetto.
I primi ad insediarsi nel territorio di Sant'Agata di Puglia furono i Benedettini di Cava che ebbero, dal 1086, il possesso del casale e priorato di S. Pietro d'Olivola, delle chiese di S. Maria Guardiola e S. Benedetto e, secondo il Guillaume, anche della chiesa di S. Biagio.
I Camaldolesi di S. Lorenzo d'Aversa dal 1092 ebbero il possesso del casale e della chiesa di S. Maria d'Olivola, delle chiese di S. Nicola e di S. Marina dello stesso casale.
Verginiani s’insediarono nel casale di S. Pietro Ursitano nel 1171.
La costruzione del monastero di S. Pietro Ursitano (località poco distante dal paese), secondo lo storico santagatese Lorenzo Agnelli, prese l’avvio proprio ad opera del fondatore dell’ordine, S. Guglielmo da Vercelli.
Poco si può dire del priorato e della successione dei priori e degli abati che lo ressero. Molti documenti sono andati dispersi al momento della soppressione, nel 1807, ed anche nel trasporto delle pergamene dall'Archivio storico di Montevergine a quello di Napoli.
Decaddero fino a scomparire le comunità benedettine di Olivola tra il XIII ed il XIV secolo, ma non toccò la stessa sorte al priorato di S. Pietro Ursitano, per il quale, tra il primo ed il secondo decennio del '500, si aprì un nuovo capitolo di storia.
Fra Martino Sessa da Trevico edificò, a sud ovest del paese, su una preesistente chiesa intitolata a S. Maria delle Grazie, fuori dal centro abitato, tra il 1510 ed il 1520, chiesa e monastero di S. Maria delle Grazie, ove, nel 1557, fra Sebastiano Geremia trasferì l'antico priorato di S. Pietro Ursitano. Intorno alla nuova cellula benedettina, che divenne polo di richiamo di sentita religiosità mariana, si sviluppò il nuovo rione di S. Maria delle Grazie.
Il Lugano ed il Tranfaglia concordemente sostengono che i Verginiani tennero il priorato di S. Pietro Ursitano dal 1171 al 1807. Il Tranfaglia precisa: “Questo monastero nasconde la sua origine nelle tenebre dell'antichità e solo sappiamo dall'archivio di Loreto che con una lettera dell'11 febbraio del 1557 fu permesso a fra' Sebastiano di trasferire in S. Agata il priorato di S. Pietro Ursitano edificato, come dalla visita del 1520, da fra' Martino di Trevico, suo priore con una grotta e altre comodità e colla chiesa...”.
Il possesso fu confermato da vari papi: da Celestino III nel 1197, da Alessandro IV nel 1261, da Urbano IV nel 1264.
Nel 1339 il casale di S. Pietro Ursitano, con il monastero, fu ceduto in fitto da Filippo, abate di Montevergine, a padre Nicola da Apice, per un compenso annuo di 40 tomoli di grano e di orzo.
Della storia dell'antico priorato restano regesti di interessanti pergamene, pubblicati dal rev.mo P. Giovanni Mongelli nella sua pregevole opera in sette volumi Abbazia di Montevergine. Regesto delle pergamene, Roma, 1956-62.
S. Giovanni Leonardi a Sant’Agata di Puglia
Papa Clemente VIII, in risposta alle direttive ed allo spirito innovatore del Concilio di Trento, volle che si controllasse l'osservanza monastica dell'ordine dei Verginiani e, su consiglio dì S. Filippo Neri, affidò a S. Giovanni Leonardi (fondatore dell'Ordine dei Chierici Regolari della Madre di Dio e cofondatore del Collegio Urbano di Propaganda Fide di Roma) il compito di visitare i monasteri benedettini - in tutto una cinquantina - di Montevergine.
Il Breve apostolico porta la data del 29 marzo 1596. La visita apostolica durò cinque anni.
Secondo il decreto pontificio, i monasteri andavano distinti in tre classi: nella prima rientravano le comunità monastiche con 12 religiosi professi con celle distinte; nella seconda quelle di sei – sette, nella terza quelle con un numero inferiore di religiosi.
Così, per esempio, nella prima classe rientravano i monasteri di Montevergine, Roma, S. Guglielmo, Napoli, Casamarciana, Capua, Marigliano, Penta, Salerno, Candida; nella seconda un’altra diecina, tra cui Aversa e Benevento; nella terza oltre venti, tra cui Avellino, Sant’Agata di Puglia, Forenza, Ascoli, Troia, Deliceto, Forenza.
Il Santo giunse a Sant'Agata di Puglia dalla Baronia il 2 maggio 1596, nelle vesti di commissario visitatore e riformatore apostolico. Ricevuto con i dovuti onori, visitò la chiesa di S. Maria delle Grazie, che trovò decentemente e convenientemente adorna. Non si conservava il SS.mo Sacramento. Il monastero aveva solo tre celle per cinque monaci ed una rendita di 400 scudi d’oro. Non potendo assicurare la normale osservanza monastica, doveva essere soppresso. Ma le suppliche del popolo commossero il Santo, che concesse prima sei mesi (il Santo firmò il decreto il 13 febbraio 1597 in Montevergine) e poi tre anni per l'ampliamento dell'edificio (decreto del 17 aprile 1600, sempre da Montevergine). I lavori durarono quasi quattro anni. Si spesero mille ducati, duecento offerti dal marchese di Sant'Agata di Puglia, Carlo Loffredo, ed ottocento dall'Università e dal popolo.
L'edificio fu migliorato ed ingrandito tanto da poter ospitare dodici monaci. Così, nel decreto del 26 aprile del 1600 il monastero di S. Maria delle Grazie è riportato tra quelli da lasciare aperti, in tutto 18.
Il priorato venne definito Badia il 19 maggio del 1611 «motu proprio» da papa Paolo V. Il suo primo abate fu don Anselmo Ambrosino di Mercogliano. I successori, don Luigi Ricciardi e don Urbano de Martino Musacchi, ingrandirono e migliorarono l'edificio, don Mancine reintegrò l'osservanza regolare. Papa Benedetto XIV, il 16 gennaio 1747, ebbe ad elogiare l'operosità e la rettitudine dei nostri monaci, i quali con zelo si dedicavano agli studi ed alla formazione dei giovani, facendo del monastero un centro di divulgazione culturale e di elevazione spirituale.
Dipendevano dalla comunità benedettina di Sant’Agata le grange di Ascoli, Deliceto, Forenza, Troia (i cui conventi furono soppressi da S. Giovanni Leonardi), che fruttavano la rendita di mille ducati annui.
Certamente il Santo non una volta andò Sant’Agata, ma più volte, dovendo verificare l’esattezza dell’esecuzione dei Suoi decreti.
Alla presenza di S. Giovanni Leonardi, che aveva fatto costruire il famoso Santuario in Pomigliano d’Arco, è da collegare l’introduzione a Sant’Agata del culto della Madonna dell’Arco, cui alla fine del ‘500 si intitolò una chiesetta rurale, prima intitolata a S. Maria della Pace, chiesa tuttora aperta al culto.
Dell’Ordine del Verginiani il santagatese don Donato Porro fu due volte abate generale, dal 24 maggio del 1607 al 25 maggio 1611, e nel 1618.
La soppressione
La serena vita dei nostri conventi, monasteri e chiese fu letteralmente sconvolta dalla temperie politico-religiosa della fine del ‘700 e il primo decennio dell’800, coincidente con il processo di laicizzazione che, avviato da tempo, la rivoluzione francese, il periodo napoleonico, il Decennio francese mettevano in atto allo scopo di ridimensionare l’autorità ecclesiastica e controllare o confiscare i beni di opere pie ed ordini religiosi.
Un decreto del 13 febbraio 1807 di Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone e re di Napoli, stabiliva la soppressione degli ordini religiosi possidenti e, quindi, anche di quello benedettino. Di conseguenza i Benedettini di Montevergine dovettero lasciare chiesa e monastero di S. Maria delle Grazie di Sant’Agata di Puglia.
Andati via i Padri, chiesa e monastero, intorno a cui era sorto il rione di S. Maria delle Grazie, subirono spoliazioni e violazioni d’ogni sorta. Il ricco archivio, la prestigiosa biblioteca, due importanti dipinti raffiguranti l’uno S. Guglielmo e Pellegrino e l’altro S. Benedetto, numerosi e preziosi arredi sacri, persino porte, pietre intagliate ed embrici furono sottratti. Restavano in attesa di destinazione una campana e l’organo.
I santagatesi, ai quali la soppressione del monastero aveva lacerato una delle pagine più significative della loro storia, attenti e vigili, sapevano come recuperare e salvare l’una e l’altro.
La campana, già destinata alla fonderia dei cannoni, serviva per il nuovo orologio pubblico. Il vecchio non funzionava più, la popolazione ne pativa ed i malati, che non potevano assumere le medicine a tempo, rischiavano di morire. Questo comunicò il sindaco Giuseppe Del Buono all’Intendente di Capitanata. Si costruì il nuovo orologio e si collocò sulla Casa comunale (Archivio di Stato di Foggia, Amm. Int., F. 141, f. 65). La sua anima fu proprio la campana piccola della chiesa di S. Maria delle Grazie. Ha battuto il tempo a quarti d’ora dal 14 giugno del 1814, ed i suoi rintocchi hanno scandito ore lieti e tristi della comunità santagatese.
Anche l’organo doveva rimanere in loco. Fra tutte le chiese santagatesi l’unica ad esserne sprovvista era quella di S. Maria del Carmine. Ma la confraternita del Carmine non aveva la somma sufficiente per acquistarlo. Si raccolsero tra i fedeli in brevissimo tempo i 25 ducati richiesti e, con il permesso dell’Intendente, in un tripudio di popolo, l’organo fu sistemato nella chiesa del Carmelo, tanto cara a mons. Antonio Lucci, santo vescovo di Bovino, che la vide nascere e benedisse. La festa del Carmelo del 15 luglio 1812 fu particolarmente solenne, essendo le cerimonie sacre accompagnate ed arricchite dal suono dell’organo. A 376 canne (se ne aggiunsero altre nel restauro) e 9 registri, di buona fattura, esso attesta, data l’alta committenza, la sua nobile origine.
La chiesa di S. Maria delle Grazie fu affidata alla confraternita dell’Immacolata, che aveva sede nella chiesa dell’Annunziata dei padri francescani conventuali (anche il loro ordine fu soppresso). La confraternita dell’Immacolata ne ebbe cura fino al 1851, anno in cui vi si costituì con real decreto del 2 agosto, sotto il pontificato di Pio IX, la confraternita di S. Maria delle Grazie, che provvide alla cura, al restauro ed alla manutenzione del sacro edificio, ancora oggi, grazie ad essa ed ai fedeli, aperto al culto e luogo di forte richiamo mariano. Vi si pratica, infatti, il culto della Madonna della Consolazione, della Madonna delle Grazie, della Vergine Incoronata con gran concorso di devoti.
Passò al Comune il monastero i cui locali furono utilizzati per pretura, carcere, scuole elementari, ginnasiali e professionali.
Imponente e magnifica costruzione, realizzata grazie ai decreti di S. Giovanni Leonardi ed alla pietà della popolazione, essa attesta la presenza in Sant’Agata dei Benedettini e di S. Giovanni Leonardi, ma anche di un venerabile, padre Pietro Casani, che accompagnò il Santo nella visita e funse da segretario.
Chiesa e monastero sono due tangibili preziose testimonianze della plurisecolare presenza dei Verginiani a Sant’Agata di Puglia (oltre sei secoli), presenza nella cui storia si rileggono molte vicende della comunità, alla cui crescita spirituale e civile i Padri hanno decisamente contribuito.
Religiosi santagatesi nell’Ordine dei Chierici Regolari della Madre di Dio
Nell’Ordine dei Chierici Regolari della Madre di Dio sono entrati ben cinque religiosi santagatesi.
Il primo fu padre Nicola D’Amato, che celebrò la sua prima messa il 17 luglio 1923 in S. Maria in Campitelli ed il 15 agosto nella chiesa matrice di S. Nicola del suo paese natale. Fu rettore a Fosciandora, e rettore generale dell’Ordine dal 1946 al 1953; è stato postulatore generale dell’Ordine e parroco della chiesa di S. Maria in Campitelli. Lo hanno seguito padre Vespasiano Mele, padre Mario Mele (fratelli), padre Nicola Testa, padre Filippo Santoro, padre Paolo Fredella.
Il testo della visita apostolica
Die 2 Maij. Adm. R. D. Commiss. ad S. Agatham, quam dicunt de Apulia, iter direxit, et in conventu pread. Religionis honorifice receptus, ecclesiam reperiit convenientem et ornatam omniaque in ea satis munda et decentia; non tamen ibi …servabatur SS. Euchar. Sacram. Domum invenit angustam nimis, cum 3 tantum cellis. Habitant ibi quinque monachi, et proventus ad summum ascendit quatuorcentum aureorum, aut circa. Interrogati monachi de priore et pace, dixerunt bene. Illius terrae populi petierunt obnixe non sopprimi locum, et ad aliquam expensam, incertam tamen, obtulerunt se paratos; ….locus inaptus nimis videtur aedificationi.
In hoc loco referit prior (foglio bucato) eius bona stabilia non parvi pendenda, absque Apostolico indulto fuisse (foglio bucato) […] pta.
Giorno 2 maggio 1596. Il molto reverendo Sig. Commissario Apostolico diresse il suo viaggio a Sant’Agata che dicono di Puglia e nel convento di predetta Religione [fu] ricevuto con onori, trovò la chiesa decente ed ornata e tutto abbastanza pulito e decente; non vi si conservava il SS.mo Sacramento dell’Eucaristia. Trovò la casa abbastanza angusta, con solo tre celle. Vi abitano cinque monaci, e i proventi assommano a scudi 400, o circa. Interrogati i monaci intorno al priore ed alla pace dissero bene. La popolazione di quella terra chiese con fermezza che non si sopprimesse il luogo, e si disse disposta a collaborare con qualche somma, ma non la precisò. …il luogo poco adatto alla costruzione. In questo luogo riferì il priore che alcuni beni stabili di certa consistenza erano stati alienati senza l’Indulto Apostolico.
Documenti e Bibliografia essenziale
Archivio storico dell’abbazia di Montevergine
Archivio storico della SS.ma Trinità di Cava dei Tirreni
Archivio storico dell’Ordine dei Chierici Regolari della Madre di Dio (docc. fattimi pervenire in CD dal rev.mo Padre Davide Carbonaro – che ringrazio).
G. Mongelli, L'Archivio Storico dell'Abbazia di Montevergine, Vol. Il, Roma, 1974.
P. N. D'Amato, S. Giovanni Leonardi, in “Incontro”,Rivista dell'Associazione Santagatesi residenti in Roma, febbraio 1969.
D. Donofrio Del Vecchio, Monachesimo benedettino in Sant’Agata di Puglia, in “Itinerari Santagatesi”, Matera 1982.
Tranfaglia, Montevergine e la congregazione verginiana, Roma 1929.
Padre Vittorio Pascucci, La riforma cattolica in S. Giovanni Leonardi, Lucca 2004.
Dora Donofrio Del Vecchio
1. LA FARMACOLOGIA A LUCCA
La chiesa di Santa Maria del Carmine a Vasto rappresenta uno degli esempi più significativi di Barocco abruzzese dal momento che, costruita ex-novo a sostituzione della più antica S. Nicola degli Schiavoni, riflette nell'articolazione dello spazio interno, nella sua decorazione e anche in facciata un'unità progettuale che in altri edifici "ammodernati" non è possibile rintracciare. La nuova edificazione è resa possibile anche per la disponibilità finanziaria assicurata dalla munificenza dell'Università vastese, dei marchesi Diego e Cesare Michelangelo e della duchessa Gravina Felice Maria Orsini, oltre che dei Padri Lucchesi (o Chierici regolari della Madre di Dio) sotto la cui pertinenza ricade e la chiesa e l'annesso convento. L'edificio conventuale è il primo ad essere completamente ricostruito dai Chierici a partire dal 1719 con lavori che si protraggono per quasi un cinquantennio; di seguito, con la demolizione di S. Nicola del 1758, si procede alla realizzazione della nuova chiesa.
Il progetto di S. Maria del Carmine si è per lungo tempo attribuito a Luigi Vanvitelli, ma una nuova e ricca documentazione assegna definitivamente all'architetto napoletano Mario Gioffredo la paternità dell'opera. Egli adotta in pianta lo schema a croce greca, disegnando una leggera asimmetria fra le dimensioni dei bracci: il vano del presbiterio è prolungato da un breve coro rettangolare, il braccio d'ingresso è ulteriormente dilatato da due cappelle aperte ai lati. La copertura degli ambienti è a volte mentre nell'aula centrale è realizzata una cupola senza tamburo, né finestre o lanterna, ornata da un motivo a cassettoni. Fasci di paraste e colonne appena incassate negli spigoli qualificano sapientemente lo spazio architettonico, la cui decorazione è ideata ancora dal Gioffredo e realizzata tra il 1762 e il 1765 da Michele Saccione e da Lauriano Carbone.
Interessante è il documento che riporta i termini del contratto di appalto, nel quale la chiesa è descritta priva di coperture, per cui i decoratori oltre a impegnarsi alla realizzazione degli stucchi devono anche "terminare tutti li Tetti" (Robotti, 1984). Completano l'arredo alcuni interessanti dipinti databili al XVIII secolo, la tela raffigurante la Presentazione di Maria eseguita dal pittore Crescenzo La Gamba per l'altare maggiore, una Madonna del Rosario ed una Crocifissione realizzate da pittori vastesi per gli altari minori. Sulla facciata in laterizio stacca la gradinata in travertino bianco (ricostruita nel 1904) che termina davanti al portale in pietra realizzato tra il 1759 e il 1761 dal lapicida molisano Giovanni Crisostomo Calvitto, su disegno del Gioffredo. L'architetto richiama nella decorazione del portale di Vasto i motivi che già aveva sperimentato per il portale laterale della chiesa del S. Spirito a Napoli. Ai lati salgono due paraste fino alla cornice modanata del timpano spezzato; al centro apre un'unica ampia finestra archivoltata e delimitata in basso da una balaustra.
La chiesa di S. Maria del Carmine a Vasto mostra una delle più felici soluzioni a croce greca osservabili nella nostra regione e, nonostante sia stata ricostruita alla metà del XX secolo sul modello originario a seguito dei danni subiti dal terremoto del 1915, restituisce ancora oggi la bellezza di uno spazio progettato con sapiente organicità.
“Vi ho offerti alla Regina degli Angeli ovunque voi andrete ella sarà vostro rifugio e protezione”. Con queste parole ci viene trasmessa dai primi biografi di San Giovanni Leonardi, una sorta di istantanea della fondazione dei Chierici Regolari della Madre di Dio avvenuta a Lucca nel piccolo Oratorio di Santa Maria della Rosa il 1 settembre 1574. Più tardi P. Ippolito Marracci, anche egli lucchese, scrittore mariano tra i figli più illustri del Santo di Diecimo, scriverà: “pose la Vergine Maria tra le fondamenta della sua istituzione”. E ancora additando in una sua lettera ai religiosi la spiritualità mariana del Leonardi, riferiva come la preghiera dell’Angelus era tra le preferite del Santo e che la memoria dell’Incarnazione sovente accarezzava la mente ed il cuore. Tra le giaculatorie che il Leonardi amava ripetere vi era quella che, alludendo alle parole del Cantico dei Cantici (1,3), affermava il desiderio profondo della sequela di Cristo partendo dal discepolato di Maria: “Attirami a te o Madre Santa”.
Si può dire da questi brevi tratti, che la Vergine Maria fu la vera dimora del Leonardi, il luogo dove egli sperimentò l’indissolubile primato di Cristo nella sua esistenza e l’appassionato amore alla Chiesa immacolata e ferita. Se egli amava ripetere ai suoi religiosi, “abbiate Cristo avanti agli occhi della vostra mente e con lui misurate le cose” era alla “scuola” della Madre di Dio che egli aveva appreso a meditare tutte queste cose nella profondità del cuore (Lc 2,51). La sua fu una vita spesa “tra le Case di Maria”. Se da una parte il Leonardi pose la sua dimora in colei che aveva offerto nel grembo immacolato una tenda all’Altissimo, l’esistenza del nostro Santo non solo fu tracciato dalla presenza di Maria, ma egli come l’Apostolo Giovanni la prese tra le sue realtà più care (Cf. Gv 19,27).
Fin dalla giovinezza nel piccolo borgo di Diecimo e nella vicina frazione di Villa Basilica nel silenzio delle antiche pievi dedicate all’Assunta, elesse Maria quale custode della sua castità e la volle come sua celeste Patrona e più tardi dell’Ordine. Da giovane prete percepì che le istituzioni alle quali lo Spirito dava corpo, erano riflesso di quel si incondizionato che Maria pronunziò per la salvezza dell’umanità. In effetti, la prima regola che egli indicò ai primi compagni fu l’obbedienza, la capacità di porre mente e cuore alla volontà di Dio servendolo in modo radicale. Quasi a voler confermare questo suo desiderio di prendere dimora presso la Vergine e di costruirgli una casa in mezzo agli uomini, si fece pellegrino insieme ai primi compagni presso il Santuario di Loreto custode delle povere mura nelle quali dimorò il Verbo fatto carne. La spiritualità lauretana ed il pellegrinaggio, segnarono la devozione dei primi padri che, non solo produssero una abbondante letteratura mariana (vedi il pellegrinaggio a Loreto del Venerabile Cesare Franciotti), ma nella Chiesa di Santa Maria Corteorlandini, Casa Madre dell’Ordine a Lucca, nel XVII secolo i religiosi leonardini vollero viva questa memoria spirituale del Fondatore con una riproduzione della dimora lauretana. Il tempo dell’esilio del Santo occupa una grande parentesi della sua esistenza. Questo è il tempo della fedeltà vissuta.
Nella “spiritualità dello sguardo” che il Leonardi trasmette in alcune omelie giovanili, possiamo individuare i tratti del suo travaglio intimo: “A te i miei occhi conquistati da te”. Se l’iconografia (ma anche il ricordo dei primi compagni) ci consegna una immagine del Santo con gli occhi bassi e profondamente riservato; nei suoi scritti, la teologia dell’occhio spirituale, si può dire che trasmette un'altra iconografia, quella della osservazione interiore capace di leggere gli accadimenti, anche quelli dolorosi, con una visione superiore delle cose. E’ nel “patto degli occhi” con il Figlio della Vergine, il Crocifisso-Risorto che il Santo ora può guardare la Chiesa bella e ferita. Una Chiesa da riformare nel capo e nelle membra. Una Chiesa da rifare guardando a Maria colei che “Stava più vicina alla Croce perché era anco più vicina a’suoi dolori; anzi era in Croce col Figlio perché l’anima è più dove ama che dove anima”. Questo amore crocifisso, animò i passi del Santo riformatore. Tra i suoi primi incarichi, portare la pace intorno alla memoria mariana dell’Arco a Sant’Anastasia (Napoli). Nel nome di Maria non ci si può dividere.
Così la piccola edicola mariana più volte ferita dall’insensatezza degli uomini, diventa icona della Chiesa ferita, per la quale il Leonardi fu chiamato a spendere le sue fatiche apostoliche. Il farmacista-prete non fondò solo un santuario, costruì una dimora per quanti desiderano guarire nel profondo i mali del corpo e dello spirito. Instancabile il Santo ricevette dal Papa Clemente VIII il mandato di visitare un’altra Casa di Maria, il secolare santuario della Madonna di Montevergine ad Avellino. Intorno a questo luogo si era irradiato il dono della vita consacrata sotto la Regola di Benedetto. Ma quando i beni della terra attirano alla terra e allontanano il cuore dall’ascendere verso i beni celesti, la consacrazione religiosa perde il suo mordente. A Montevergine il Leonardi offrì una “nuova dimora” ai figli di Maria, i Virginiani, ad essi consegnò il primato del Vangelo di Gesù, invitandoli a spogliarsi di ciò che impedisce l’ascesa verso Cristo e a “risplendere come luci evangeliche poste su un alto monte”. Anche per i suoi figli il Leonardi volle una Casa di Maria a Roma. Il Papa gli affidò l’antico santuario mariano sulle rive del Tevere dedicato a “Maria porto della romana sicurezza”. Da quel Porto il Santo desiderò salpare per le nuove terre, ma questa fu l’ultima Casa di Maria che egli abitò. Le sue parole nella notte del beato transito di quattrocento anni fa furono ancora dedicate allo sguardo che si apre allo stupore: “Oh se tu sapessi!”. Non ci è dato sapere il contenuto della visione, il nostro sguardo contempla oggi nella fragilità delle reliquie, testimoni silenziosi della resurrezione futura, la santità di Giovanni Leonardi “affascinate uomo di Dio”, costruttore di vita evangelica.
P. Davide Carbonaro OMD
Per la data del 9 ottobre il martirologio romano riporta questa dicitura: “A Roma san Giovanni Leonardi Confessore, Fondatore della Congregazione dei Chierici Regolari della Madre di Dio, illustre per le fatiche e per i miracoli. Per opera sua furono istituite le Missioni della Propagazione della Fede”. Il testo fu inserito per volere del papa Leone XIII nel martirologio dopo la beatificazione del Leonardi avvenuta nel 1861. Tale privilegio ci dicono le cronache del tempo, veniva concesso solo ai papi proclamati beati. Questo gesto di Leone XIII volle senz’altro significare il forte legame che il santo lucchese ebbe con la città di Roma e la sede di Pietro. “Illustre per le fatiche e per i miracoli”, un binomio che accompagna le biografie di tutti i santi, ma ha la caratteristica della singolarità perché i segni con i quali Dio glorifica i suoi Servi, manifestano la sua sorprendente creatività.
La parola miracolo spesso usata ed a volte abusata, richiama una verità della nostra fede che, al di là di forme fondamentaliste che vanno comunque scongiurate, sostiene l’irruzione del divino nell’umano. La Parola di Dio ci ricorda che l’incontro fra il divino e l’umano suscita sempre lo stupore e la meraviglia di quest’ultimo. La parola miracolo, nella sua accezione porta in sé l’immagine di qualcosa che irrompe nel visibile in modo straordinario. Tuttavia, ci viene ricordato dagli studiosi, che stupirsi e spaventarsi del sacro che si presenta nella sua forma tremenda e affascinante, non è miracolo. La storia conosce la corsa dell’uomo alla ricerca del fascinoso, dell’ignoto, del meraviglioso. Prima Gesù e poi Paolo hanno una certa reticenza nel mischiare l’annuncio evangelico con ciò che sa di miracoloso ed apparente, mettendo in guardia il loro uditorio (Cf. Mt 12,39; 1 Cor 1,22). Nella mentalità attuale che spesso cede al razionale ed allo sperimentabile, con buona pace di certa filosofia moderna e post-moderna, i discepoli di Gesù osano annunziare, l’evento unico e sublime dell’incarnazione e della redenzione: “Dio si è fatto uomo e ha posto la sua dimora in mezzo a noi” (Cf. Gv 1,14). Questo consideriamo “il miracolo” che da senso, a tutti gli eventi, anche quelli odierni, dove per certi versi, i confini tra il cielo e la terra s’incontrano e ciò che è invisibile si fa visibile, toccabile sperimentabile. In effetti, possiamo affermare che nell’uomo è presente una “profondità”, il suo cuore dice la sapienza biblica si misura con la profondità dell’abisso, solo Dio lo può conoscere (Cf. Sal 64,7; Sir 42,18; Gn 2,4). Tale profondità dell’esistenza, accompagna e nello stesso tempo supera l’uomo. Per questo, egli è chiamato ad accogliere nella sua esistenza quei fatti inspiegabili che Dio dispone liberamente per la sua vita e salvezza. Da sempre la Chiesa per additare alla venerazione un Servo di Dio ha dei criteri ben noti, il fatto che la sua memoria non si è mai spenta dalla mente e dal cuore dei fedeli: “la fama di santità” e che il luogo dove riposano le sue reliquie manifesti le meraviglie di Dio per l’intercessione del suo Servo: “i miracoli”. Nell’Archivio della Postulazione dell’Ordine della Madre di Dio sono conservate le testimonianze di alcuni segni prodigiosi avvenuti per intercessione di San Giovanni Leonardi alcuni di essi sono stati approvati dalla competente autorità ecclesiastica per i processi di beatificazione e canonizzazione.
Il primo miracolo approvato per intercessione del Servo di Dio Giovanni Leonardi, come consta dai processi, fu quello ricevuto da Francesco Maria Febei nobile orvietano residente a Roma nel 1712. Affetto da una gravissima cancrena alla gamba destra che lo avrebbe portato in pochi giorni alla morte. Oppresso da questo pensiero e dai forti dolori, ordinò ad uno dei suoi domestici di portargli un libro dalla biblioteca e la sorte cadde su una biografia di Padre Giovanni Leonardi da Lucca. Il Febei attratto dalla santa figura del Servo di Dio e dalle sue illuminanti virtù, pose sulla parte malata l’immagine che apriva le pagine della biografia. Immediatamente constatò un miglioramento e volle recarsi presso la tomba del Servo di Dio nella Chiesa di Campitelli. Liberato il piede dalla fasce si trovò completamente sanato dalla maligna cancrena.
L’altro miracolo avvenne nel 1821 ed ebbe come referente una domestica di nome Angela Aloisi. Dal 1810 la donna cominciò a soffrire di forti dolori sotto la mammella sinistra. L’inferma attribuiva i gravi affanni, ai patimenti subiti presso una famiglia che aveva servito anni addietro. Nello scorrere del tempo l’edema ed il gonfiore che le provocava crisi di dolore e spossatezza, cominciava a coinvolgere tutto il ventre, tanto che i medici le consigliarono di ricevere i sacramenti per l’impossibilità della guarigione. Il parroco di Campitelli nel cui territorio la donna abitava insieme al viatico recò una immagine con la reliquia del Servo di Dio, e la invitò a compiere un settenario di preghiere. Nel medesimo giorno cominciò a percepire uno stato di benessere. Si alzò da letto e si accinse a fare i servizi di casa. Sentito suonare il campanello corse alla porta, era il medico che meravigliato di vederla in piedi affermò che: “solo un miracolo poteva produrre tale effetto!”. Recuperata la sanità ed il vigore, la mattina seguente si recò nella Chiesa di Santa Maria in Campitelli per rendere grazie al Signore che l’aveva liberata per intercessione del Venerabile Giovanni Leonardi. L’8 marzo del 1861 la Congregazione delle Cause dei Santi, tenne l’ultima sessione di approvazione dei miracoli ed il Decreto fu pubblicato il 27 maggio nella chiesa della Vallicella davanti alle spoglie di San Filippo Neri che era stato amico, difensore e padre spirituale del Servo di Dio. Il Papa Pio IX beatificò Giovanni Leonardi l’11 novembre 1861.
La causa venne ripresa nel 1934 dal P. Gioacchino Maria Corrado che fu per molto tempo Postulatore e da Donna Maria Luisa Kuefstein nobile Oblata di Tor de Specchi che, graziata dal Santo desiderò vederne la glorificazione e per devozione fece confezionare il ciborio che si custodisce presso il suo altare. Per la canonizzazione del Leonardi erano necessari altri due miracoli. Il primo avvenne sul sacerdote Gennaro Nappi nel maggio del 1832 affetto da un’ulcera varicosa che andava conducendo in cancrena la gamba sinistra. Riportiamo la testimonianza del medico che ricorda l’evento con queste parole: “Una sera si decise ad applicare alla gamba ammalata la figura del Beato; al mattino seguente si vide completamente guarito e chiamatomi nel suo domicilio potetti constatare che la lesione era cicatrizzata”.
L’altra guarigione che ebbe le stesse caratteristiche di immediatezza è da riferirsi al piccolo Vittorio Lamberti di Napoli (nella foto) sofferente di “osteomielite flemmonosa del femore sinistro” fin dal terzo anno di età. Nel febbraio del 1926 le condizioni si complicarono con infezioni di setticemia e febbri altissime che conducevano il piccolo in stato comatoso. Sgomento per quella situazione il medico di famiglia il Prof. Vitali, chiese aiuto al Prof. De Gaetano primario presso l’università di Napoli, era la sera del 9 febbraio, il giudizio sulla gravità del male era letale. Mentre avvenivano questi fatti, la zia di Vittorio, Ernestina de Cicco, corse all’Altare del Beato Leonardi nella Chiesa di Santa Maria in Portico a Chiaia. Queste furono le sue parole dettate dal dolore e dalla fede: “O beato Giovanni Leonardi mi dovete fare questa grazia che vi chiedo con tutto il cuore e la forza della devozione che vi porto. Se questo bambino deve come conseguenza del male rimanere un infelice, prendetevelo; altrimenti guaritelo completamente e ridonate la pace ai suoi genitori”. La stessa sera del 9 febbraio 1926 alle ore 18,00 dopo il consulto medico si verificò un improvviso e rapidissimo miglioramento, cessò la febbre e il giorno seguente i medici pieni di stupore lo dichiararono guarito. Il Leonardi fu ascritto nell’Albo dei Santi nel giorno di Pasqua del 1938 dal Papa Pio XI.
P. Davide Carbonaro
Postulatore