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stemma e nome





ic sfr bIl corpo di Santa Francesca Romana, donna evangelica che fu sposa, madre e serva fedele del Signore, nel IV centenario della canonizzazione, sta visitando alcune Chiese di Roma legate alla sua presenza e alla sua spiritualità. Nella Chiesa di Santa Maria in Campitelli le reliquie saranno venerate il 7 e l’8 febbraio. Santa Francesca non ebbe modo di vedere durante la sua vita l’attuale Chiesa di Campitelli perché edificata nella metà del XVII secolo, tuttavia pregò come tutti i romani dinanzi all’icona di Santa Maria in Portico, oggi venerata nel santuario di Campitelli. In effetti, le testimonianze storiche accertano che il nome dei Ponziani, è tra le famiglie patrizie medievali che appaiono negli elenchi della “Nobile società di Santa Maria in Portico”. La Compagnia, fu fondata da Alessandro II nel 1061 e Celestino III nel 1191 la legò all’Ospedale di Santa Maria in Portico, in seguito unito a quello della Consolazione presso il Campidoglio (Cf. L. Pasquali, Compendio storico della miracolosa immagine di S. Maria in Portico, Roma 1901, 37-62). San Giovanni Leonardi durante la sua permanenza romana nell’Oratorio di San Girolamo “il fonte e l’origine dello spirito in Italia”, fu accompagnato e presentato presso il Monastero di Tor De’ Specchi, da San Filippo Neri per la direzione spirituale delle Oblate. Così Ludovico Marracci riferisce nella biografia del Santo: “Si stese ancora la carità di Giovanni ad aiutare nello spirito le Reverende Madri di Torre di Specchi, per mezzo delle sacramentali Confessioni, e degli esercitij spirituali, fatti da molte di quelle alle di lui mani. Et alcune li restarono tanto affettionate, e tanto gran concetto della sua virtù formarono, che essendo di già passato da questa all’immortal vita, lo scrissero nel catalogo de’i loro Santi Tutelari, e con gran fede alle di lui intercessioni ricorrendo, molte gratie ne ricevettero, siccome da’i processi autenticamente formati è manifesto. E forse per questa loro devotione al Santo Fondatore, procurarono poi quelle Reverende Madri, & ottennero da Paolo V per Confessori ordinarij i figliuoli di Giovanni, i quali le servirono in tal cura per qualche tempo.” (L. Marracci, Vita del Venerabil Padre Giovanni Leonardi Lucchese, Roma 1623, 256-257). In seguito, la nobile Duchessa di Gravina Felice Maria Orsini (1565-1647), la cui storia è narrata tra le memorie dei padri dell’Ordine della Madre di Dio, fu accolta fra le Oblate di Tor De’ Specchi nel 1620. Lasciò nel 1646 la sua casa e i suoi possedimenti ai padri leonardini di Napoli, edificando il santuario napoletano di Santa Maria in Portico a Chiaia e commissionando una preziosa copia dell’effigie romana della Madonna di Campitelli (C. A. Erra, Memoria De’ Religiosi della Madre di Dio, 1759 239-253).



Santa Francesca Romana: origini, sposa per obbedienza


La nobile Francesca Bussa de’ Buxis de’ Leoni, nacque a Roma nel 1384, in una famiglia abitante nei pressi di Piazza Navona e fu battezzata nella chiesa romanica di Sant’Agnese in Agone.Ebbe un’educazione elevata per una fanciulla del suo tempo, grandicella accompagnava la madre Jacovella de’ Broffedeschi, nelle visite alle varie chiese del suo rione, ma spesso fino alla lontana chiesa di santa Maria Nova sull’antica Via Sacra, gestita dai Benedettini di Monte Oliveto, dai quali la madre era solito confessarsi e in questa chiesa, anche Francesca trovò il suo primo direttore spirituale, padre Antonello di Monte Savello, che ben presto si accorse della vocazione della fanciulla alla vita monastica, nonostante vivesse negli agi di una ricca e nobile famiglia. Ma fu proprio questo benedettino a convincerla ad accettare la volontà del padre, Paolo Bussa de’ Buxis de’ Leoni, che secondo i costumi dell’epoca, aveva combinato per la dodicenne Francesca, un matrimonio con il nobile Lorenzo de’ Ponziani; il padre, in quel periodo conservatore del Comune di Roma, intendeva così allearsi ad un’altra famiglia nobile. I Ponziani si erano arricchiti con il mestiere di macellai, comprando case e feudi nobilitandosi, essi risiedevano in un palazzo di Trastevere al n. 61 dell’attuale via dei Vascellari, che nel Medioevo si chiamava contrada di Sant’Andrea degli Scafi; dell’antico palazzo più volte trasformato nei secoli, rimangono le ampie cantine e al pianterreno l’ambiente quattrocentesco con il soffitto a cassettoni. Una volta sposata, Francesca andò ad abitare nel palazzo dei Ponziani, ma l’inserimento nella nuova famiglia non fu facile, e questa difficoltà si aggiunse alla sofferenza provata per aver dovuto rinunciare alla sua vocazione religiosa; ne scaturì uno stato di anoressia che la sprofondò nella prostrazione. Si cercò di sollevarla da questa preoccupante situazione ma invano; finché all’alba del 16 luglio 1398 le apparve in sogno sant’Alessio che le diceva: “Tu devi vivere… Il Signore vuole che tu viva per glorificare il suo nome”. Al risveglio Francesca, accompagnata dalla cognata Vannozza, si recò alla chiesa dedicata al santo pellegrino sull’Aventino, per ringraziarlo e da allora la sua vita cambiò, accettando la sua condizione di sposa e a 16 anni ebbe il primo dei tre figli, che amò teneramente, ma purtroppo solo uno arrivò all’età adulta.


Santità vissuta in famiglia e nelle opere di carità

Con la cognata Vannozza, prese a dedicare il suo tempo libero dagli impegni familiari, a soccorrere poveri ed ammalati; erano anni drammatici per Roma, gli ecclesiastici discutevano sulla superiorità o meno del Concilio Ecumenico sul Papa; lo Scisma d’Occidente devastava l’unità della Chiesa e lo Stato Pontificio era politicamente allo sbando ed economicamente in rovina. Roma per tre volte fu occupata e saccheggiata dal re di Napoli, Ladislao di Durazzo e a causa delle guerriglie urbane, la città era ridotta ad un borgo di miserabili. Papi ed antipapi di quel periodo di scisma, si combattevano fra loro e spesso mancava un’autorità centrale ed autorevole, per riportare ordine e prosperità. Francesca perciò volle dedicarsi a sollevare li misere condizioni dei suoi concittadini più bisognosi; nel 1401 essendo morta la moglie, il suocero Andreozzo Ponziani le affidò le chiavi delle dispense, dei granai e delle cantine; Francesca ne approfittò per aumentare gli aiuti ai poveri e in pochi mesi i locali furono svuotati. Il suocero allibito decise di riprendersi le chiavi, ma ecco che essendo rimasta nei granai soltanto la pula, Francesca, Vannozza e una fedele serva, per cercare di soddisfare fino all’ultimo le richieste degli affamati, fecero la cernita e distribuirono anche il poco grano ricavato; ma pochi giorni dopo sia i granai che le botti del vino erano prodigiosamente pieni. Andreozzo che comunque era un uomo caritatevole, che già nel 1391 aveva fondato l’Ospedale del Santissimo Salvatore, utilizzando la navata destra di una chiesa in disuso, oggi chiamata Santa Maria in Cappella, restituì le chiavi alla caritatevole nuora. A questo punto Francesca decise di dedicarsi sistematicamente all’opera di assistenza; con il consenso del marito Lorenzo de’ Ponziani, vendette tutti i vestiti e gioielli devolvendo il ricavato ai poveri e indossò un abito di stoffa ruvida, ampio e comodo per poter camminare agevolmente per i miseri vicoli di Roma. Era ormai conosciuta ed ammirata da tutta Trastevere, che aveva saputo del prodigio dei granai di nuovo pieni, e un gruppo di donne ne seguirono l’esempio; con esse Francesca andava a coltivare un campo nei pressi di San Paolo, da cui ricavava frutta e verdura trasportate con un asinello e che poi elargiva personalmente alla lunga fila di poveri, che ormai ogni giorno cercava di sfamare. Alla morte del suocero Andreozzo de’ Ponziani, Francesca si prese cura dell’Ospedale del Ss. Salvatore, ma senza tralasciare le visite private e domiciliari che faceva ai poveri. Incurante delle critiche e ironie dei nobili romani a cui apparteneva, si fece questuante per i poveri, specie quelli vergognosi e per loro chiedeva l’elemosina all’entrata delle chiese; mentre si prodigava instancabilmente in queste opere di amore concreto, tanto che il popolino la chiamava paradossalmente “la poverella di Trastevere”, Francesca riceveva dal Signore il dono di celesti illuminazioni, che lei riferiva al suo confessore Giovanni Mariotto, parroco di Santa Maria in Trastevere che le trascriveva. Queste confidenze, pubblicate poi nel 1870, riguardavano le frequenti lotte della santa col demonio; del suo viaggio mistico nell’inferno e nel purgatorio; delle tante estasi che le capitavano; e poi dei prodigi e guarigioni che le venivano attribuite.


Le tragedie familiari

Ma questi doni straordinari che il Signore le aveva donato, furono pagati a caro prezzo, la sua vita spesa tutta per la famiglia ed i poveri di Roma, fu funestata da molte disgrazie; già quando aveva 25 anni nel 1409, suo marito Lorenzo, comandante delle truppe pontificie, durante una battaglia contro l’invasore Ladislao di Durazzo re di Napoli, contrario all’elezione di papa Alessandro V (1409-1410), venne gravemente ferito rimanendo semiparalizzato per il resto della sua vita, accudito amorevolmente dalla moglie e dal figlio. Nel 1410 la sua casa venne saccheggiata e i loro beni espropriati, mentre il marito sebbene invalido fu costretto a fuggire, per sottrarsi alla vendetta di re Ladislao, che però prese in ostaggio il figlio Battista. Poi a Roma ci fu l’epidemia di peste, morbo ricorrente in quei tempi, che funestava alternativamente tutta l’Europa, il suo slancio di amore verso gli ammalati, le fece commettere l’imprudenza di aprire il suo palazzo agli appestati; la pestilenza le portò così via due figli, Agnese ed Evangelista e lei stessa si contagiò, riuscendo però a salvarsi; passata l’epidemia poté ricongiungersi con il marito e l’unico figlio rimasto Battista. È di quel periodo l’apparizione in sogno del piccolo figlio Evangelista, insieme con un Angelo misterioso, che s. Francesca da allora in poi avrebbe visto accanto a sé per tutta la vita.


Fondatrice di confraternita

Francesca Bussa, continuando ad aiutare i suoi poveri ed ammalati, senza fra l’altro trascurare la preghiera, tanto da dormire ormai solo due ore per notte, prese a dirigere spiritualmente il gruppo di amiche, che la coadiuvavano nella carità quotidiana e si riunivano ogni settimana nella chiesa di Santa Maria Nova. E durante uno di questi incontri, Francesca le invitò ad unirsi in una confraternita consacrata alla Madonna, restando ognuna nella propria casa, impegnandosi a vivere le virtù monastiche e di donarsi ai poveri. Il 15 agosto 1425 festa dell’Assunta, davanti all’altare della Vergine, le undici donne si costituirono in associazione con il nome di “Oblate Olivetane di Maria”, in omaggio alla chiesa dei padri Benedettini Olivetani che frequentavano, pronunziando una formula di consacrazione che le aggregava all’Ordine Benedettino. Nel marzo del 1433 Francesca poté riunire le Oblate sotto un unico tetto a Tor de’ Specchi, composto da una camera ed un grande camerone, vicino alla chiesa parrocchiale di Sant’Andrea dei Funari; e il 21 luglio dello stesso 1433, papa Eugenio IV eresse la comunità in Congregazione, con il titolo di “Oblate della Santissima Vergine”, in seguito poi dette “Oblate di Santa Francesca Romana”, la cui unica Casa secondo la Regola, era ed è quella romana.


Religiosa lei stessa, la santa morte

Si recava ogni giorno nel monastero da lei fondato, ma continuò ad abitare nel Palazzo Ponziani, per accudire il marito malato; dopo la morte del marito, con il quale visse in armonia per 40 anni, il 21 marzo 1436 lasciò la sua casa, affidandone l’amministrazione al figlio Battista e a sua moglie Mabilia de’ Papazzurri, e si unì alle compagne a Tor de’ Specchi dove fu eletta superiora. Trascorse gli ultimi quattro nel convento, dedicandosi soprattutto a tre compiti: formare le sue figlie secondo le illuminazioni che Dio le donava; sostenerle con l’esempio nelle opere di misericordia alle quali erano chiamate; pregare per la fine dello scisma nella Chiesa. Prese il secondo nome di Romana e così fu sempre chiamata dal popolo e dalla storia, perché Francesca fu tra i grandi che seppero riunire in sé, la gloria e la vitalità di Roma; il popolo romano la considerò sempre una di loro nonostante la nobiltà, e familiarmente la chiamava “Franceschella” o “Ceccolella”. Francesca Romana insegnò alle sue suore la preparazione di uno speciale unguento, che aveva usato e usava per sanare malati e feriti; unguento che viene ancora oggi preparato nello stesso recipiente adoperato da lei più di cinque secoli fa. Ma la ‘santa di Roma’ non morì nel suo monastero, ma nel palazzo Ponziani, perché da pochi giorni si era spostata lì per assistere il figlio Battista gravemente ammalato; dopo poco tempo il figlio guarì ma lei ormai sfinita, morì il 9 marzo 1440 nel palazzo di Trastevere. Le sue spoglie mortali vennero esposte per tre giorni nella chiesa di Santa Maria Nova, una cronaca dell’epoca riferisce la partecipazione e la devozione di tutta la città; fu sepolta sotto l’altare maggiore della chiesa che avrebbe poi preso il suo nome. Da subito ci fu un afflusso di fedeli, tale che la ricorrenza del giorno della sua morte, con decreto del Senato del 1494, fu considerato giorno festivo. Fu proclamata santa il 29 maggio 1608 da papa Paolo V; e papa Urbano VIII volle nella chiesa di Santa Francesca Romana, un tempietto con quattro colonne di diaspro, con una statua in bronzo dorato che la raffigura in compagnia dell’Angelo Custode, che l’aveva assistita tutta la vita. Santa Francesca Romana è considerata compatrona di Roma, viene invocata come protettrice dalle pestilenze e per la liberazione delle anime dal Purgatorio e dal 1951 degli automobilisti. La sua festa liturgica è il 9 marzo.




ic sm inpIl 2 febbraio la Chiesa celebra la presentazione di Gesù al tempio. Tra le memorie romane questa festività liturgica si unisce al patrocinio che la città di Roma riserva a Santa Maria in Portico. Infatti, le antiche cronache, ricordano che un terribile sciame sismico sconvolse l’Urbe nel Gennaio del 1703. Questo grave pericolo vide il popolo romano supplicante davanti all’icona della Madre di Dio, invocata da secoli quale particolare protettrice della Città con il titolo di Romanae Portus Securitatis. La memoria di antichi benefici già concessi  per intercessione di Maria, come la liberazione dalla  peste nel 1656, durante la quale Roma rimase miracolosamente illesa, favorirono il nuovo ricorso alla Vergine. Già nel 1662  era  stato edificato per  volere del Popolo e del papa Alessandro VII, l’attuale santuario opera di C. Rainaldi, dove vi è conservata la preziosa icona venerata nell’antico rione di Campitelli fin dal VI secolo. Ma veniamo ai fatti di trecento anni fa. La mattina del 2 febbraio1703, il Senato Romano volle ringraziare la Vergine per lo scampato pericolo dal violentissimo terremoto che coinvolse Roma e gran parte degli stati pontifici. Si stabilì con voto solenne che la Città  avrebbe digiunato per cento anni ogni 1 febbraio  vigilia della festa della Presentazione al tempio e della Purificazione di Maria. Il voto venne immediatamente ratificato dal Papa Clemente XI che, recatosi nel santuario di Campitelli intonò il Te Deum di ringraziamento.  L’impegno fu rinnovato e confermato in modo perpetuo dal papa Pio VII nel 1802. Una lapide posta al Campidoglio ricorda tutt’ora il singolare evento. Lo stesso Senato Romano stabilì che ogni sabato per un anno intero, sarebbe intervenuto nel santuario al canto solenne delle litanie. La Comunità di Campitelli erede di queste antiche memorie, rinnova ogni anno durante la luminosa liturgia della Presentazione al Tempio il grazie al Signore, unendosi alla voce e alla devozione di tanti fedeli che hanno in questo luogo onorato la Madre di Dio.  



La prima Narratione scritta da San Giovanni Leonardi


I lineamenti storici dell’antico culto riservato alla Madre di Dio nel cuore della città di Roma, arricchiti nei secoli dal genere letterario della Legenda furono raccolte nella prima Narratione pubblicata dal Leonardi nel 1605 (Giovanni Leonardi, Narrazione della miracolosa immagine di Santa Maria in Portico, a cura del Centro Studi OMD, Emmegrafica, Velletri 2005).

La Narrazione si apre con  il preambolo storico e i personaggi protagonisti del racconto: Il pontefice Giovanni I, l’imperatore Giustino, nel tempo in cui Teodorico Re dei Goti di fede Ariana opprimeva l’Italia. Si fa subito riferimento al luogo degli eventi: Roma e alla nobile «Signora per nome Galla», figlia del princeps senatus Aurelio Memmio Simmaco, consigliere di re Teodorico, che lo fece assassinare nel 525 per infondati sospetti di tradimento. Galla, ricca, giovane e molto religiosa, dopo la morte del marito decise di esprimere la carità di Cristo con azioni concrete e quotidiane, trasformando il suo palazzo in ospizio per i poveri e i pellegrini: «Ora per molte che fossero le opere pie, in che ella con santo zelo si esercitava, fu però singolarissima nel sovvenire con le proprie facoltà ai poveri bisognosi: onde per la gran riverenza e affezione che al Signore e alla Beatissima Vergine aveva, pigliò per uso di dar pranzo ogni giorno nel suo Palazzo a dodici poveri. E perché oltre al frequentare con gran diligenza questa santa opera, attese anche a servire con purità d’anima al Signore. Custodendo senza macchia di peccato nell’anima sua quell’immagine che la divina Maestà le aveva impressa, meritò aver per mano degli Angeli l’immagine dell’istesso Signore e della Beatissima Madre sua. Sopra la credenza apparve con grande splendore nell’aria la veneranda Immagine della Beatissima Vergine con il suo diletto Figliolo nelle braccia […]». Il Coppiere, una sorta di maggiordomo, avvertì immediatamente Galla che si levò da tavola e si recò al detto luogo nel quale vide la luce, ma non scorse nessuna immagine. Il segno doveva essere interpretato dall’autorità della Chiesa. Galla si recò nel Palazzo del Laterano e supplicò il Pontefice Giovanni I  che in processione con il clero e il popolo romano, si recò presso il luogo del prodigio. Il Pontefice vi entrò pieno di stupore e vista la luce vi rimase in profonda orazione : «O Santissima Madre di Dio, degnatemi di concedermi tanta grazia, ch’io possa nelle mie mani ricevere la vostra immagine, e ciò detto i Serafini ponendola a basso, nelle sue mani riverentemente la collocarono, ed egli con molte lagrime di devozione e allegrezza ricevendola, voltatosi al Popolo l’alzò a vista di tutti» (Cf. Narrazione 19ss). Due prodigi confermarono l’apparizione quasi ha dare l’approvazione dell’evento: le campane delle Chiese di Roma suonarono a festa toccate da mani angeliche  e la Città venne immediatamente liberata dal morbo della peste: è il 17 luglio del 524. Galla edifica una Chiesa sul luogo dell’apparizione dedicandola al Salvatore e alla Santissima Madre: «la quale fino al giorno presente si chiama volgarmente Santa Maria in Portico».

Il Leonardi prosegue il racconto segnalando il legame che i pontefici romani hanno avuto con l’immagine e il luogo nel quale esse è custodita. Papa Gregorio Magno (590-604) invocò il suo patrocinio nella peste del 599. Alessandro II (1061-1073) eresse una Confraternita grazie ai tanti prodigi avvenuti, Gregorio VII (1073-1085) risollevò le sorti del fatiscente santuario, riconsacrando la chiesa e collocando l'icona mariana in un tempietto-ciborio posto sopra l'altare maggiore, ponendovi in mosaico una serie di iscrizioni che facevano riferimento alla nobile Galla, ai poveri e alla prodigiosa apparizione. Celestino III (1191-1198) fondò l’ospedale di Santa Maria in Portico. Callisto III (1455-1458) invocò la Vergine per la peste. Paolo II (1464-1471) che per devozione personale asportò di notte l’immagine la vide ritornare miracolosamente nello stesso luogo. Leone X (1513-1521) indisse una processione per scongiurare l’invasione turca. Adriano VI (1522-1523) ricorse alla Vergine per salvare Roma dalla Peste. Paolo III (1534-1539) la invocò per proteggere Roma e l’Italia dalle invasioni turche. Il Leonardi prosegue la Narrazione descrivendo «il sacro luogo ove al presente si riposa» e le tracce delle memorie antiche che «scuoprono tutto il successo dell’apparizione della S. Immagine». Il racconto si conclude con una nota liturgica che cioè il 17 luglio si celebra la festa dell’apparizione, della Dedicazione della Chiesa di Santa Maria in Portico e l’orazione per l’ostensione dell’icona. Infine il ringraziamento a Clemente VIII (1592-1605) per aver unito la Chiesa alla Congregazione del Leonardi (1601) e in appendice alcune note riguardanti la vita di Santa Galla tratte dal Libro IV dei dialoghi di San Gregorio Magno.

 
Le fonti a cui si ispirò il Leonardi

Possiamo dire che le fonti ispiratrici della Narrazione scritta dal Leonardi sono da individuare in quella documentale, archeologica e iconografica. Innanzitutto, il Leonardi, fa riferimento alla  «Historia e gli antichi manoscritti esposti in pubblico». Queste pergamene sono state da lui consultate in quanto affisse alle porte dell’antico santuario mariano. Sulla loro importanza il Leonardi annota: «Più volte sono stati pregati i nostri Padri […] di far stampare l’ ‘Historia della miracolosa immagine della Beatissima Vergine la quale nella stessa Chiesa di S. Maria in Portico onorevolmente si conserva […] se bene  doveria bastare l’antica e pubblica tradizione di quella […] e degli antichi manoscritti di detta Chiesa esposti in pubblico in essa […] (Narrazione, 17)

L’altra fonte possiamo individuarla nelle testimonianze archeologiche che portano impressi i caratteri dell’antico culto a Santa Maria in Portico celebrata con il titolo di Madre di Dio. Si tratta dell’altare consacrato dal papa Gregorio VII (1073-1085) nel quale si fa riferimento al dogma efesino: «Ad honorem D(omi)ni n(ost)ri  IHV (Iesu) XPI (Christi) | et beate Marie semper Vir|ginis genitricis ei(us) d(omi)ne n(ost)re |  […]». Infine il ciborio che custodiva l’altare e l’icona di santa Maria in Portico era fregiato dal distico:  «Hic est illa piae genitricis imago Mariae |Quae  discumbenti  Gallae  patuit metuenti». Del Ciborio, testimoniato dal Leonardi e dai primi Padri non rimane traccia, se non nelle fonti scritte. È ipotizzabile che i distici gregoriani scorressero alla base del fastigio. A lato erano poste le sigle  greche MP-ΘY e sulla sommità angolare in un sacello era custodita la veneranda icona di Santa Maria in Portico. Il titolo dogmatica Theotokos-Dei Genetrix definito durante il Concilio  di Efeso (431), divenne formula ispiratrice della eucologia liturgica e della stessa devozione popolare. Esso era nota prima dell’assise conciliare, come testimonia l’antifona Sub tuum paesidium datata al III secolo. A partire da Efeso in tutte le liturgie di oriente e d’occidente  si ebbe una vera e propria esplosione del culto mariano. Basti pensare al popolare inno Akatistos V-VI secolo e alle festività mariane. La formulazione dogmatica efesina diventò normativa per lo sviluppo della venerazione alla Madre di Dio. In primo luogo, il suo ricordo è legato al memoriale di Cristo e al mistero della sua incarnazione. In secondo luogo, il culto mariano trova spazio nei momenti centrali della liturgia quali la preghiera eucaristica e la professione di fede battesimale. Su questa linea tradizionale il luogo dove si custodisce l’icona di Santa Maria in Portico, è lo stesso spazio dove si celebra l’Eucaristia il memoriale del Signore, quasi a voler consegnare in questa immagine quanto espresso nelle anafore eucaristiche che riservano un posto privilegiato alla «Tutta santa Madre di Dio».

Infine la terza fonte che ispirò il Leonardi è senz’altro quella iconografica. Non si può certo attribuire all’icona attualmente venerata nel santuario mariano di Piazza  Campitelli la datazione del VI secolo, tuttavia la rielaborazione tardo medievale applicherebbe ad essa alcuni canoni che rimanderebbero a copie precedenti. Nel XII secolo i racconti di visioni e miracoli si  fanno sempre più frequenti e vengono raccolti, ordinati e diffusi come opere edificanti. La credenza nelle apparizioni di Maria si diffonde, nel periodo compreso fra la fine dell’antichità cristiana e l’inizio dell’Alto Medioevo, tanto nel mondo greco che in quello latino. Vedere Maria per vedere Dio «come in uno specchio» (1Cor 13,12) questa è l’immagine biblica che sta alla base delle apparizioni della Vergine. Tale credenza si propaga sotto forma di testimonianze letterarie, tanto che, fra il V e l’IX secolo, sono sempre più numerosi i racconti di visioni che circolano all’interno di una letteratura concepita per l’edificazione. Tali Legende vengono raccontate con un linguaggio accessibile a tutti, traducendo in forme semplici la concezione che gli uomini del Medioevo hanno delle corrispondenze fra il mondo celeste e quello terreno. Ora, l’iconografia di Santa Maria in Portico conferma quanto è riferito dall’antica Historia: «[...]Admiranda propterea est nobis hec Sacrosancta Imago, quam nec signavit, nec coloravit manus pictoris, nec sculptoris errantis,  sed formavit et benedixit omnipotentia Conditoris, qui sicut ad ilicem Mambre cum tribus personis, ut Abraham adoraretur apparuit; et in cammino ignis ardentis cum tribus pueris similis filio hominis quartus assistens declaravit in gloriose et sanctissime Galle palatio se orandum quando voluit, et quomodo voluit imaginem demonstravit. Digitus quoque Dei, qui in tabulis lapideis, Moyse intra nubem orante, ad recte vivendum Israelitis legem sculpsit […]» (Cf. D. Carbonaro L’antica Oratio per l’ostensione dell’immagine di Santa Maria in Portico, Edizioni Monfortane, Roma 2001, 76-77). Gli studiosi sostengono che l’immagine attualmente venerata nel santuario di Campitelli, fu conservata  nell’antica  chiesa di S. Maria in Portico fin dal secolo XII. Tuttavia,  i canoni iconografici tramandati, ci consegnano una rappresentazione molto più antica. Le lontane forme protoromaniche: colonnine in stile ionico, le teste degli Apostoli Pietro e Paolo - secondo il tipo dei vetri cimiteriali - le forme greco-siriache come l’inquadratura a rose e gli alberi ornamentali, fanno supporre due  momenti compositivi.  Nel  VI secolo, si stabilisce  la tipologia iconografica legata agli eventi della miracolosa visione di santa Galla, mentre l’icona attuale per la gamma cromatica degli smalti e la naturalezza dell’esecuzione, fu realizzata tra l’XI e il XIII secolo. La sua sacralità e il concetto di «immagine acheropita» (non dipinta da mani d’uomo) portarono a giustificare attraverso la legenda popolare la sua origine divina e la sua incorruttibilità. Il testo che il Leonardi aveva potuto consultare affisso alla porta del santuario e l’antica oratio pronunciata durante l’ostensione dell’icona attualizzavano sul  luogo dell’apparizione, il simbolo di quella luce manifestatasi secoli prima come afferma l’antica Historia:«[…] ut ibi santissima veneraretur Imago, ubi signo lucis per manus sanctorum angelorum allata, Christus sedem  elegerat […]. L’icona di Santa Maria in Portico fu considerata un vero e proprio «palladio» dell’Urbe, invocata come «protettrice e liberatrice» della Città di Roma. L’ immagine di Santa Maria in Portico fu portata diverse volte in processione dai Pontefici nella letania con altre insigni icone romane nei momenti di maggiore calamità: l’Acheropita della Scala Santa e la Salus Populi Romani. Come ebbe ad affermare il Leonardi nella Narrazione l’icona di  Santa Maria in Portico celebra «l’immagine dell’istesso Signore e della Beatissima Madre sua» ed il titolo con il quale è ricordata sul luogo dell’apparizione: Madre di Dio «MP ΘY»,  richiama il mistero dell’ Incarnazione e della divina maternità di Maria. Ella è prima testimone di Dio fatto uomo che la chiesa professa, la liturgia celebra e l’iconografia annuncia nella trama simbolica. Venerando Santa Maria in Portico la tradizione popolare romana ha sempre mantenuto questi elementi spirituali come motivanti la comprensione della sua fede e del mistero celebrato.
Mercoledì, 07 Settembre 2011 12:03

Cristo Gesù avanti agli occhi della nostra mente





sgl 15Con queste parole in una lettera del 1603 S. Giovanni Leonardi scriveva ai suoi confratelli: "Havendo davanti agli occhi della mente nostra solo l'onore, il servitio, la gloria di Christo Gesù crocifisso". Un progetto suggestivo che illumina la statura e la santità di Giovanni Leonardi.


In questa irriducibile esperienza spirituale è possibile intravedere "la forza rinnovatrice della Pasqua" che riabilita la creazione nella bellezza primordiale e ristabilisce l'uomo nella definitiva relazione con Dio. Un processo di polarizzazione verso "Cristo e questi crocifisso" (1Cor 2,2).

A tale evento è riconducibile ogni annuncio "quasi per un suo naturale e irreversibile approdo a Cristo contemplato soprattutto nel Santissimo Sacramento dell'altare" (Cf. V. Pascucci).

Il Leonardi come i santi della riforma, ebbe particolare attenzione verso l'Eucaristia. Occorre ricordare a tal proposito, che la stessa pratica della comunione frequente era valutata in campo cattolico con meraviglia e sospetto. Ma il santo memore della forza rinnovatrice che scaturisce dal memoriale cristiano per eccellenza, ordinava, esortava e guidava i suoi a nutrirsi con frequenza di così grande sacramento.

Uno spaccato del tempo ci viene offerto dal P. Giuseppe Bonafede primo biografo del Leonardi: "Il Confessore conosciuto per prova 1'ardente cuore di Giovanni, li concesse la Santissima Comunione due e tre volte la settimana, cosa in quei tempi rara, e di gran spirito, poiché quelli che spesso si comunicavano di una volta all'anno, erano da tutti derisi et ingiuriati, e bisognava che segretamente lo facessero, e non in tutte le Chiese; perché in molte gli era negato, tanto erano corrotti i tempi." (Bonafede, Libro 1 cap. VI).

Il santo stesso concedeva la comunione segretamente a due giovani che poi furono i primi compagni di fondazione: il Venerabile Giovanbattista Cioni e fratel Giorgio Arrighini invitandoli a soffermarsi sovente nella contemplazione della "passione di Cristo Signore, di cui il santissimo Sacramento è rappresentazione e memoria".

Nei "Sermoni", il Leonardi, commentando la parabola delle nozze regali (Mt 22,1), propone il significato nuziale del memoriale eucaristico: "Tu Signore invitandoci per la parola del tuo vangelo alla mensa, altro non ci indichi che, le tue nozze, in questo mondo per grazia, c'invitano al convito del tuo Santo Corpo. Tu conduci la sposa (la Chiesa) nella tua casa e nutri la sua anima nella cena eterna della tua sapienza".

Sono "tre li sposaliti" che il Cristo compie nei confronti dell'umanità: "Quello celebrato nel grembo della santa Vergine (Incarnazione); quello che si celebra nel tempo santo della Chiesa (Eucaristia); quello ancora non visibile, ma velato nello Spirito Santo, per il quale possiamo vedere Dio faccia a faccia (Parusia)" (S. Giovanni Leonardi, Sermoni, C. 468).

Con grande passione e amore per la Chiesa, testimone dei segni della grazia, il "santo speziale" di Lucca ci addita nell'eucaristia il "farmaco dell'immortalità", per il quale: "siamo confortati, nutriti, uniti, trasformati in Dio e partecipi della natura divina (2Pt 1,4)".
Venerdì, 15 Luglio 2011 08:03

Maria libro di Dio

lsm159Il contenuto del messaggio angelico è un vero e proprio «evangelo», una lieta notizia. La Parola che irrompe nel silenzio e accende la gioia, rivela la straordinaria benevolenza che Dio ha verso Maria. Le icone d’oriente e di occidente ripropongono la scena evangelica fondamentale: l’Angelo entra nella casa di Maria la quale è intenta nell’ascolto della Parola, libro aperto delle Scritture su di un leggio. Un cartiglio  tra l’Angelo e Maria  propone le parole del saluto. Si tratta di una sintesi meravigliosa fatta di parola-immagine che esprime con l’arte il dimorare visibile del Verbo. D’altro canto Maria è spesso rappresentata nella quotidianità del lavoro domestico. Intenta alla filatura, come la donna saggia descritta dalla tradizione sapienziale d’Israele (Pr 31,19). La Vergine di Nazareth,  in definitiva, è colei che tesse il nuovo dialogo con Dio e concepisce la Parola. Con un saluto Dio «entra», (non appare) nella vita di Maria e nella nostra. Un saluto carico di parole antiche (Lv 23,20; Gdc 6,12; Is 29,19; Gl 2,21; Sof 3,14; Zc 2,14; 9,9)   ma nuove, perché Dio che parla  fa nuova ogni cosa. La gioia e la presenza del Signore sono i termini del saluto ed annunziano in modo inconfondibile l’avvento del Messia. Lo sposo incontra la sua sposa è gioisce nel vederla (Is 62,5), la chiama con un nome nuovo  non classificabile fra le dinastie umane. Ella «è pura grazia», oggetto della benevolenza dell’Altissimo. Ora, la gratuità e la generosità di Dio si sono realizzate in Cristo (Lc 2,52) che Maria preannuncia e riceve. La singolare presenza di Dio: «il Signore è con te», investe Maria di una missione per la quale è segno di salvezza per il suo popolo «figlia di Sion». E non solo, per la novità inaugurata, Maria è il «segno» atteso che compie l’amore gratuito di Dio per tutti i popoli ed è primizia della umanità nuova. Le parole dell’Angelo preparano la grande rivelazione: «non temere». Non si tratta di avere paura di Dio, ma di accogliere la piccolezza e il limite di fronte alla grandezza dell’Onnipotente. La Bibbia riporta questa espressione ogni qualvolta la presenza del Signore fa’ breccia in mezzo agli uomini ( Gen 15,1;  Gdc 6,23; Is 41,13; Ger 30,10; Dn 10,12; Sof 3,16; Zc 9,9; Mt 1,20; Mc 6,50; Lc 1,13;  5,10; Gv 12,15; Ap 1,17). La grande rivelazione è il cuore dell’evangelo a Maria. Gli eventi del «concepire»,  «partorire» e  «chiamare per nome», legano insieme funzioni materne e paterne che Maria compie, perché  «ha trovato grazia presso Dio»: (Gen 6,8; Es 33,16; Pro 12,2). L’inaccessibile, l’ innominabile,  si assoggetta alle leggi della  natura umana e si lascia chiamare per nome (Gesù: «Dio salva»);  ecco perché la grandezza del nascituro e le qualifiche che riceve dall’Angelo, richiamano le relazione salvifiche e le promesse che Dio ha stabilito con il suo popolo. Quelle parole accendono la memoria di Maria che  comprende di essere scelta quale madre del Messia atteso, compimento delle antiche profezie (2 Sam 7,14). Il riferimento al trono di Davide il re-pastore, permette di chiarire il timore e la grandezza che albergano nel cuore di Maria. Altezza (Lc 1,35) e  piccolezza (Lc 1,48) s’incontrano, Dio si fa uomo e l’uomo  diventa Dio.
Venerdì, 08 Luglio 2011 08:02

Dio paziente

lsm158Il cuore dell’uomo: una zolla arida dissetata dalla Parola, irrigata dalla grazia che proviene dall’alto, coronata dall’abbondanza dei frutti. Chi è il discepolo? Colui che è capace di dare la vita. Come la zolla di terreno che si apre, accoglie e genera  in sé la vita. Ma senza il seminatore che esce a seminare, la zolla rimane zolla e il seme rimane tale e non può porta frutto. Grazie Signore, perché ancora oggi esci per seminare la tua parola, annunzio di frutti maturi e di buon pane che sfama la nostra povertà. Di chi racconta la parabola? Non è certo di un contadino inesperto, che sparge il seme per caso. Il vangelo odierno racconta di una fiducia che è posta nel piccolo seme, germoglio di vita e nella libertà del terreno preparato  per accogliere. Quante volte l’indisposizione del discepolo, ha fermato il miracolo di Dio. L’ostinazione del cuore umano non ha permesso che l’altro cresca e porti frutto. Signore, riconosciamo nella tua tenacia a voler seminare anche dove non c’è possibilità,  l’inesauribile fedeltà del tuo amore per noi. Riconosciamo  che la forza non è in noi, ma nella semente che proviene da te, dalla tua mano sicura. Il contadino è ricordato solo all’inizio della parabola, la sua iniziativa da origine al racconto, poi scompare e al centro della scena sono i quattro tipi di terreno dove cade il seme: la strada, il terreno sassoso, le spine, la terra buona. Con probabilità il racconto parabolico allude all’opera evangelizzatrice della Chiesa, la quale com’è accaduto a Gesù, non si scoraggia nel raccogliere disinteresse, rifiuto e oppressione. Al triplice infruttuoso tentativo, corrisponde il triplice sovrabbondante rendimento.  L’opera di Gesù porta frutto ieri e oggi dove il terreno è favorevole e dove orecchi, occhi e cuore sono disposti ad accogliere il dono della Parola. Che tipo di terreno siamo? La Parola ascoltata è soffocata dagli affanni e dalle contraddizioni della vita? La nostra testimonianza  si ripiega su di noi o lascia spazio alla potenza di Dio che opera in chi lo accoglie? Perché le  illusioni del mondo e l’ignoranza della Scrittura non scuotono il torpore e l’indifferenza umana? Gesù parla in parabole perché la logica del Regno è difficile da accettare. E’ una questione di fiducia e di risposta fedele a chi c’interpella. La terra, il seme, il frutto, ci fanno solidali con la creazione che geme e soffre. L’uomo e il creato gemono e attendono, per la novità che proviene da Dio. La Bibbia e la creazione sono i due libri scritti da Dio, ecco perché spesso troviamo nelle Scritture riferimenti alla natura e agli elementi naturali, vie privilegiate che accolgono l’uomo nella nuova creazione inaugurata con la resurrezione di  Gesù.
Mercoledì, 20 Aprile 2011 09:34

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