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Lunedì, 08 Agosto 2011 17:50

Padre Paolo Fredella nella Pasqua di Cristo

080811Giovedì 4 agosto P. Paolo Fredella ha detto il suo definitivo eccomi al Signore circondato dall’affetto del P. Generale, dei religiosi dell’Ordine e da numerosi fedeli della comunità parrocchiale di San Giovanni Leonardi a Torre Maura e delle diverse comunità dove P. Paolo ha prestato un instancabile servizio presbiterale. I funerali si sono svolti sabato 6 agosto festa della Trasfigurazione del Signore. Durante la celebrazione eucaristica presieduta da P. Rosario Piazzolla Vicario Generale dell’Ordine, è stato rilevato il dono carismatico e la luminosa figura di P. Paolo che riflette il volto di Cristo  Maestro e  Pastore. Così, P. Rosario ha riferito che questa celebrazione non è solo frutto di una coincidenza in quanto: “Parlare di trasfigurazione e di trasformazione, metamorfosi della vita e dello sguardo per contemplare la bellezza, fa un tutt’uno con il celebrare la Pasqua di p. Paolo, questo passaggio da noi al Padre, questo cambiamento nuovo, questo incontro nuovo: ora gli occhi contemplano ciò che hanno raccontato, la bellezza luminosa del volto di Dio. Ma la trasfigurazione è anche l’icona per eccellenza per parlare della chiamata alla vita consacrata e questa celebrazione è veramente l’ultimo “eccomi” di Padre Paolo, dopo una lunga serie che ha accompagnato la sua vita e quelli di molti di noi, nell’Ordine della Madre di Dio”. Infine, il Vicario Generale, ha evocato alcune tappe del percorso spirituale di Padre Paolo La sua esperienza di Pastore e predicatore, di accompagnatore di coscienze e di uomo profondamente spirituale. “Negli anni 80, p. Paolo incontrerà il movimento neocatecumenale, ho ancora il ricordo delle catechesi a San Ferdinando: è stata per lui da quel momento in poi un nuovo modo di ravvivare la sua fede, di riprendere a piene mani la Scrittura, e proprio in un momento speciale della sua vita verso i 60 anni. Neglianni 90, la sua esperienza lo ha portato ad un nuovo pellegrinaggio della fede, l’esperienza di Taizé, lo ha profondamente cambiato nella sua visione dei giovani. E’ stata una vera conversione: chi di noi non ricorda le omelie di quel periodo, dopo che aveva visto tanti giovani in preghiera e nel silenzio e di tutto il mondo, a tutti voleva dire sono una vera speranza questi giovani e vogliono incontrare Cristo. Sempre in questo periodo l’esperienza di Medjugorie, lo ha portato a rinverdire, vi assicuro sono sue parole, quel carisma mariano che ci portiamo dentro come ordine fondato da San Giovanni e affidato alla Regina degli angeli. La riscoperta di Maria come Madre dei sacerdoti, proprio mentre celebrava entusiasta il suo 50° anniversario di Ordinazione Sacerdotale.Grati al Signore per questa nobile testimone di Cristo Risorto, vogliamo ripetere con lui le sue ultime parole: “Domus est col nostro Santo Padre e con tutti i nostri Santi”.
Domenica, 14 Agosto 2011 17:32

A Samayapuram in India sei nuovi presbiteri

140811Sabato 13 agosto la Delegazione indiana è stata in festa per l’ordinazione di sei nuovi presbiteri: Antony Seelan, Agnal Santhosh Kumar, Kulandai Raj, Antony Cruz, Sekar Raja, Jeyan Santhiyagu. Il rito è stato presieduto da S.Ecc.za Mons. F. Antony Samy Vescovo di Kumbakonam presso la St. Mary’s School di Pallavidai Samayapuram. Durante l’omelia il Vescovo si è rivolto hai neopresbiteri affermando che: “L’offerta della loro vita deve assomigliare a quella di Maria, la Madre di Dio, imitando la sua dedizione, accoglienza e sollecitudine verso il popolo di Dio”. Il P. Generale P. Francesco Petrillo ha fatto pervenire un messaggio di fraterna vicinanza e di gioisa gratitudine al Signore per un dono così significativo per la Chiesa e per l’Ordine della Madre di Dio. Erano presenti alla celebrazione il Vicario Generale P. Rosario Piazzolla, il Delegato Generale P. Tommaso Petrongelli e il Rettore della Casa internazionale di Roma P. Davide Carbonaro. Nei giorni successivi i neopresbiteri hanno celebrato l’eucaristia nei pesi di origine insieme ai parenti e alle rispettive comunità parrocchiali.
190811Lunedì 15 agosto presso l’Ospedale Fatebenefratelli di Roma compiva la sua Pasqua P. Lucio Migliaccio già Rettore Generale dell’Ordine della Madre di Dio. Nelle parole pronunziate dal Cardinale Angelo Sodano, decano del Collegio Cardinalizio, durante la messa esequiale celebrata mercoledì 17 agosto a Roma nella chiesa di Santa Maria in Portico in Campitelli. Al rito funebre ha partecipato il cardinale Paolo Sardi, Patrono del Sovrano militare ordine di Malta, di cui P. Lucio era cappellano. Con P. Francesco Petrillo, rettore generale dei Chierici regolari della Madre di Dio, erano presenti numerosi sacerdoti di Napoli (città natale del defunto) e di Roma. La salma di Padre Lucio Migliaccio è stata tumulata nel cimitero romano del Verano, nella cappella dell’Ordine. Così il Cardinale Angelo Sodano ha voluto ricordare P. Lucio Migliaccio nell’omelia: “Nelle prime ore della festa di Maria Assunta in cielo, il padre Lucio Migliaccio chiudeva i suoi occhi a questo  mondo e li apriva alla luce dell’eternità. Terminava così una lunga esistenza di ben novantatrè anni di vita e di settanta anni di sacerdozio, vissuti intensamente al servizio della Chiesa. In realtà egli iniziò il suo sacerdozio nel 1941 in un periodo tragico della storia dell’umanità e obbedendo alla consegna data ai cattolici dal Papa Pio XII ‘Non lamento ma azione’. Visse il suo sacerdozio come servizio alla Chiesa e al mondo, soprattutto ai sofferenti di ogni genere. Memorabile è stata pure l’assistenza a molti ebrei raccolti da lui nella casa del suo Ordine in piazza di Campitelli, nel cuore di Roma. Terminata la guerra, prestò generosamente la sua opera per un  rinnovamento spirituale dell’Italia, come animatore dell’Azione Cattolica  e dei Comitati Civici e come promotore di numerose opere di solidarietà sociale. Lo ricordano pure con gratitudine numerosi alunni del liceo classico Virgilio di Roma, ove pure, per essere vicino ai giovani volle insegnare religione per ben ventidue anni. Il Papa Pio XII ebbe per lui una particolare predilezione, insieme a quella che riservo a quella generazione alla   di uomini che contribuirono alla ricostruzione morale e materiale di Roma e dell’Italia nei difficili anni del dopoguerra. Proverbiale fu poi la devozione che il Padre Migliaccio manifestò verso i successivi Sommi Pontefici che venerava con profonda intensità. L’eucaristia che celebriamo non è solo una messa di suffragio, secondo la tradizione della Chiesa, ma è anche una messa di ringraziamento per il dono che il Signore ha fatto alla sua Chiesa con la vita e le opere di questo suo sacerdote buono e generoso. L’Ordine della Madre di Dio poi, che ebbe il padre Lucio come superiore generale per ben dodici anni, lo ricorda come una guida sicura, nel solco della spiritualità apostolica del fondatore, san Giovanni Leonardi che alla fine del 1500 e all’inizio del 1600, insieme a san Filippo Neri, si dedicò generosamente al rinnovamento spirituale dell’Urbe”. (© Osservatore Romano, 19 agosto 2011)
200811Venerdì 19 agosto l’arcivescovo di Madras (Chennai) S. Ecc.za Mons. Malayappan Chinnappa, S.D.B, ha ricevuto in udienza il Vicario Generale dell’Ordine P. Rosario Piazzolla insieme al Delegato Generale P. Tommaso Petrongelli, al Segretario Generale P. Davide Carbonaro ed al Rettore della Comunità formativa di Madurai P. Beno Vaz. La Delegazione ha portato il saluto del Reverendissimo P. Generale mentre l’Arcivescovo è venuto a conoscenza dell’attività dell’Ordine nel Tamilnadu. In serata i Padri hanno preso parte alla solenne eucaristia perl’inizio dei festeggiamenti della Madonna di Mylapore. L’immagine molto venerata a Madras siconserva nella Cattedrale di San Tommaso davanti ad essa ha pregato intensamente San Francesco Saverio. I Padri hanno così rinnovato l’affidamento dell’Ordine e delle Comunità dell’India alla Madre di Dio.
310811La Comunità di Santa Maria in Portico a Napoli ha salutato nell’Eucaristia di lunedì 29 agosto la Nobildonna Elisabetta Zampaglione, Madrina e Affiliata OMD. Nel commosso ricordo P. Vincenzo Molinaro ha rievocato che anche nella morte si realizza la “buona notizia” il Vangelo della risurrezione, perché al centro di questa notizia vi è Cristo che Elisabetta ha servito e amato nei più piccoli.

060911 2Tre Fratelli Cyril, Jerry e Starlin, della Comunità formativa di Samayapuram India, hanno fatto la professione solenne ed il diaconato sabato 3 settembre. I voti sono stati ricevuti da P. Tommaso Petrongelli Delegato Generale. Durante l’omelia ha ricordato ai neoprofessi che i voti sono la realizzazione del progetto di Dio su di loro fatta di vocazione, studio, formazione ed esperienze. Con la professione ci si santifica per santificare a servizio della Chiesa. In serata i fratelli sono stati ordinati diaconi nella chiesa parrocchiale di Samayapuram dal Vescovo di Ttrichy Antony Devotta, invitando gli ordinandi a Servire la Chiesa e l’Ordine senza differenze di culture e divisioni. Alle celebrazioni hanno preso parte numerosi parenti, confratelli e Sacerdoti.

Martedì, 06 Settembre 2011 22:20

Avvenire: Convegno Associazione Pro ICYC

060911 1Dal 1970 ad oggi l’Icyc  l’istituto fondato da padre Alceste Piergiovanni a Quinta (Cile), ha trovato una famiglia italiana ad oltre 1.200 bambini, ospitando gratuitamente le coppie in Cile nel periodo di coabitazione con i futuri figli e riuscendo ad affidare con successo anche ragazzini già cresciuti (il libro “Ho partorito mille volte”, editrice Ancora, racconta le sue storie di adozione). Trent’anni dopo, nel 2000, in Italia le centinaia di famiglie che hanno avuto un figlio da padre Alceste hanno fondato l’“Associazione famiglie adottive pro Icyc”, una onlus che prosegue l’opera del sacerdote scomparso nel 2003. Sostiene i bambini tuttora residenti a Quinta, guida le coppie affinché possano adottare a costi molto bassi, tiene incontri periodici in molte città e ogni settembre organizza un grande raduno nazionale di genitori italiani e figli cileni. Lo scorso 3-4 settembre a Giulianova dove sono giunte anche numerose giovani coppie desiderose di avvicinare un mondo sconosciuto. L’Associazione pro Icyc dal 2008 fa parte degli enti autorizzati per l’adozione internazionale (www.adozionefamigliicyc.org). Articolo su Avvenire, Domenica 4 settembre, 25.

Mercoledì, 07 Settembre 2011 12:07

L'opera





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Concilio di Trento

Gli avvenimenti straordinari, che interessano la Chiesa universale, si riflettono sulle chiese locali e sugli istituti religiosi. Nella congregazione verginiana, come la decadenza era stata preceduta dal Grande Scisma d’Occidente, così la ripresa fece seguito alla celebrazione del concilio ecumenico di Trento. In particolare il concilio si era posto il problema della riforma degli istituti religiosi nella quinta sessione del 17 giugno 1546 con l’istituzione dei lettorati di sacra scrittura e nella seduta finale del 3 dicembre 1563 con le disposizioni circa l’ammissione e la formazione dei nuovi candidati. Inoltre i papi, da Paolo IV in poi, si impegnarono con energia per l’attuazione del concilio, inviando nei singoli istituti visitatori apostolici con ampie facoltà di convocare i rispettivi capitoli generali per rinnovarne e aggiornarne le costituzioni.

Nelle more del concilio, i monaci di Montevergine imboccarono la strada della rinascita con la riforma scolastica del 1556. Furono disposti due cicli: il primo per lo studio della grammatica della logica e della filosofia, riservato ai nuovi arrivati per accedere al noviziato; il secondo per lo studiò della teologia e del diritto canonico, riservato ai giovani professi, per accedere agli ordini sacri. Alla fine di ciascun ciclo gli allievi venivano sottoposti all’esame di profitto davanti ad una commissione composta da tre o cinque membri, i quali esprimevano il proprio giudizio mediante votazione segreta; era considerato maturo soio chi otteneva la maggioranza dei voti favorevoli.

In questa scuola si formò una nuova generazione di monaci i  quali, per santità di vita, per capacità di governo e per elevatezza d’ingegno, illustrarono la congregazione, migliorarono i rapporti con la curia romana e resero possibile la liberazione dall’opprimente commenda laica dell’Ospedale dell’Annunziata. Nel 1567 il papa Pio V rese vincolanti le conclusioni di una commissione cardinalizia, da lui nominata, intese ad eliminare le controversie e ridare la pace e la tranquillità ai monaci. In realtà si trattò di una specie di accordo provvisorio, che prese il nome di Magna Concordia, il quale riconobbe ai monaci le giuste rivendicazioni circa il vitto e il vestito, ma non la piena liberazione dalla commenda; ed inoltre suggerì di ridurre a soli 18 il numero dei monasteri verginiani, che in quel momento ascendevano a 53, in modo che si potesse più facilmente provvedere alla loro manutenzione ordinaria e straordinaria e consentire in essi una più comoda abitazione, assegnando 50 monaci a Montevergine e 22 alle case dipendenti. La stessa commissione elaborò 25 norme di comportamento monastico, che presero il nome di Statuti di Pio V e furono dati alle stampe nel 1571.

I monaci di Montevergine, che avrebbero dovuto non senza rancore e rimpianto abbandonare 35 monasteri, ripresero la via di Roma quando al soglio pontificio fu elevato il francescano Felice Peretti col nome di Sisto V, il quale da semplice frate e da vescovo dì Sant’Agata dei Goti più di una volta si era recato a venerare la sacra icona del Partenio e personalmente aveva constatato gli inconvenienti che comportava l’ibrida unione della congregazione di Montevergine con l’Ospedale dell’Annunziata di Napoli. Le speranze non rimasero deluse. Sisto V con motu proprio del 27 febbraio 1588 liberò definitivamente la congregazione verginiana dalla commenda, fulminando di scomunica qualunque persona, ecclesiastica o laica, avesse osato ingerirsi nelle cose di Montevergine.

 

San Giovanni Leonardi

Per aiutare i monaci a risanare le gravi ferite inferte dalla commenda e a percorrere il faticoso cammino della rinascita, il  papa Clemente VIII nel 1596 inviò a Montevergine Giovanni Leonardi, fondatore dei Chierici Regolari della Madre di Dio a Lucca, col titolo di commissario pontificio con ampie facoltà di visitare i singoli monasteri della congregazione e di deciderne la sopravvivenza in rapporto alla capacità recettiva ed economica, di correggere gli abusi nel capo e nelle membra, e di aggiornare le costituzioni in rapporto ai dettami conciliari e alle mutate situazioni del tempo.

Il Leonardi conservò la carica di commissario apostolico fino al maggio 1601. Nel frattempo ebbe la possibilità di visitare tutti i monasteri che in quel momento formavano la congregazione verginiana, e di controllarne le entrate, di interrogare e di ascoltare tutti i religiosi residenti in quelle case e di lavorare alla redazione delle nuove costituzioni. Dovette purtroppo constatare che, nonostante le disposizioni del papa Pio V e i ripetuti decreti pontifici circa la soppressione dei piccoli monasteri, le case verginiane erano aumentate, passando da 53 a 59; mentre il numero dei monaci era rimasto pressoché immutato passando da il francescano 304 a 343 unità, delle quali ben 110 erano state assegnate al santuario di Montevergine, 20 a Casamarciano, 18 a Napoli, 13 a Capua, 12 a Penta e 10 a Roma, mentre le rimanenti 169 unità erano state distribuite negli altri 54 monasteri con una presenza  di monaci che oscillava da 1 a 7 unità.

A giudizio del commissario, l’ostacolo maggiore per una seria e duratura riforma era costituito da quei “piccioli monasteri, sentine di ogni male, e meritatamente da San Bernardo definiti  sinagogae satanae”. Tenuto poi presente che l’introito generale della congregazione si aggirava sui 20.000 scudi, di cui bisognava accantonare 5.000 per la manutenzione dei fabbricati, e conteggiato che il costo annuo di ogni religioso si aggirava sui 60 scudi annui, concluse che la congregazione verginiana non avrebbe dovuto superare il numero di 260 religiosi, da distribuirsi in 18 monasteri da conservare, affidando ai rispettivi superiori la gestione provvisoria dei monasteri più vicini da abbandonare.
Secondo i suggerimenti del papa, il Leonardi avrebbe dovuto assicurare la piena attuazione della riforma, procedendo contro i monaci che si erano allontanati dall’osservanza della regola di San Benedetto e degli statuti del papa Pio V, estirpando il vizio della proprietà privata, ripristinando la vita comune nel vitto e nel vestito, riportando all’antico splendore la liturgia e richiamando la perfetta osservanza dei digiuni e del capitolo delle colpe, dell’orazione mentale e della clausura.

I risultati del lungo e laborioso lavoro della riforma, spesso contrastato dall’orgoglio e dalla rivalità dei monaci, furono approvati dal papa Clemente VIII e codificati nelle dichiarazioni alla regola di San Benedetto, data alla stampa nel 1599. Alla redazione delle dichiarazioni, intese a dare una aggiornata e sicura interpretazione all’antico testo della regola di San Benedetto e a migliorare gli statuti del papa Pio V, avevano collaborato il vescovo di Aversa Bernardino Morra e il monaco verginiano Severo Giliberto. Quest’ultimo nel capitolo generale del 1599 venne eletto per un sessennio abate generale direttamente dal commissario apostolico, divenendo così il primo superiore ad accompagnare i monaci sui nuovo binario della riforma.

© P.M. Tropeano, Montevergine nei secoli, 2005, 115-118
Mercoledì, 07 Settembre 2011 12:06

Il Santuario Madonna dell'Arco




Lunedì di Pasqua del 1450

 

La storia, il luogo e l'immagine


lsm6bLa pia usanza di erigere edicole sacre lungo le vie, sui muri delle case, sull'ingresso dei poderi è antichissima. Un uso che segnava oltre la devozione punti di riferimenti nel territorio. Tante sono le testimonianze rimaste quasi intatte da molti secoli.

Così nel quattrocento sorgeva un'edicola dedicata alla Madonna sul margine della via che collegava a Napoli i vari comuni vesuviani, nel lato del Monte Somma. Tale edicola era a pochi chilometri dalla Capitale del meridione d'Italia, in territorio del comune di Sant'Anastasia nella contrada che si chiamava "Arco" per la presenza di arcate di un antico acquedotto romano. Il Domenici parla di un arco «grande, antico di fabbrica che li faceva (all'immagine) ghirllanda e corona e la difendeva dalle piogge, grandine e tempeste... e che era rifugio degli uomini e degli animali». Perciò l'immagine era detta "Madonna dell'Arco".

L'edicola, come ci testimonia fr. Ludovico Ayrola, in uno scritto della fine del seicento, era formata da «una piccola, povera ed antica conicella di fabbrica, in cui con semplici colori effigiata si vedeva la gloriosissima Vergine Maria con faccia grande e sovramodo venerabile». Il Domenici, nel suo Compendio, così descrive il dipinto dell'edicola, che egli vide la prima volta nel 1594:

«Questa divotissima Immagine della Madre di Dio sta dipinta in muro, che con la man sinistra teneramente abbraccia il suo Sacratissimo Figliolo, il quale con la mano destra stringe un pomo: la cui dolcissima Madre mostra l'età di una dolcissima fanciulla di diciott'anni circa, ed è agli occhi di tutti devota, graziosa e bella, tirando più presto al chiaro e bianco che al nero e oscuro... Par che stia a sedere sopra una sedia, secondo alcuni, ma secondo altri pittori siede sopra una meravigliosa nube... Né è da passare con silenzio la proprietà singolare di questa Sacratissima Immagine, avendo un'attrattiva mirabile di modo che rapisce i cuori delle persone che la risguardano, anzi secondo i tempi par che si mostri allegra e malinconica e da qualsivoglia parte e in qualsivoglia modo si risguardi, essa con occhio grazioso e vago vi mira, e ferisce né mai vi saziate di vederla e di mirarla».

Il dipinto certamente non vanta pregi artistici, ma colpisce la mesta espressione del volto dominato da due grandi occhi che hanno l'effetto di penetrare l'animo di chi li guarda, lasciandovi un ricordo indelebile.


 
Il primo miracolo

Il lunedì di Pasqua del 1450, celebrandosi come di consuetudine ogni anno, dagli abitanti della contrada una festicciola in onore della Beata Vergine Maria, avvenne un prodigio che richiamò su quell'immagine l'attenzione di tutti i fedeli delle terre circonvicine. Presso l'edicola tra le altre cose si giocava a palla-maglio; il gioco consisteva nel colpire una palla di legno con un maglio, e vinceva colui che faceva andare più lontano la propria palla.

Tirò il suo colpo il primo giocatore, poi l'altro, tirò il suo con più energia ed abilità tanto da poter esser certo della vittoria se questo tiro non fosse stato fermato dal tronco di un albero di tiglio, che era sulla direzione e vicino all'edicola della sacra immagine. Indispettito e fuor di sé dalla collera, questi bestemmiò ripetute volte la Santa Vergine, poi, raccattata la palla dal suolo, al colmo dell'ira, la scagliò contro l'effige, colpendola alla guancia sinistra, che subito, quasi fosse stata carne viva, rosseggiò e diede copioso sangue. Gli astanti che, attratti dal gioco, si erano fatti intorno ai due giocatori, ebbero un grido di orrore.

Riavutisi dallo stupore, i presenti presero il disgraziato, e gridando ad un tempo miracolo e giustizia, ne avrebbero fatto scempio, se non fosse giunto opportuno a liberarlo dalle loro mani il conte di Sarno, Gran Giustiziere del Regno, comandante la compagnia contro i banditi. Questi, trovandosi nella contrada, richiamato dal tumulto, accorse con i suoi uomini e s'impadronì del reo, cercando di calmare e trattenere la folla eccitata che chiedeva giustizia.

(Alcune versioni dei fatti dicono che il Giustiziere del Regno, dopo aver constatato il miracolo, lo fece processare e impiccare all’albero di tiglio lì vicino che in 24 ore si seccò. Altre che fu la gente stessa ad impiccarlo, ma che il ramo si ruppe ed il ragazzo si salvò. La versione più probabile è forse questa: la Madonna avrebbe permesso un omicidio di fronte a Lei? Nonostante l'empietà del gesto? No... la Madonna non è una dea assetata di sangue, ma una Madre Misericordiosa..... N.d.R.)

Sparsasi intorno la fama dell'accaduto, fu un accorrere quotidiano di fedeli. Per venire incontro a questi fedeli, proteggere la sacra Immagine e celebrare la liturgia fu costruito prima un tempietto, con un altare dinanzi, poi, più tardi, una chiesetta e due stanzette, una a pianterreno ed una superiore, per ospitare un custode. L'unico custode di cui abbiamo memorie fu il tale Sebastiano da Aversa terziario domenicano, che dovette curare con solerzia e devozione la chiesetta a lui affidata, perché nel 1544 fece fondere una campana di buone dimensioni, recante la seguente iscrizione: «Io fra Sabba, Terziario dell'Ordine Domenicano, ho fatto fare questa campana di elemosine l'anno del Signore 1544».

I fedeli accorsi nei primi tempi, dopo il miracolo della guancia insanguinata, dovette essere numerosi, e molti i voti e le elemosine, perché troviamo che la chiesetta, quantunque piccolissima, fu dichiarata Rettoria e beneficio canonico, senza cura pastorale, ed i Rettori erano nominati dalla Sede Apostolica. Infatti la confraternita di S.Maria delle Grazie eretta in Sant'Anastasia nella chiesa di S.Maria la Nova era tenuta ad intervenire alle processioni delle domeniche di quaresima stabilite nella chiesa di S.Maria dell'Arco; e d'altra parte il Rettore aveva l'impegno di pagare ogni anno, nel giorno di S.Andrea apostolo, un carlino al Vescovo di Nola.


 
Il sogno della Madonna

A incrementare la devozione a questa Immagine del Beata Vergine Maria fu la tal Eleonora, già moglie di Marcantonio di Sarno, del Comune di Sant'Anastasia. Apparsole in sogno la stessa Madonna dell'Arco, la avvisò del pericolo che correva l'edicola di precipitare al suolo, e le comandò di provvedere. Al mattino Eleonora si recò alla chiesetta, guardò attentamente l'edicola e trovò esatto quanto in sogno Maria le aveva indicato. Piena di zelo si mise all'opera; ma, povera di mezzi, non potette fare altro che innalzare una rozza scarpata di pietra dietro il muro che minacciava di crollare.

Venuto a sapere di questa esigenza il cavaliere napoletano, Scipione De Rubeis Capece Scondito proprio perché devotissimo della Vergine dell'Arco e anche riconoscente per una grazia ricevuta, provvide a migliorare non solo la statica, ma all'ornamento e decorazione di tutto il tempietto che munì di un robusto cancello di ferro; inoltre per evitare che l'Immagine stessa non fosse guastata dall'intemperante devozione dei fedeli, ne coprì il volto con un grosso cristallo fino al busto ed il rimanente con un cancello di legno dorato.


 
La "particolare" testimonianza di Aurelia del Prete

Viveva, non molto lontano dalla chiesa della Madonna dell'Arco, una certa Aurelia Del Prete maritata a Marco Cennamo, conosciuta in tutta la contrada per triste fama di bruttezza fisica e morale. Un giorno costei, spaccando della legna si ferì un piede e temendo cose peggiori, fece voto alla Vergine dell'Arco che, se fosse guarita, in segno di riconoscenza, avrebbe portato alla chiesetta una coppia di piedi di cera.

Il lunedi di Pasqua di Resurrezione di quell'anno 1589 essa, cedendo alle preghiere del marito, che si recava alla chiesetta per portarvi anch'egli un voto di cera promesso per una grave malattia agli occhi da cui era guarito, si accompagnò con lui trascinandosi dietro con una corda un porcellino, per trovare occasione di venderlo alla fiera che fin da allora si teneva nei dintorni del Santuario. A causa della gran calca di popolo il porcellino le sfuggi di mano e si mise a correre spaventato tra la folla. Aurelia, bestemmiando, imprecando, si diede a corrergli dietro ed a cercarlo e cosi venne a trovarsi dinanzi alla chiesetta proprio mentre il marito, vi giungeva dall'altra parte con il suo voto. Il porcellino, per caso, era là, in mezzo a loro. A tale vista l'ira della donna giungendo al colmo esplose sbattendo a terra il voto di cera che aveva portato il marito, lo calpestò bestemmiando e maledicendo l'immagine della Vergine Maria e colui che l'aveva dipinta e chi veniva a venerarla. La cosa continuò nonostante le implorazioni del marito e di alcuni presenti.

L'anno seguente una malattia ai piedi portò la donna a restare a letto fino a quando, nonostante le cure dei medici, nella notte tra la domenica di Pasqua e il Lunedì, i piedi si staccarono dalle gambe! I parenti ed Aurelia stessa collegarono la cosa al fatto sacrilego dell'anno precedente. Pur volendo tenere nascosto il tragico evento la cosa si riseppe e siccome l'evento poteva essere di monito per tanti fedeli i piedi dell'Aurelia, dopo alcune vicissitudini, furono esposti nel Santuario.

In breve la fama di tale miracolo si sparse dappertutto; e da vicino, da lontano, da ogni parte, fu un accorrere di fedeli e di curiosi che si recavano all'Arco, per sincerarsi della cosa, o per implorar grazie dalla Vergine.

Di giorno in giorno la folla aumentò, divenne immensa, diventò preoccupante. Fu così necessario porre degli alabardieri e degli uomini armati lungo tutto il percorso per evitare inconvenienti. «Era - dice il Domenici - tale il rumore della moltitudine che pareva un mare quando sta in tempesta!». Il Vescovo di Nola, Monsignor Fabrizio Gallo, cercando di impedire una interpretazione superstiziosa del fatto, ordinò che si chiudesse la chiesetta, si sbarrasse il cancello del tempietto, per proibire ai fedeli di venerare l'Immagine. Poi volle sincerarsi personalmente dell'accaduto ed il giorno 11 maggio, venuto all'Arco, istituì un regolare processo canonico. Interrogò il marito, il medico che l'aveva curata, Francesco d'Alfano, lo speziale Alfonso de Moda, il Cav. Capecelatro ed altri; e infine la stessa Aurelia Del Prete ed avuta relazione dell'accaduto, domandò ad essa cosa ne pensasse; la donna rispose:

«Perchè l'anno passato bestemmiai la Madonna Santissima dell'Arco e questa quaresima non l'ho confessato; questa senza dubbio è la causa del castigo che ricevo allo scadere dell'anno.».

Così il Vescovo, senza attendere la conclusione del processo, ritirò il divieto che proibiva ai fedeli di venerare l'Immagine.


 
L'opera di S. Giovanni Leonardi e la costruzione del Santuario

L'afflusso di molti fedeli crearono particolari problemi organizzativi ed economici. Alcuni dissensi si crearono, e si trascinarono per diversi anni, tra il Vescovo di Nola, il Comune di Sant'Anastasia e il Vicerè di Napoli circa la chiesetta della Madonna dell'Arco.

Solo il Papa Clemente VIII, eletto il 30 gennaio 1592, risolse la annosa questione. Il 9 settembre 1592 mandò da Roma il Padre Giovanni Leonardi da Lucca, fondatore della Congregazione dei Chierici Regolari della Madre di Dio con alcuni suoi preti; e con la lettera della Sacra Congregazione, a firma del Cardinale Alessandrino, incaricò il Vescovo di Nola di affidargli la cura spirituale della Chiesa, e di deputare tre o quattro uomini del Casale di Sant'Anastasia per l'amministrazione delle elemosine e dei beni temporali.

Il giorno 8 ottobre dello stesso anno, con regolare nomina da parte del Vescovo, il P. Giovanni Leonardi prendeva possesso della chiesa ed iniziava il suo ministero coadiuvato da tre suoi sacerdoti. Il 6 aprile 1593 per una maggiore funzionalità, anche in vista di una costruzione di un nuovo e più grande edificio per il culto, tutto, anche la parte economica, fu affidato al Leonardi. Nel suo santo zelo il Padre diede subito inizio all'opera già da tanto tempo e da tutti desiderata; un tempio cioè degno della gloria di Maria.

Il 1° maggio dello stesso anno, giorno di sabato, ne fu posta con grande solennità la prima pietra, benedetta dal Vescovo di Nola Mons. Gallo. Su di essa fu inciso da una parte:


Nell'anno del Signore 1593 il primo maggio,
essendo Papa Clemente VIII,
Re d'Ispagna Filippo II,
e Vescovo di Nola Fabrizio Gallo
fu posta questa prima pietra.
E dalla parte opposta:
Alla Beata Vergine dell'Arco
per la bestemmiatrice Aurelia
castigata nei piedi
l'anno 1590 il giorno 20 aprile.

Bisognò superare non poche difficoltà tecniche, perché l'antica edicola e la cappelletta fatta costruire dal De Rubeis, pur rimanendo dove erano, si trovassero nel centro della chiesa.

La devozione alla Beata Vergine dell'Arco sotto la cura spirituale e l'amministrazione del santo P.Giovanni Leonardi crebbe in quantità e in qualità. Una pallida idea ce la dà una lettera scritta dal Leonardi al Vescovo di Nola per rendere conto dell'amministrazione di un anno. Qui risulta che di sole elemosine aveva raccolti ben 85.009 ducati. Ciò fa pensare a quanta fiducia si era conquistata presso tutti e quanto i fedeli gli fossero grati della sua opera e del suo zelo. Il Vescovo di Nola, poi, scrivendo alla S.Congregazione lo fece con queste parole: «Osservando quanto bene, anzi ottimamente il detto P.Giovanni Leonardi siasi condotto, non solo devesi meritatamente quietare, ma devesi stimare degno di essere premiato, onde lo lodiamo ampiamente».

 
Le stelle attorno al volto della Vergine e altri prodigi

A molti miracoli e molte grazie è legata la devozione alla Vergine Maria dell'Arco; ne fanno fede le testificazioni di migliaia di ex-voto. Tante le testimonianze riportate dal Domenici nel suo scritto; se ne contano circa duecento con riferimenti a persone ben precise, a testimonianze e per alcune anche a veri e propri processi canonici.Oltre a queste innumerevoli grazie ricevute per intercessione della Beata Vergine Maria, la storia della devozione a questa sacra immagine è costellata anche da fenomeni straordinari testificati da testimoni autorevoli in verbali notarili.

Il miracolo della pietra spezzata. Quando fu costruito il tempietto attuale, si volle rivestire di marmi il muro dov'è dipinta l'immagine della Madonna. Con brutta sorpresa si trovò una grossa pietra vesuviana, incastrata nel muro, che con una delle sue punte arrivava sotto la figura della Madonna. Non si riusciva a toglierla con nessun mezzo, anzi c'era pericolo che da un momento all'altro tutto l'intonaco dov'era dipinta l'immagine andasse in briciole. L'architetto Bartolomeo Picchiatti, vistosi perduto, prese in mano la pietra e pregò con fede la Madonna di dargliela. Essa si spezzò: metà restò nel muro e metà cadde a terra. Questa, a ricordo, fu esposta in chiesa, ma per salvarla dai fedeli che ne prendevano delle schegge per devozione, fu collocata in alto in uno dei pilastri del santuario, dove ancora si può vedere.

 
Era la notte del 15 febbraio 1621

Nel pomeriggio del 7 marzo del 1638 alcune pie donne che pregavano, nell'alzare gli occhi verso la miracolosa Immagine notarono qualche cosa d'insolito. Fissando più attentamente lo sguardo videro che la guancia colpita dalla palla del sacrilego giocatore, sanguinava di nuovo. Prima timidamente, poi a gran voce gridarono al miracolo, facendo accorrere i vicini ed i frati, che, atterriti, dovettero constatare la verità di quanto le buone donne asserivano.

Il prodigio non cessò quella sera, ma fu visibile a tutti per diversi giorni, dando modo così alla notizia di diffondersi anche lontano. E da tutte le parti fu un accorrere concitato di fedeli, curiosi, ammirati ed atterriti insieme; la folla aumentò di giorno in giorno, fu tanta che le autorità stesse religiose e civili non poterono trascurare la cosa. Accorse infatti da Napoli il Viceré D.Ramiro Felipe Muñez de Guzman, duca di Medina las Torres (1637-43); e nello stesso giorno il Vescovo di Nola Monsignor Giambattista Lancellotti mandò il suo Vicario Generale D.Domenico Ignoli, perché constatasse l'accaduto. Il tutto fu testificato con un atto ufficiale da un pubblico notaio e alla presenza del Viceré, di tutti i Padri del convento, di molti Padri Minori Conventuali e di tutti i sacerdoti della Collegiata di Somma.

Tra i vari prodigi certamente quello più evangelico vissuto in modo giornaliero, è stato (ed è ancora oggi) l'assistenza spirituale e materiale ai pellegrini. In certe occasioni però quello che era una evangelica quotidianità diventava testimonianza di grande carità cristiana. Ci si riferisce qui a quei catastrofici eventi che la popolazione campana ha vissuto nei quattro secoli dell'esistenza di questo augusto Santuario mariano.

Quando vi fu l'eruzione del Vesuvio tra la fine del 1631 e l'inizio dell'anno seguente furono ospitati e curati migliaia di persone finché non terminò il pericolo. Anche in questa circostanza si racconta di un prodigio accaduto: per tutto il tempo dell'eruzione il volto della Madonna scomparve e si rese visibile solo alla fine dell'eruzione. A ricordo di tale evento fu posta, dietro l'edicola della sacra Immagine, una lapide di raro marmo nero con una scritta incisa in lettere d'oro.

Anche durante la peste del 1656, che colpì tutta la Campania, mietendo centinaia di migliaia di vittime, il Santuario di Madonna dell'Arco fu un luogo di ricovero e di cura. In questa occasione è nata la devozione di ungersi in casi di malattia con l'olio della lampada votiva che arde, giorno e notte, presso l'Immagine della Beata Vergine. Molte testimonianze attendibili ci sono rimaste a proposito della guarigione avuta dal male della peste nell'invocare con fede la Madonna. Così in altre simili occasioni il Santuario è diventato luogo di riparo e di carità evangelica nell'assistenza dei rifugiati.

Un'altro prodigio che va narrato per la sua eccezionalità e le sicure testimonianze riportateci, accadde al tramonto del 25 marzo 1675. Un religioso del convento piamente pregava dinanzi all'altare di Maria, quando, alzando gli occhi verso l'Immagine, vide sotto la lividura della guancia risplendere una luce color d'oro e tutto intorno sfavillare numerose e piccole stelle. Ritenendo che fosse un'allucinazione chiamò il sacrestano, e senza prevenirlo, l'invitò a guardare l'Immagine. L'interrogato colmo di meraviglia, confermò la visione della luce e delle stelle, e corse a chiamare il Priore, in quel tempo il P.Rossella. Questi si fece accompagnare da altri due frati all'altare della Vergine e constatò anch'egli il miracolo.

Il mattino dopo all'alba, il Vescovo di Nola, Monsignor Filippo Cesarino, avvisato dal Priore del convento, si recò a visitare la Sacra Immagine. Osservò lungamente le stelle, e commosso volle che immediatamente anche il suo Vicario osservasse ed attestasse quel prodigio. Ordinò ai Padri di divulgare la notizia e di non porre ostacoli alla gioia ed al fervore dei fedeli, ed appena ritornato a Nola, comandò che per tutta la Diocesi s'istituissero pubbliche processioni di ringraziamento. Il Vicerè del tempo, Antonio Alvarez Marchese D'Astorga, (1672-75), accorse anche lui al Santuario, e confermando l'ordine del Vescovo di Nola, comandò che per mano di un pubblico notaio venisse redatto un documento riguardante l'accaduto, da inviare poi al Re di Spagna, assieme a una riproduzione dipinta del miracolo stesso. Dopo il Viceré vennero e constatarono il prodigio il Cardinale Orsini (più tardi papa Benedetto XIII), l'Inquisitore di Napoli e i Consultori del Sant'Uffizio Vaticano.

Il 26 aprile, quindi circa un mese dopo (il che significa che tale prodigio durò molto tempo), il notaio Carlo Scalpato da Nola redasse l'atto ufficiale in presenza e con la testimonianza di moltissime persone autorevoli, religiose e civili, tra le quali troviamo il Nunzio della S.Sede presso il Regno di Napoli S. Ecc. Marco Vicentino, Vescovo di Foligno; il Vescovo di Nola Filippo Cesarino; il Vicario Generale della Diocesi, Giovanbattista Fallecchia; il Duca D. Fabrizio Capece Piscicelli del Sedil Capuano e suo fratello Girolamo; Don Nicola Capecelatro; il residente del Duca di Toscana presso la Corte di Napoli, D. Santolo di Maria, ed il giudice del luogo dott. Onofrio Portelli.

 
Visita del Papa Pio IX

Pio IX, in seguito alle vicende politiche che lo costrinsero ad abbandonare la sua Sede vaticana, fu ospite del Re di Napoli, Ferdinando II. Stando a Napoli il Papa udì del Santuario e della portentosa Immagine della Madonna dell'Arco. Così volle recarsi a venerare in forma solenne questa Immagine tanto cara al popolo napoletano.

Il 15 dicembre 1849 infatti, a mezzogiorno, il corteo pontificio giunse al Santuario. Accompagnavano Pio IX alcuni Cardinali, ed il Cav. D. Alfonso d'Avalos Marchese di Pescara e Vasto, in rappresentanza dell'autorità civile. Il Sig. De Ionez, Maggiore degli Svizzeri, faceva da cerimoniere. Alla porta del Santuario erano a ricevere Sua Santità, il Maestro Generale dei Domenicani P. Vincenzo Aiello, venuto per l'occasione da Roma, il Provinciale P. Girolamo Gigli, il Priore del convento P. Gian Paolo Brighenti, il Vescovo di Nola Mons. Gennaro Pasca, la Collegiata di S. Anastasia, tutti i frati del convento e una moltitudine di popolo. Appena giunto, il Pontefice, accortosi che le guardie d'onore avevano proibito ai fedeli d'entrare nel tempio, diede ordine che al popolo non fosse vietato l'ingresso, dicendo:
«Innanzi alla Madonna il Papa non entra senza il suo popolo».

Poi giunto dinanzi all'Immagine, s'inginocchiò e poste le guance fra le palme, pianse, rimanendo così in preghiera per molto tempo.

Il Nunzio a Napoli Mons. Naselli impartì la benedizione eucaristica. Terminata la celebrazione Pio IX entrò in sacrestia, dove ammise al "bacio apostolico" tutti i presenti. Poi, dopo aver visitato il convento ed il vicino Ospizio dei Poveri, fece ritorno a Napoli.

 
La solenne Incoronazione

Una delle date che vanno ricordate per la storia del Santuario è quella della solenne Incoronazione dell'Immagine della Madonna dell'Arco, in quanto questa ha dato inizio alla solenne celebrazione che si svolge ogni anno, la seconda domenica di settembre.

Monsignor Tommaso Passero, dell'Ordine dei Predicatori, devotissimo della Vergine, Vescovo di Troia, chiese al Papa di poter incoronare solennemente la sacra Immagine. Il 22 agosto 1873 ottenne tale permesso. Egli stesso offri le due corone di oro, ed affidò il compito di organizzare il solenne rito a S. Ecc. Mons. Tommaso Michele Salzano, Arcivescovo di Edessa, anch'egli dell'Ordine Domenicano.


© Santuario Madonna dell’Arco



Il linguaggio dei numeri

s paoloTra le abituali modalità con cui oggi, attraverso molteplici mezzi, la informazione non solo viene immessa nei circoli comunicativi, ma spesso risulta anche adeguatamente soppesata, primeggia quella dei parametri numerici. Questi ultimi appaiono sempre più assidui al punto che si finisce per conferire loro una carica di significazione valutativa forse fin troppo eccessiva e a volte senza dubbio decisamente meccanicistica.

Tuttavia non c’è dubbio che, tanto per restare alla tematica proposta, desta sicuramente una certa particolare sensazione il notare come per ben 37 volte compaia la voce “San Paolo” nell’indice analitico ubicato al termine del volume in cui sono raccolti i SERMONI di San Giovanni Leonardi e del quale curai la pubblicazione nel 2003.

Per di più va osservato come questa nota di merito appena accennata non tenga conto dei tanti altri richiami esegetici ugualmente messi in relazione con l’Apostolo. Difatti questo tipo di rimando appare largamente diffuso qua e là nelle carte dell’ampio manoscritto anche se, ovviamente, spesso ciò avviene in maniera soltanto implicita. Ma è evidente che questi ultimi riferimenti, ancorché in sede di decodificazione critica mi si manifestassero chiarissimi nel loro nesso ascetico, siccome però sul piano della stretta formalità lessicale non apparivano esplicitati in modo diretto, naturalmente non potevo catalogarli in quel preciso e determinato elenco.

A questa prima indicazione bibliografica, e sempre in rapporto alle Epistole lasciateci dall’Apostolo, vanno poi ad assommarsi altri collegamenti i quali, a loro volta, sono presenti con frequenza anche nelle lettere del Santo. Qualcuna di queste espressioni viene riportata addirittura con la citazione testuale della corrispondente pericope  paolina, qualche altra invece, pur rivelando con limpidezza la propria matrice di provenienza, appare però riproposta addirittura in gergo e quindi mutuata dal padre Giovanni con delle formulazioni linguistiche decisamente personalizzate.

 

Non altro che Cristo

Scrivendo alla comunità cristiana di Corinto San Paolo affermava di “non sapere annunciare altro se non Gesù Cristo, e questi crocifisso” (1 Cor 2, 2).

Proprio nella scrupolosa fedeltà a un simile progetto di vita e fermamente legato a questo magistero così radicale e totalizzante, Giovanni Leonardi conformò ogni attimo della sua esistenza.

Difatti, a sicuro e comprovato sigillo di quanto ho appena scritto, mi limito a riferire solo un minuscolo frammento desunto da una sua lettera, fra i tanti che potrei citare al riguardo.

Il 16 settembre del 1603 ammoniva con paterna ed intensa emozione i suoi religiosi ad avere sempre:
Avanti gli occhi della mente nostra solo l’onore, il servizio e la gloria di Cristo Gesù Crocifisso”. L’assoluta evidenza comparativa dei testi dispensa dal dover, anche minimamente, sottolineare come, nel fugace ed essenziale documento epistolare, si provveda a stilare una vera e propria commossa parafrasi del brano biblico appena riportato nel primo capoverso di questo paragrafo.

Si noti, però, che -in termini di assoluta ed esigente chiarezza, oltre che di esistenziale e realistica aderenza-  quel decisivo messaggio viene esposto alla personale tenuta di un gruppo di giovani i quali sanno benissimo di essere dei concreti ed effettivi protagonisti della loro storia, ma che si accingono a giocare il proprio futuro esclusivamente sulla scorta di una carismatica guida spirituale alla quale si consegnano con cieca fiducia.

Tuttavia la nota più rilevante da cogliere è un’altra.
Su di essa mi corre ora il responsabile obbligo di richiamare l’attenzione con estrema premura.
Essa consiste nel dover prendere atto che l’esortazione qui riferita certamente non è affatto la registrazione di un estemporaneo invito prodottosi con modalità episodiche ed occasionali, magari soltanto perché sollecitato da una qualche necessità risultata determinante in quel momento a motivarne la stesura.

La realtà più affascinante è che, al contrario, tanti altri scritti leonardini ci testimoniano come quella fermissima indicazione costituisse una sua costante assiomatica così continuamente ricorrente da rivelarsi perciò, nitido specchio di un suo costitutivo e radicato convincimento di fede. Egli avvertiva, con scrupolo, l’esigenza apostolica di dover riversare quel patrimonio, come preziosa eredità, verso chi si rendeva disponibile a percorrere il suo stesso itinerario.

Perché ne fossero ben scandite in piena coerenza le differenziate stagioni del personale vissuto, il Santo prestò sempre vigile e premurosa attenzione alle direttrici di un singolare quanto misterioso tracciato che da tempo percepiva tra gli inconsci risvolti del proprio interno. Quegli sparsi segmenti, riannodandosi progressivamente tra loro, man mano configurarono -nella devota specularità del suo animo- le grandezze di un progetto forse inizialmente a malapena intuito, ma che intanto gli si andava dipanando con maggiore chiarezza ogni giorno di più grazie al suo umile atteggiamento di premuroso e adorante discernimento dello Spirito.

 

“Con Lui misurate le cose”

A piena conferma dell’assunto or ora chiarito, dirò che il titoletto preposto al capoverso l’ho desunto direttamente da un’altra sua lettera, quella cioè del 16 maggio 1592.

L’invito assai fiducioso, ma anche altrettanto fortemente perentorio, per un verso evoca un lessico tecnicamente familiare per chi un tempo, sul bancone della spezieria era stato obbligato a dosare con attenzione il farmaco e per l’altro, alla luce meditativa della parola rivelata, riconosce il solo Medico in grado di salvare l’uomo teso in un difficile processo di rinnovamento e di liberazione dal male.

Infatti tutta la sua vita ne fu -di questo fermissimo convincimento- la più coerente e leggibile esegesi interpretativa.

Dalla esperienza di laico impegnato, praticata prima di tutto nel giovanile e rigoroso fervore riformista tra i  Colombini di Lucca, proprio alla stregua di un vero neofita; a quella poi della seria e responsabile dedizione professionale presso la spezieria di Antonio Parigi per la quale Benedetto XVI lo avrebbe proclamato celeste patrono dei farmacisti; successivamente quale presbitero in Lucca e, per quella porzione di Chiesa, sollecitato ad ogni forma di annuncio evangelico: privilegiando in prima istanza i fanciulli, ma subito dopo rivolgendosi anche agli adulti con specifici incontri di catechesi svolti nell’oratorio della Rosa;e poi come fondatore di una nuova famiglia religiosa; e ancora quale riformatore di antichi istituti monastici su diretta committenza pontificia; e infine progettando a Roma una rinnovata missionarietà di vasto respiro evangelico e adeguata ai mutati confini -anche geografici- dell’umano.

In un contesto ecclesiale lacerato spesso soltanto da astiose polemiche e da vuoti verbalismi che, nel migliore dei casi, si rivelavano quanto meno puramente accademici, propose quale unico punto di riferimento innovativo per l’uomo che si pone alla ricerca della sua vera identità solo i chiari lineamenti della figura di Cristo.

 

Un duplice nutrimento

Con una raffinata modalità che raramente è dato cogliere, il dono carismatico di Giovanni Leonardi si esprime anche attraverso la singolare capacità di realizzare una originalissima ed efficace sintesi.

Il Santo Fondatore viene a collocarsi tra istintive attitudini intellettuali e l’incalzante dinamismo etico -evangelicamente contagioso- che gli derivava da una crescita personalmente voluta con forte decisione e perseguita con altrettanta irremovibile costanza in virtù di una trainante suggestione interiore da lui avvertita in maniera affascinante ed irresistibile.

Per onestà storica va riconosciuto che tante componenti dottrinali e diversi presupposti di costume derivarono alla sua formazione giovanile certamente da substrati culturali ben relazionati ad un preciso ambiente di religiosità e di culto. Purtroppo a onor del vero, nella sua CRONACA relativa alle primissime origini dell’Istituto Leonardino, Cesare Franciotti ci fornisce un quadro non proprio esaltante, ma anzi assai drammaticamente avvilente di quel contesto cittadino. Comunque, pur al di là di queste innegabili contraddizioni interne alla realtà lucchese, non è difficile ravvisare come -ciononostante- dall’identica cerchia provenga al Nostro, in ogni caso, una innata carica di notevole sensibilità estetico-mistica.

Tuttavia questo originario connaturato patrimonio, viene poi però intensamente potenziato per la saldatura che il protagonista riesce a realizzare col nutrimento dello spirito da lui assai ben metabolizzato, intanto attraverso uno studio particolarmente attento e severo. Ciò avviene prima di tutto con le discipline umanistiche grazie alle quali, difatti, non di rado campeggiano nei suoi scritti frequenti apporti della classicità.

Ma la sua crescita interiore avviene soprattutto in virtù di un’appassionata quanto meditata lettura del dato rivelato. Per averne una minima conferma basterà pensare anche semplicemente all’infinito numero delle citazioni scritturistiche cosparse con abbondanza nei testi conservati fino a qualche tempo fa nel geloso segreto degli Archivi ed ora messi finalmente a disposizione degli studiosi. Si tenga presente poi -secondo quanto ho potuto largamente dimostrare in diverse altre sedi- che gli stessi brevi segmenti biblici vengono riferiti dal nostro autore con il solo supporto della memoria.

 

Il “Volto Santo” di Lucca

Come non ravvisare allora nella intensa cristologia di San Giovanni Leonardi, da lui riproposta sempre con rinnovato impatto emozionale e perciò resa quasi plasticamente tangibile, come non cogliere in quei ripetuti, insistenti messaggi, in quell’annuncio costantemente proclamato, come non percepire -dicevo- una indelebile, persistente reminiscenza a lungo custodita nel suo animo con profonda emozione e venerata con familiare trasporto?

Difatti sono unici e inconfondibili i tratteggi attraverso i quali -dalla notte dei tempi- nella cattedrale di Lucca si mostra, a chi devotamente si sofferma, la severa e pur dolcissima immagine del “Volto Santo” .

Nel Cristo certamente crocifisso, ma solennemente ammantato di fastosi abiti e adorno di corona regale, l’antica e ieratica icona rende visivamente percepibile l’umiliazione e il dramma della morte, ma anche la certezza esaltante del mistero pasquale.

Giovanni Leonardi se ne immedesimò talmente al punto da far del tutto sua quella identificazione mistica con il Maestro Divino già enunciata dall’apostolo Paolo (Gal 2,20).

A livello di personalissimo segnale grafico, il nostro Santo abitualmente si lascia contraddistinguere per una scrittura assai marcata e quindi vigorosamente vistosa, oltre che assai difficile da decodificare. Ebbene, proprio all’interno di un ben definito sermone, per l’esattezza, quello intitolato: “In die exaltationis Sanctae Crucis”, l’autore provvede a stilare soltanto sul bordo del manoscritto e attraverso minuscoli quasi impercettibili caratteri, come per un senso di signorile e riservato pudore, una postilla infuocata di amore.

In essa è virtualmente enunciata la massima sublimazione che si possa concepire della Croce. Scandalo e stoltezza per alcuni, come scrive Paolo (1 Cor i,23), qui è percepita addirittura in termini di gioiosa esplosione emotiva.

A quella sdrucita carta padre Giovanni consegna tutta la piena di un appagamento assolutamente non dicibile con povere e semplici parole umane (2 Cor 12,4).

 

Testamento ascetico

Volendo focalizzare in un estremo compendio tutto quanto ho cercato di esporre in queste scarne annotazioni, sono soprattutto due le sollecitudini pastorali che il Leonardi ha recepito dal singolare magistero di Paolo di Tarso.

Dalla carta 461 alla 464 dei SERMONI, e proprio commentando una pericope della seconda lettera ai Corinzi (2 Cor 6,3), il Santo ci affida una specie di testamento spirituale visto che, rispetto agli altritesti omileticiquasi tutti legati alle sue prime esperienze di presbitero della diocesi lucchese, questo sembra aver avuto una redazione, invece, in tempi non lontani da quella che sarebbe stata poi la conclusione della sua giornata terrena.

Innanzitutto: Non vanificare il dono di Dio.
Solo chi è passato, dall’angosciante buio di un tunnel, al fulgore della “via di Damasco”,  può esortare a “non accogliere invano la grazia di Dio” (2 Cor 6,1).

A quella data padre Giovanni aveva ormai fatto delle esperienze assai sofferte, in qualità di riformatore pontificio e come inviato personale di Clemente VIII, presso la Madonna dell’Arco, a Montevergine, a Vallombrosa e a  Montesenario. Le stesse, inoltre, si erano poi sommate alle lacune ecclesiali già viste nella sua terra di origine. Ed ecco la ragione per la quale non aveva esitato nell’inviare a Paolo V il coraggioso “Memoriale per la riforma di tutta la Chiesa”.

Questo spiega perché, testualmente, ora si premuri di scrivere: “Attendiamo, di gratia, di non haver ricevuto la gratia di Dio invano e non corrispondere con le nostre operationi”.

Il secondo passaggio non può essere altro che il conseguente, positivo progetto di vita con il dovere di una “purità candida e santa della vita cristiana perché il buon cristiano si deve non solo guardare dal male, ma anche ab operibus mali”.

La citazione del frammento paolino, registrato in questo caso con modalità addirittura testuali, per davvero non ha bisogno di commento, ma solo di filiale gratitudine storica.

 

Un occhio stupefatto per l’incanto

Dopo tanti anni, nel corso dei quali, attraverso la pubblicazione di una quindicina di volumi, ho portato avanti le mie investigazioni archivistiche sulla figura del nostro Santo Fondatore non esito, ancora oggi, a confessare più che mai una mia rinnovata, profonda ammirazione verso di lui.

Infatti, è veramente impossibile non restare commossi nel proprio intimo ed esimersi da una  totale, gradevolissima suggestione nel constatare come -quale che possa essere l’argomento trattato- Giovanni Leonardi abbia il dono di articolare le sue meditate considerazioni in modo tale da annodarle -comunque e in ogni caso- sempre intorno a un unico, irrinunciabile polo di riferimento vitale costituito -perennemente- dalla persona di Cristo Gesù di Nazaret.

Ancorché si esprima in un organico quanto articolato tessuto di fede, questa “lettura” del Maestro  -dai connotati così spiccatamente paolini innanzitutto nelle tematiche, ma frequentemente persino nel più esplicito strumento lessicale- viene percepita e contemplata dal Santo in una personalissima dimensione assolutamente originale.

Essa si definisce per una eminente modalità capace di contraddistinguere la propria qualifica sotto forma di un singolare tracciato cui viene rivendicata precisa e piena autonomia ascetica.

Per quanto a un osservatore esterno e distratto un certo esito possa anche sembrare apparentemente distante o addirittura impossibile -per la specifica trattazione che è in oggetto- il nucleo centrale del pensiero cristologico leonardino è così profondo e determinante da offrirgli in ogni momento la virtuale e irripetibile potenzialità di evolvere in modo tale da concludere qualsiasi percorso meditativo  puntando il suo occhio -perennemente stupefatto per l’incanto- sempre e comunque solo sulla figura del suo Maestro Divino.
                                                                                         
Vittorio Pascucci OMD
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