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Giovanni Leonardi. Un santo lucchese patrono dei farmacisti

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di Vittorio Pascucci OMD



1. LA FARMACOLOGIA A LUCCA


Il rescritto pontificio


In data 8 agosto 2006 la “Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti” invia al Padre Generaledell’Ordine dei Chierici Regolari della Madre di Dio un atteso rescritto ufficiale in cui si comunica che “Il Sommo Pontefice Benedetto XVI…assai volentieri acconsente e conferma SAN GIOVANNI LEONARDI, PRESBITERO, PATRONO PRESSO DIO DEI FEDELI CHE ESERCITANO L’ARTE DELLA FARMACIA”(1).

Il capoverso di apertura del documento, pur nella sua scarna redazione tipicamente canonica e quindi in estrema sintesi, lascia tuttavia percepire con buona chiarezza la effettiva ragione storico-ascetica  per la quale il Santo Padre aveva aderito al voto unanime espressogli, a suo tempo, dall’intero episcopato italiano: “I fedeli, soprattutto coloro che esercitano la professione farmaceutica, coltivano con assiduo culto ed invocano in modo particolare il sacerdote San Giovanni Leonardi il quale ebbe modo di praticare lo stesso esercizio farmacologico”.

Difatti dal primo biografo del Santo siamo informati che “giunto all’età di 17 anni, quando haveva già appresa in scola sufficiente intelligenza, dispose suo padre di trasferirlo alla città di Lucca et applicarlo al arte della spetiaria con disegno che, appresa quella arte se ne tornasse alla patria dove, exercitandola, per esser quella terra di passaggio, saria stato non piccolo il suo guadagno”(2).

 
La “via Francigena”

Grazie a questi essenziali cenni fornitici da Giuseppe Bonafede siamo indotti a risalire idealmente la parte iniziale  della pittoresca media valle del Serchio. Questo fiume, partendo dall’alta Garfagnana, scorre tra i contrafforti delle Alpi Apuane e le propaggini dell’Appenninotosco-emiliano, lambisce la città di Lucca e poi si getta nel Tirreno a nord di Pisa. Là dove le sue acque acquisivano la confluenza del torrente Freddana immetteva verso quella che era la cosiddetta “via Francigena” (letteralmente: via generata dalla Francia)sottesa, in modo implicito, nel manoscritto. Si tratta di quella “importantissima direttrice, forse la più importante dell’epoca che, dal Nord Europa, attraversando le Alpi in Valle d’Aosta, valicando l’Appennino, percorrendo Toscana e Lazio, giungeva a Roma”(3). D’altra parte sappiamo come perfino Livio (21,59), descrivendo l’arretramento del console Sempronio Longo in direzione sud verso Lucca, di fronte all’avanzata di Annibale, faccia preciso riferimento alla “esistenza di un passaggio rapido attraverso la Garfagnana”(4). Naturalmente, anche se può apparire perfino retorico doverlo far presente, alla luce di quanto è stato appena ricordato conviene puntualizzare un incontestabile e oggettivo dato di fatto che ne derivò di riflesso. “I traffici che si svolgevano per la Francigena svolsero una funzione di stimolo per l’economia e furono alla base della ricchezza della città medievale tutt’oggi testimoniata dalle nobilissime chiese romaniche lucchesi”(5).

Dopo gli attuali 15 chilometri -corrispondenti più o meno alla zona dove era ubicata la pietra predisposta a segnare il decimo miglio romano- giungiamo nei pressi di una delle più armoniche torri che svetta al centro di uno storico borgo non casualmente chiamato Diecimo. Quella precisa denominazione -così come tanta parte della toponomastica circostante, si pensi a Sesto di Moriano oppure a Valdottavo- evoca, ancora oggi e con giustificato orgoglio,remote memorie mai totalmente sopite.

A poche diecine di metri dalla splendida pieve romanica, una delle tante fatte erigere dall’immancabile contessa Matilde, è presente tuttora -anche se trasformata in centro di cultura e di spiritualità- l’antica dimora della patriarcale famiglia di agiati proprietari terrieri nella quale l’ultimo arrivato, il settimo per l’esattezza, ossia il nostro Giovanni, dimostrava doti veramente eccezionali; per cui i genitori, a buon diritto e con un preciso disegno proiettato nel tempo, pensano di indirizzarlo verso un futuro di affermato professionista.

Appena adolescente, lo mandano presso un sacerdote di Villa Basilica(6) ad apprendere i primi elementi di grammatica latina in vista, oggi diremmo, di una scuola superiore.

Difatti qualche anno dopo, come riferisce il biografo, “per ubidire a suo padre…s’inviò verso la città di Lucca per attendere alla spetiaria”.

Lo stesso cronista però si fa subito scrupolo di postillare una annotazione in virtù della quale ci lascia già intuire vaste dimensioni ed orizzonti che, sul momento, sarebbero state chiaramente imprevedibili: “Ma per altra spetiaria l’ordinava Dio nella quale doveva imparare a componere medicamenti per l’anime, più perfetti”. Tanto è vero che poi, puntualmente, non può fare a meno di registrare con fedeltà: “Si accomodò Giovanni nella bottega di un huomo da bene e timorato di Dio, chiamato Antonio Parigi, dove s’obligò il padre, per contratto, a servire per lo spatio di 7 anni”(7).

Ad ogni modo, è tutt’altro che banale la precedente chiosa del Bonafede. Essa, difatti, consente di anticipare -attraverso l’enunciato parallelismo farmacologico: “per altra spetiaria l’ordinava Dio”-  una sorta di continuativa sensibilità psicosomatica che avrà modo di rivelarsi veramente ad altissimo livello.
Nel Leonardi questo non interrotto legame viene a tradursi con originalissime forme di comunicazione che sorprendono persino nell’ambito di uno specifico e pertinente ordine lessicale a conferma, appunto, di un convinto filo conduttore assolutamente privo di cesure.

In forza di una simile convinzione interiore la eventuale patologia del corpo -al di là del suo oggettivo spessore e quindi della conseguente, inevitabile sofferenza fisica- finisce per rivestire i panni e i toni drammaticamente plastici di ben altra “malattia”. Per questa infermità è più che mai incalzante l’urgenza di approntare terapie, intanto per l’immediato; salvo poi disegnare, con sano responsabile discernimento, opportune prevenzioni e, per il futuro, soprattutto adeguati progetti di crescita umana che siano consoni alla indilazionabile messa in gioco di un costume che era sull’orlo del disfacimento.

 
Una tradizione farmacologica

Le prime normative inerenti ai professionisti della farmacopea vengono attestate già nel lontano 1308 e compaiono all’interno di uno specifico “Statuto di Lucca”(8).

“Gli speziali (spetiales et aromatarii), che in antico vendevano e fabbricavano, assieme con le droghe e le composizioni medicinali, anche le spezierie da cucina, le tinte, le cere, le resine e le peci, la carta e l’inchiostro, erano sotto la doppia dipendenza delle Corti del Fondaco e de’ Mercanti…Ma nel corso del tempo si ebbe a sperimentare come fosse necessaria una più diretta vigilanza sull’esercizio di quest’arte così interessante per la salute pubblica. A questo effetto il Consiglio Generaleincaricava un certo numero di cittadini di compilare…una minuta di legge la quale fu poi presentata e approvata l’11 maggio 1563. Venne in questa stabilito che si eleggesse ogni anno un apposito magistrato…“Provveditori delle Spetiarie”  i quali dovessero in tutto sopravvedere al buon andamento di quella professione mediante una continua vigilanza tanto sulle medicine, loro qualità e fattura, quanto sull’abilità e condotta degli speziali che da loro dovevano essere esaminati ed approvati. Col progresso del tempo andò quasi in disuso quel nome di “Provveditori” e invalse quello di “Offizio sopra gli Speziali”(9).

Occorre riconsiderare nella giusta misura la serie di notizie appena riferite tutte induttive al concetto di un’allargata distribuzione commerciale perché la constatazione  che la stessa fosse, allora, quasi naturalmente collegabile all’ambiente di un’antica spezieria, consente di apprezzare meglio quella intelligente annotazione geografica marcata dal biografo. Difatti l’autore, allorché spiega i progetti di papà Leonardi per il proprio figliolo, li vede legittimamente improntati ad una prospettiva di auspicabile ed opportuno ritorno economico appunto perché, essendo Diecimo terra di facile transito, “saria stato non piccolo il suo guadagno”. Dunque quando, poco dopo la metà del secolo, furono emanate quelle puntuali disposizioni di cui si è fatto cenno, il nostro era un giovane ventiduenne che, ormai da quattro o cinque anni, frequentava la spezieria di Antonio Parigi la cui presenza viene attestata da un elenco ufficiale conservato nell’Archivio di Stato di Lucca, come ho riportato nella nota 7.

Gli “Ordini sopra li spetiali della città e stato della serenissima Repubblica di Lucca”, stabiliti nel 1563, confermati nel 1589 e successivamente nel 1731 per poi essere editi presso Ciuffetti nel 1732, definiscono -con ulteriore assoluta chiarezza e rigore- delle norme peraltro sostanzialmente già operative in virtù di una secolare tradizione di responsabile serietà nei confronti del malato che rimontava, secondo quanto ho avuto modo di rammentare, fin dal remoto 1308.

Questo, dunque, sta a significare che Giovanni Leonardi trascorre gli anni migliori della sua formazione umana e culturale in un preciso centro farmacologico che non esauriva la sua funzione professionale quale semplice punto-vendita di medicine, come invece sono, abitualmente, le moderne farmacie. A quei tempi una simile  frequentazione significava, soprattutto, trovarsi all’interno di un contesto di studio, di ricerca e di elaborazione dei prodotti per la salute che era regolamentato da tassative disposizioni le quali -lo vedremo subito- non lasciavano il minimo scampo né a improvvisazioni, né a pericolosi dilettantismi.

 
Gli “Ordini sopra li spetiali”

Le notizie che seguiranno le rilevo da uno specifico saggio critico(10).

Fu creata una apposita struttura di sorveglianza che “doveva riunirsi nel Palazzo degli Anziani una volta la settimana per vigilare sull’osservanza degli Ordini”. Era prevista una vera e propria forma di ispezione per la quale, almeno ogni 15 giorni, dovevano visitare una spezieria della città da estrarsi a sorte. “Nessuna composizione di medicamenti…poteva essere fatta se non in presenza di un deputato dell’Ufficio dei Provveditori [l’organismo pubblico citato poco fa]il quale doveva altresì accertarsi della bontà dei componenti ed assistere alla incorporazione dei medesimi”.

Il titolare della spezieria era obbligato a tenere un apposito libro in cui “dovevano iscriversi il nome dei composti, dei componenti, la qualità, l’anno, il mese ed il giorno della preparazione” in modo da poterlo esibire sempre nel corso dei dovuti controlli.

Originale era poi la figura dello “Spetiale eletto” ossia di colui che accompagnava i deputati alla visita delle spezierie l’unico, cioè, che davvero potesse rendersi conto, con esatta cognizione di causa, delle eventuali infrazioni commesse nelle composizioni dei medicinali o della loro bontà. Difatti era tenuto ad esaminare il registro delle preparazioni insieme ad uno dei medici provveditori. Era così chiamato perché veniva eletto e durava solo lo spazio di un anno.

Negli ordinamenti si ritrova persino un riferimento per alcune sedi decentrate: “Gli speziali delle città di Bagni di Lucca, Borgo, Camaiore, Villa non potevano dispensare medicinali senza la presenza di un medico”. Particolare premura e attenzione veniva poi riservata verso i possibili rischi di una eventuale reciproca corruzione tra i vari professionisti. Per cui, ad esempio, era “vietato et prohibito ai medici et ai cerusici di fare in qualsivoglia modo, immediatamente o mediatamente, società con gli speziali”. La multa prevista in casi del genere risultava pesantissima: “cento scudi d’oro da applicarsi a ciascun contravventore”.

Tra gli altri oneri degli speziali c’era anche quello di comporre e dispensare soltanto “secondo un ricettario approvato dal Collegio dei medici di Lucca”. Al riguardo anzi veniva precisato puntigliosamente: “E non secondo altri autori, pena la multa di scudi 10”.

Per quanto avrebbe potuto interessare più direttamente il Santo, in vista di un suo futuro professionale, è utile ricordare ancora alcuni precisi adempimenti da ottemperare al fine di iniziare una propria autonoma attività farmacologica a Diecimo, secondo i progetti di suo padre.

“A nessuno era lecito aprire una spezieria se non dopo aver ampiamente documentato ai Provveditori di aver esercitato l’arte per almeno otto anni”. Come difatti si accingeva a fare il nostro nel 1568, salvo poi la vitale inversione di rotta di tutta un’esistenza e della quale dirò subito.

“Il candidato doveva mostrare di possedere cognizioni di lingua latina e delle altre cose necessarie a sapersi per il buon andamento dell’esercizio”. Le eventuali trasgressioni erano punite con una ammenda che poteva variare dai 50 ai 100 scudi,  “ad arbitrio dei Provveditori”, stando alla puntuale precisazione.
“I conti degli speziali dovevano essere rivisti dallo speziale dell’Ufficio dei Provveditori… e dovevano far fede di fronte a qualsiasi magistrato o giudice…affinché gli speziali non tenessero conti lungamente sospesi e soprattutto potessero avere li loro denari per potere servirsi di quelli in comprare robbe buone a contanti, et non a tempo in cattive”.

“Il Consiglio degli Anziani poteva ordinare la chiusura della spezieria dentro un mese dal giorno della denunzia” qualora le stesse fossero risultate in scadente tenuta, sfornite di medicamenti o con i medesimi, eventualmente, alterati.

Credo sia del tutto superfluo spendere parole di commento  di fronte ad un simile accurato assetto normativo che, nella sua ben ripartita precisazione giuridica, ci consente di apprezzare le dimensioni di un costume sanitario perfettamente organizzato secondo criteri di mirata efficienza e professionalità.
Come è logico, nessuno è così ingenuo da ritenere che tutto ciò possa essere stato solo il frutto di una qualche ipotetica ed irreale germinazione spontanea. Al contrario, il quadro disegnato denota la più che naturale, ovvia risultanza di tutta una serie di chiare componenti ben diversificate tra loro le quali meriterebbero un approfondimento assai maggiore rispetto a quanto, purtroppo, non sia consentito ai limiti imposti per la stesura del presente elaborato.

La matrice di partenza è certamente da rinvenire in specifiche situazioni tra le quali si configurava, quale primaria, la “provocazione” religiosa qui già parzialmente emersa allorché accennavo alle vicende della “via Francigena”. Le esigenze della stessa erano necessariamente collegate alle difficoltà o -a seconda dei casi- alle agevolazioni derivanti dalla particolare orografia del territorio; ma non solo. Per un elementare sano realismo espositivo va dunque riconosciuto che -di riflesso a quanto appena detto- ne discendevano  varie necessità, fin troppo prevedibili, di assistenza farmacologico-medica cui infine venivano a saldarsi -come sempre succede-  anche connessi ritorni economici di molteplice e differenziata natura.

Perciò occorre riprendere, sia pure per un attimo, il precedente discorso dei “romei”, ossia dei tanti pellegrini diretti verso le tombe degli Apostoli.

Dopo aver osservato che dalla località posta alla confluenza del torrente Aulella con la Magra si dipartiva una raggiera di percorsi verso i passi appenninici della Lunigiana orientale e della Garfagnana, rimane abbastanza facile prendere atto di conseguenza che, fin dal “1260, entro la cerchia urbana [di Lucca] è accertata la presenza di tredici spedali… Almeno al 1076 risaliva lo spedale presso la cattedrale di San Martino; …al 1079 quello annesso alla chiesa di Santa Maria Foris Portam; al 1099 quello di San Frediano e via dicendo”(11).

 

NOTE

1) AA.VV., San Giovanni Leonardi, Patrono dei Farmacisti, a cura della UCFI, 2006, p.3.
2) Giuseppe Bonafede, Vita del P.Gio[vanni] Leon[ar]di, Manoscritto conservato in ASMCO, I, 15, carta 37. Cesare Franciotti, Cronache della Congregazione dei Chierici della Madre di Dio, a cura di Vittorio Pascucci, Ed. S.Marco-Lucca, Lucca 2008, p.201, fornisce anche l’anno: “Fu esso (mentre era ancor giovane d’anni 17 incirca) dal padre mandato a Lucca l’anno 1561”. Questo lascerebbe pensare al 1543-1544 quale data di nascita del Santo. Ma sappiamo come il Franciotti sia piuttosto elastico circa simili dettagli. Si pensi alle perplessità espresse persino quando riferisce i dati cronologici relativi alla morte di suo fratello, il padre Giulio: Op.cit., p. 219.
3) AA.VV., La via Francigena nel GAL degli Etruschi- Guida breve del territorio, Viterbo 2008, p. 7.
4) Augusto Mancini, Storia di Lucca, Maria Pacini Fazzi Editore, Lucca 1981, p. 1.
5) Renato Stopani, Guida ai  percorsi della via Francigena in Toscana, Ed. Le Lettere, Firenze, IV Ristampa, 2003, pp. 100-101.
6) I dati relativi a questo sacerdote sono rilevabili nella Archivio parrocchiale: “Martilogio et campia delle terre et beni della pieve di S. M. Assunta – Nota dei Signori pievani di Villa Basilica – N.7: Giuliano Carli dal 1543 al 1575”.

  1. Giuseppe Bonafede, Vita del P.Gio[vanni] cit., cc. 37-38. Antonio Parigi risulta in un elenco ufficiale stilato dall’ Offizio sopra gli Speziali, n. 1 (1563-1673), Archivio di Stato di Lucca, Deliberazioni, Prima parte, A d’ primo Gennaro 1564, Nota di quelli che al presente essercitano l’Arte dello Spetiale in la Città, carta 11 r.
  2. R.Ciasca, Memorie e documenti per servire alla istoria della città e stato di Lucca, Lucca, Bertini, 1814.
  3. Salvatore Bongi, Inventario Archivio di Stato in Lucca, Strumenti per la ricerca, Vol. V, Parte Prima, Istituto Storico Lucchese, Lucca, 1999, Copia anastatica, pp. 219-220.
  4. Antonio Esposito Vitolo, Gli “Ordini sopra gli speziali” della città di Lucca del 1589 e del 1732, Pisa, Arti Grafiche Pacini Mariotti, 1947.
  5. Renato Stopani, Guida ai  percorsi cit., p.100.
 

2.  IL FARMACO COME ALLEGORIA

Due osservazioni

A questo punto diviene assolutamente doverosa una qualche piccola considerazione.
Intanto, a livello strettamente lessicale, credo sia rilevante constatare come la radice etimologica di quei centri appena ricordati evochi -quale prevalente messaggio della sua dizione- piuttosto il concetto della spezieria, vale a dire dei medicamenti apprestati ai pellegrini bisognosi,rispetto -invece- al nostro comune ospedale, di certo posteriore e che richiama preferibilmente l’idea di ospitalità.

Il secondo dato inequivocabile è fornito dal loro costante abbinamento a ben definiti luoghi di culto.
Questo significa non solo quella che, secondo la nostra attuale comunicazione, verrebbe definita una libera e spontanea supplenza nei confronti di evidenti carenze civili, ma soprattutto induce anche a presupporre precisi punti di riferimento non solo motivazionali, ma persino organizzativi.

Studiando antiche mappe e riflettendo su certa originale toponimastica del centro cittadino(12) possiamo farci un’idea sulla fitta rete di accoglienza che, dalle accennate lontane origini altomedievali, era andata man mano moltiplicandosi. Infatti a Lucca -proprio perché rilevante snodo per imponenti flussi di persone- trovavano rifugio, oltre a coloro che avevano contratto qualche malattia (i più gravi venivano ricoverati nei lazzaretti fuori della cinta muraria), anche dei protagonisti di altro genere di sofferenza. Ad esempio nei pressi dell’attuale Porta S.Donato era sorto l’ospedale “San Luca” che accoglieva specialmente gli orfanelli. Sul lato destro della chiesa di S.Francesco scorre “via della Quarquonia” ossiaun titolo, come si vede, perlomeno strano; eppure il singolare toponimo determinato in realtà da un doppio interrogativo latino: “quare-quoniam?” si incarica di far memoria che in quella zona, riprendendo l’esperienza di un sacerdote fiorentino, Filippo Franci, sorgeva una casa predisposta per ragazzi affetti da “particolari” problemi. Vicino piazza Bernardini un altro ospedale era stato eretto dai “Cavalieri del Tau” di Altopascio. E infine, proprio accanto alla spezieria di Antonio Parigi, oltre a “vicolo degli Orfanelli” tuttora presente, sorgeva l’ospedale degli “Incurabili” cioèquelli che noi siamo soliti qualificare come malati terminali.

Dunque, per concludere, singolari forme di espressione religiosa, come i pellegrinaggi, richiedono la premurosa accoglienza di alcune persone in difficoltà dentro apposite strutture, ossia gli ospedali. Da queste prime istanze ne discendono, quale corretta conseguenza, prima di tutto il doveroso innalzamento del livello di professionalità in funzione di una migliore garanzia per la salute dei pazienti e poi anche l’attenta cura che fossero evitati disdicevoli tentativi di vergognose speculazioni, purtroppo sempre in agguato.


Giovanni Leonardi, speziale

Si assiste, cioè, ad un interessante reticolato certamente assai composito nelle sue espressioni, ma in cui è innegabile però la presenza di un ben definito tessuto connettivo di natura etico-normativa. Tuttavia appare altrettanto evidente come lo stesso sia basato essenzialmente su di una determinante sensibilità che oggi chiameremmo esclusivamente di “volontariato”.

Sorgono così delle associazioni laicali che abbinano l’impegno per un rinnovato percorso di fede con il concreto attestato di una generosa accoglienza.

In questo senso particolarmente attivo è l’ambiente senese dove opera la confraternita dei “Sacri chiodi di Gesù” o più semplicemente del “Chiodo” e dove, in precedenza, Giovanni Colombini (1304-1367) aveva dato vita ai “Gesuati” la cui denominazione fu poi facilitata, grazie al cognome del fondatore, in “Colombini”(13). Questi ultimi ebbero modo diffondersi in modo particolare a Lucca, presso la chiesa di S.Girolamo oggi trasformata in auditorium adiacente al Teatro del Giglio. Il Franciotti nella sua opera ci documenta questa abituale prassi di generosa ospitalità parlando di uno di costoro, Giovanni del Fornaino, del quale scrive: “Viveva dell’arte sua e di alcuni beni lasciatili da suo padre, dilettandosi di farne parte alli poveri religiosi et a’ pellegrini che soleva albergare in casa sua”(14).

Proprio in quel gruppo di laici, spiritualmente guidati dai domenicani della chiesa di S.Romano, ritroviamo il giovane Leonardi da qualche tempo, come sappiano, apprendista presso la spezieria del Parigi. Anzi, secondo quanto già attuato da altri, che ormai formavano una sorta di cenacolo sui generis, dopo un po’ anche lui si recò “ad habitare nella stanza di Giovanni del Fornaino, con l’emolumento che conveniva…benché l’essercitio della spetiaria andasse seguitando nella bottega sopradetta”(15).
Intanto, però, occorre fare una sia pur minima sintesi di elementare memoria storica e registrare come ormai nella Chiesa fosse in atto,  provvidenzialmente, un rinnovato e carismatico dinamismo dello Spirito.

Con la ingente fioritura di nuove Congregazioni religiose comparvero soprattutto protagonisti come Carlo Borromeo, Filippo Neri, Ignazio di Loyola, Giuseppe Calasanzio, Camillo de Lellis, Luigi Gonzaga, solo per nominarne alcuni e, appunto tra loro, Giovanni Leonardi. Vale a dire cioè che -al di là delle pur necessarie puntualizzazioni dottrinali- furono queste anime a rendere leggibili nel concreto, ossia con la loro personale e quotidiana attestazione, gli effettivi tratteggi che lasciavano riconoscere la radicale autenticità di una riforma che fosse realmente atta a coinvolgere in pieno l’esperienza di ogni battezzato.
Quindi anche tutte le iniziative locali sopra descritte vanno colte alla stregua di realistiche espressioni di un contesto di assai più vasto respiro.

Dopo la grave lacerazione prodotta dal dissenso dogmatico dei fratelli separati, l’intera compagine ecclesiale era tutta protesa alla riscoperta della propria genuinità evangelica. Essa avrebbe trovato il suo apice magisteriale nella assise tridentina, decisamente determinante per tutta una serie di successive conseguenze, e che concluse i suoi lavori nel 1563. A questo proposito e sia pure a titolo di curioso quanto occasionale sincronismo, conviene tenere bene a mente questa data. Per carità, sia ben chiaro, non si tratta di altro se non di una fortuita e simpatica  coincidenza. Ma si dà il caso che stia a designare lo stesso anno in cui venivano approvati gli “Ordini sopra li spetiali della città e stato della serenissima Repubblica di Lucca”.

Se poi a tutta questa serie di considerazioni aggiungiamo, come in parte è stato già ricordato in precedenza, che “in quei tempi, le farmacie erano le classiche aule dell’opinione pubblica non meno che il deposito delle erbe medicinali e delle droghe che venivano da lontane terre, si può pensare che il Concilio di Trento, che conclude la sua ultima fase in quel periodo di anni, con le sue implicazioni politiche abbia dominato le chiacchiere di farmacia che il nostro Leonardi doveva pazientemente ascoltare, mentre preparava infusi o sciroppi e manovrava alambicchi o mortai”(16).

 
Da farmacista a sacerdote

“Guai a me se non predicassi il vangelo !”(1 Cor 9,16)aveva proclamato Paolo di Tarso a se stesso con forza,   quasi spiritualmente gridando ai quattro venti l’ansia di una cocente apprensione apostolica che lo divorava di vivissima sollecitudine comunicativa per la salvezza dell’uomo.

Ebbene, da sempre il nostro Santo aveva avvertito con scrupolo l’identica esigenza di riversare, verso chi si sarebbe reso disponibile a percorrere il suo stesso itinerario di fede, tutta la ricchezza di grazia che certamente avvertiva presente nel suo intimo. Di essa, sentiva la premura di doverne riconsegnare la intera somma, non certo quale suo esclusivo personale patrimonio, ma unicamente come preziosa eredità che gli era stata affidata dal Padre dei lumi a vantaggio dei fratelli in cammino.

Egli avrebbe vissuto perciò la propria esperienza di consacrato, alla quale approdò dopo aver lasciato la bottega dello speziale nel 1568, essenzialmente come severo impegno di personale mediazione in vista del profetico annuncio da proporre alla condivisione di quanti, nella vana ricerca di assoluti punti di riferimento, continuavano invece ancora a brancolare nella più dubbiosa e tormentata inquietudine.

Pur nella piena e fedele coerenza con gli obblighi provenienti dalle differenziate stagioni del personale percorso di vita, il Santo prestò in ogni momento vigile attenzione alle direttrici di un singolare, enigmatico tracciato. Tra gli inconsci risvolti del proprio interno e fin dai lontani tempi della sua adolescenza, gli si era parato davanti un esistenziale progetto che però -allo stato attuale delle cose- ormai si faceva ogni giorno maggiormente assillante e, soprattutto, con modalità sempre più ricorrenti. Quegli sparsi segmenti, riannodandosi progressivamente tra loro, man mano configurarono -nella devota specularità del suo animo- le grandezze di un disegno forse inizialmente a malapena intuito, ma che intanto gli si era andato dipanando con progressiva chiarezza grazie al suo umile atteggiarsi di premuroso discernimento al cospetto delle impalpabili, ma ferme sollecitazioni dello Spirito.

E’ assai probabile che le più recenti esperienze -al di là, beninteso, della misteriosa e provvidenziale “chiamata” di Dio- abbiano come catalizzato, nell’animo del Leonardi, un processo già in atto da tempo. Si è così definitivamente convinto a passare dalla farmacopea studiata a vantaggio dei corpi verso la direzione di un più intimo investigare in se stesso. Erano ormai maturi i tempi per chiedersi se, per caso, il Signore non volesse fare di lui piuttosto un attento e premuroso terapeuta delle anime.

Inutile dire che, a quel punto, per il nostro protagonista non ci fu più spazio per il minimo dubbio.
Difatti il cronista annota: “E fattosi sacerdote, celebrò nella chiesa di S.Giuseppe, appresso il Monastero delle Moniche Gesuate, il giorno dell’Epifania, la sua prima messa l’anno 1571”(17).

Esula dai limiti imposti al presente saggio, seguirlo nelle molteplici attività nelle quali sarà poi intensamente impegnato in virtù della sopravvenuta ordinazione presbiterale.

Dirò solo che, nell’immediato, lo ritroviamo assiduo e appassionato promotore della catechesi, cioè una tra le primarie forme di pastoralità che a Lucca, fino ad allora, era del tutto inesistente e poi quale fondatore, nella stessa città, di una nuova famiglia religiosa, ossia i Chierici Regolari della Madre di Dio (OMD). Successivamente Clemente VIII lo invia, quale Visitatore Apostolico, a realizzare la riforma di antichi ordini monastici. Chiuderà, infine, la sua giornata terrena gettando le basi di un innovativo movimento missionario con le premesse ascetico-dottrinali in funzione del Collegio di Propaganda Fide.
Tutto quanto ho qui appena accennato in estrema sintesi, mi sono premurato a suo tempo di esporre in una quindicina di volumi e articoli pubblicati in varie riviste storiche nei quali vengono riferiti i risultati di accurate ricerche di archivio condotte su materiale di prima mano, cioè assolutamente inedito, ora finalmente messo a disposizione degli studiosi dopo oltre quattro secoli di silenzio.

Invece in questa sede mi preme soprattutto mettere bene in evidenza che in effetti, anche dopo l’ordinazione sacerdotale, per padre Giovanni non ci fu affatto soluzione di continuità con il suo passato visto che, come vedremo, la pratica acquisita presso il bancone del laboratorio non venne minimamente cancellata. Ad esempio, non è per nulla casuale che la sua prima celebrazione eucaristica sia avvenuta nella cappella delle “Gesuate”, ossia presso quello che era il ramo femminile dei “Colombini”. Sembra quasi abbia voluto sottolineare il senso di una non interruzione con l’esperienza, a suo modo ascetica, vissuta all’interno di una realtà in qualche maniera comunque collegata al variegato mondo della spezieria.

Anzi quella stessa professionalità che per lui aveva sempre significato sintesi di lavoro e contemplazione, lungi dall’essere obliterata, diventa adesso prezioso costume comunicativo espresso attraverso moduli contrassegnati  da essenzialità e chiarezza fruitiva messa a vantaggio dei multiformi e più vasti campi nei quali, d’ora in poi, lo avrebbero sollecitato le differenziate esigenze apostoliche.
Difatti preciso subito che, proprio allo scopo di comprovare questo non interrotto legame perlomeno lessicale, mi limiterò a fornire col bilancino del farmacista -spero sia consentito l’ameno riferimento- solo qualche modestissima “pozione” antologica desunta dai suoi scritti più intimi, vale a dire dalle scalette espositive dei Sermoni e dalle carte del personale Epistolario.  

 

NOTE

12) Cfr. Gilberto Bedini – Giovanni Fanelli, Lucca iconografia della città,Centro Studi sull’Arte, S.Marco-Lucca, 1988, vol. II.
13) Per la prima vedi: F.D. Nardi, Matteo Guerra e la Congregazione dei Sacri Chiodi(secc.XVI-XVII) - Aspetti della religiosità senese nell’età della Controriforma, in Bullettino senese di storia patria, XCI, (1984), pp. 12-148; cfr. anche Vittorio Pascucci, Testimoni profetici della riforma cattolica, Ed. S.Marco-Lucca, Lucca, 2007. Per i secondi vedi:  Isabella Gagliardi, “Li trofei della Croce” L’esperienza gesuata e la società lucchese tra Medioevo e Età Moderna,Firenze, 2007; cfr. Anche: S.Giovanni Leonardi, Sermoni, a cura di Vittorio Pascucci,, Ed. S.Marco-Lucca, Lucca, 2003, p. 30.   
14) Cesare Franciotti, Cronache cit., p. 200.
15) Ivi, p. 202.
16) Luigi Gedda, S. Giovanni Leonardi - Dal Concilio di Trento al Vaticano II, Tipografia Poliglotta Vaticana, Roma,1963, pp. 7-8.
17) Cesare Franciotti, Cronache cit., p. 204.

 



“Con Lui misurate le cose”

Sappiamo tutti come il linguaggio costituisca incontestabile e fedele specchio di un costume e di un modo di essere che spesso emerge con tratteggi addirittura inconsci. Ma, proprio per questo singolare connotato, gli stessi sono capaci di mettere in luce persino quanto il soggetto potrebbe essere tentato di mimetizzare nel ristretto e personalissimo ambito del suo animo. Ne deriva che una dettagliata analisi strutturale della comunicazione molte volte può divenire, per davvero, prezioso strumento decodificativo e, in assoluto, speculare riflesso di verità.

A conferma dell’assunto or ora accennato, dirò che il titolo preposto al presente paragrafo l’ho desunto direttamente da una delle sue lettere, quella del 16 maggio 1592, nella quale lo scrivente invita i propri seguaci ad una maggiore fiducia in un difficile momento della nascente Congregazione. Il messaggio è certamente paterno nell’essenza del contenuto, ma anche altrettanto forte e perentorio nelle prospettive.

Ebbene, si noti come l’esortativo ubicato nella parte terminale del periodo (del quale riporto solo un minuscolo frammento) evochi con chiarezza interessanti e suggestivi riflessi linguistici. Compare una voce verbale tecnicamente assai familiare per chi un tempo, sul bancone dello speziale, aveva dovuto dosare attentamente le varie componenti dei farmaci che andava approntando. Difatti nel documento in oggetto il Santo, non si limita a presentare il solo “Medico” in grado di guidare l’uomo dalla schiavitù della colpa alla liberazione dello spirito, ma -soprattutto- lo addita come unico termine di confronto anzi, per l’esattezza, come esclusiva nostra “misura” al fine di valutare la totalità del divenire con le sue luci e le sue inevitabili ombre: “Un poco più levate li vostri cuori a Dio e con Lui misurate le cose”(18).

Il 4 agosto 1575 chiede al vescovo di Lucca l’autorizzazione di poter mendicare pubblicamente in città.

Egli tiene a motivarne la ragione accennando ai perseguibili risvolti formativi che possono derivare da quel mortificante ed umile esercizio, ossia quale premessa in vista di una auspicabile crescita ascetica dei suoi giovani consacrati. Nello specifico, però, vale la pena sottolineare come il tutto venga disinvoltamente espresso attraverso modalità descrittive che sarebbero appartenute piuttosto ad una normalissima bilancia: “Siando che, per una oncia di spirito che havessino in prima, hora ne hanno mezza libra”.

Cioè quello che, nelle forme comunicative del Leonardi, affascina e stupisce in maniera particolare è il costante, aderente rapportarsi a ciò che è fisicamente tangibile, proprio nel vero senso schietto e letterale del termine. Da questo punto di vista, superfluo aggiungere che una simile originale modalità colpisce tanto maggiormente quanto più trascendenti e spirituali sono le tematiche da lui trattate.
Una particolare, emblematica riprova la si coglie dalla oggettiva ed essenziale nitidezza -tipica evocazione linguistica, appunto, dell’antico farmacista-  che riaffiora nella drammatica missiva datata 8 agosto 1598.

Nulla può maggiormente ferire il cuore di un padre quanto l’abbandono di un figlio.
In questa carta il Santo Fondatore, commentando la morte prematura di un religioso che si era sottratto agli obblighi dell’obbedienza, espone le proprie considerazioni addirittura istintivamente somatizzandole, come per una necessità oserei dire ineluttabile, cioè quasi in modo plastico e visivo: “O miseria, cecità degli huomini che, tirati dal filo della vanità, così facilmente si rompono e fiaccano il collo”.

Inoltre, si ricorderà come in precedenza io abbia accennato alla buona base culturale che la Repubblica di Lucca esigeva dagli apprendisti speziali. In questo senso, la carta citata ne attesta preziosa e adeguata testimonianza. Ma sulla stessa, a scanso di equivoci, è doverosa una piccola premessa.

Non mi pare proprio che nella pagina in esame potessero esserci i minimi presupposti per una ipotetica “esibizione” che sarebbe stata davvero completamente fuori luogo. Però -chiarito allora tutto questo- si osservi come padre Giovanni vada ad usufruire di ogni apporto che abbia comunque delle capacità persuasive, persino quelle ricavabili dalla stessa cultura pagana. Infatti, pur di focalizzare l’attenta meditazione dei destinatari, non esita a citare i “Rimedia amoris” di Ovidio (5,21): “Vedete che chi <>, che poi <>.” Oppure, tramite il solo sostegno della memoria viste le leggere varianti presenti nel testo, e con la massima disinvoltura, abbina al patrimonio classico una pericope biblica (Sir 19,1): “Vedete quanto sia vero che <>, cui poi aggiunge un’altra desunta da S.Bernardo: “Vedete che <>.”

Infine è assai significativo -come implicito, ma assai pertinente messaggio lessicale-contenutistico- il fatto che nella stessa pagina un sacerdote, un futuro santo, trattando di penose fragilità spirituali, non pronunci mai il termine che di per sé, a livello teologico, sarebbe stato maggiormente consono, vale a dire:“peccato”. Viceversa egli adopera sempre un modulo gergale più attinente all’ambito di pregresse frequentazioni avute con terapie e farmaci di varia natura, che non strettamente relativo ad un itinerario ascetico e spirituale: “Hor vedete che la radice di tutto questo male, altro non è stato che il proprio parere…Ognuno apra gli occhi et entri davvero in se stesso…e pensi in se medicare quel male che altri a morte ha tirato”.

Un ultimo esempio lessicale di lontane reminiscenze, riconducibili comunque alla pratica esercitata con problemi connessi direttamente alla fisiologia, lo ricavo dalla lettera del luglio 1601.

In essa padre Giovanni, nella sua catechesi epistolare, non esita ad evocare una audace e vistosa allegoria,“denudarsi”, per indicare il totalizzante sforzo di continua purificazione che l’anima deve portare avanti, in assoluto, per liberarsi completamente dalle scorie di un meschino e assai riduttivo egoismo peraltro sempre ricorrente in qualsiasi avventura umana, anche quella accolta dalla libera scelta dei consacrati, al fine di aprirsi agli infiniti, incommensurabili spazi dell’Eterno: “Bisogna in queste cose denudarsi d’ogni proprio interesse e il solo servitio di Dio riguardare”.

 
Quale patologia?

Introducendo la pubblicazione agli inediti “Sermoni” di padre Giovanni, nel 2003 scrivevo: “Per un uomo formatosi alla scuola del laboratorio…come tipologia di vita, l’esperimentazione e la prassi precedeva la teoria e questo, prima ancora che nel piano reale, innanzitutto a livello concettuale”(19).
Credo che la mini antologia epistolare appena assaporata ne abbia già offerto una sufficiente riprova. Ulteriore e più esplicita documentazione in proposito è possibile acquisire attraverso la citata raccolta omiletica dalla quale mi limito ad estrapolare soltanto alcuni minuscoli, significativi attestati.

Parlando di ciò che tenta l’uomo, la prima analisi del Leonardi parrebbe chiudersi senza molte speranze:

Noi vediamo tante cose nocive e non cerchiamo li rimedij”(p.47). Al contrario l’attento studio della natura, con le sue paure e le sue risorse portato avanti negli anni giovanili della spezieria, lo induce a riconsiderare le nostre storie all’interno di una armonica sintesi teologica.

Difatti nel prossimo suggestivo quadro tra chi, molto imprudente, non coglie certi segni che sono comunque provvidenziali e chi, viceversa, ne fa premuroso tesoro, il Santo trasmette una rasserenante comunicazione di fiducia. L’assetto formale rimane schematico ed essenziale, tipico del catechista.

Tuttavia, ben oltre le graziose immagini attraverso le quali viene esemplificato il diverso atteggiarsi della creatura e che -in tal senso- non guastano mai, l’effettivo messaggio pastorale si presenta decisamente intenso e assai positivo:

“Questi cattivi sono simili a’ corbi che, sentendo qualche romor non si partono…Ma i buoni, alle colombe: Che subito che sentono il falchetto, fuggono alle lor tane. Così questi, nelle piaghe di Cristo”(p.171).

La peste di Padova del 1576 fu una delle più terrificanti e nel corso di essa, tra gli altri, perì anche il celebre Tiziano. L’eco della stessa perdurava a Lucca fino a tutto il 1580 come si ricorderà dal cenno che ho fatto nei capoversi precedenti circa la presenza dei lebbrosari fuori le mura. In diverse apposite omelie il morbo viene “riletto” dal Santo quale tragica metafora dell’umana dissolvenza determinata dalla colpa. Questa plastica analogia tra i guasti prodotti dall’epidemia e i devastanti effetti del peccato con la fiducia, tuttavia, che il medico divino Cristo ci salva, se veramente lo vogliamo, è protratta per oltre nove carte (tra recto e verso) con un lessico che, definire specialistico, mi sembra più che mai opportuno.

Ne riporto un piccolo saggio: “Doppo il trar del sangue e il pigliar delli sciroppi, bisogna mandar’ fuori li huomor putridi; il che si fa con la medicina la qual, per il più, è amara. Così qua dovete pigliar la medicina della santa penitentia”(p.148).

Un tema particolarmente caro al Santo è il “vedere”, così come viene comunicato nei testi scritturistici.

Egli lo reinterpreta in diverse omelie: sia commentando l’evangelico“Beati oculi qui vident”(Lc 10,23), sia riflettendo sul paolino “Videmus nunc per speculum…Tunc autem facie ad faciem”(1 Cor 13,12).
Sicuramente qui non occorre nessuna specializzazione in fisiologia per intuire di quale vista veramente si tratti. Eppure, l’attitudine alla estrema chiarezza acquisita negli anni della formazione professionale e ormai rimasta indelebile nel suo personale costume di vita, induce il Leonardi a farsi una domanda tutt’altro che retorica ed inutile: “Di che occhi parla qui il Salvatore?”(pp. 278 e segg.).

Come era facile prevedere, la replica non può essere altra che: “ Non di quelli del corpo”.
Superfluo dover sottolineare come sia del tutto scontato che quella risposta esclude, ovviamente, lo specifico ambito attinente un malanno di tipo oftalmico. Malauguratamente però, si tratta di una patologia assai più grave e di ben altra natura, visto come sarebbe fin troppo facile riconoscere che “così sariino stati beati ancora li farisei i quali vedeano con gli occhi corporali tutto quello che vedeano gli Apostoli”.

A questo punto forse può essere di particolare utilità una puntuale annotazione cronologica.
Più o meno in quegli anni -esattamente nel 1586- padre Giovanni aveva commissionato all’architetto Agostino Lupi, per la chiesa di Santa Maria Corteorlandini in Lucca, un pregevolissimo tabernacolo in legno dorato. Oggi possiamo apprezzare l’intensa catechesi per immagini che emana da quel fastoso arredo dopo la rielaborazione fattane da Giovanni Vambrè nel 1673(20).

Ebbene la chiave di lettura teologica del prezioso ciborio, grazie alla comunicazione interpretativa che ce ne fornisce la porticina, risiede proprio nella dilemmatica ipotesi esistenziale di cosa comporti, nella quotidiana realtà, il “vedere” o il suo esatto contrario, vale a dire il “non vedere”.

Difatti per i discepoli di Emmaus raffigurati ai lati del Maestro, avvenne ciò che può accadere esattamente per qualsiasi anima capace di porsi in responsabile ricerca. Soltanto la misteriosa esperienza eucaristica finì per tradursi in quella vitale operazione chirurgica che, nel concreto dei due personaggi, cambiò poi con totale radicalità una intera esistenza: “Et aperti sunt oculi eorum, et cognoverunt Eum”(Lc 24,31).

 
“Cristo posto ne l’aromi”

Credo che, già nei capoversi precedenti, abbia avuto modo di emergere con sufficiente chiarezza il vero nucleo contenutistico e ispiratore del presente saggio. Tuttavia, ora in conclusione, ritengo sia un formale dovere storico -derivante con scientifica modalità dalla sola forza dei documenti- ribadire ancora una volta un fondamentale dato di fatto dalla enorme e affascinante rilevanza ascetica.

C’è da restare veramente commossi nel più profondo intimo ed è impossibile esimersi da una totale, gradevolissima suggestione nel constatare come -quale che possa essere l’argomento trattato- Giovanni Leonardi abbia il dono di articolare le sue meditate considerazioni in modo tale da annodarle -sempre e in ogni caso- intorno a un unico irrinunciabile polo di riferimento vitale costituito soltanto dalla persona di Cristo Gesù di Nazaret.

La riprova definitiva che desidero segnalare particolarmente ai lettori dei suoi Sermoni la prelevo dall’appassionato commento stilato al programma estremamente impegnativo prospettato da Paolo di Tarso: “Fatevi imitatori di Dio…nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore”(Ef 5,1).

Di questo fermissimo convincimento dell’Apostolo la intera sua vita, nelle differenziate stagioni che lo videro tra i protagonisti della riforma cattolica, ne fu la più coerente e leggibile esegesi interpretativa.
Raramente e in modo più intenso, di quanto non avvenga nel presente caso, il Santo riflette sulla parola di Dio con pari aderenza al suo personale vissuto. Sicuramente tutto ciò si è verificato attraverso l’inconscio riandare a quando, nella quotidiana manualità, trattava le molteplici spezie dagli intensi profumi macerandole poi adeguatamente al fine di ricavarne opportuni medicamenti.

Poche volte come ora, in questo sdrucito ancorché preziosissimo documento, allegoria e realtà, simboli ed evento salvifico sembrano alternarsi vicendevolmente senza netti e ben determinati confini.
Ma è proprio per la paradossale “normalità” della fede che ciò avvenga.

Quei singolari trapassi accadono semplicemente perché stanno a designare tutte le misteriose pagine di un’unica storia, quella degli “ultimi tempi” anticipata nella pericope della lettera di Pietro (1 Pt 1,5).
Pagine ancora tutte completamente da sfogliare, restando attoniti e stupefatti di fronte all’incanto dell’effettuale continuo divenire di un divino progetto di amore.

Ecco perché, miscelando memoria e contemplazione, pensosamente assorto nello stilare la sua carta il Santo non può fare a meno di annotare:

“Gli aromati non rendono odore mentre stanno sani, ma rotti spargono il loro odore.
Questo fece Cristo.  Allor diffuse odore, quando fu spezzato.
Quando li fur’ aperte le mani, li piedi, il capo e il costato sparse odor perfetto.
Spezzati gli aromati et posti nel fuoco, si sparge il loro odore.
Cristo posto ne l’aromi.
Non saria stata grata questa Hostia se non fusse stata posta sul fuoco”(p.128).

 

NOTE

18) Vittorio Pascucci, Lettere di un Fondatore, Ed. S.Marco-Lucca, Lucca, 2007. Al fine di non appesantire il testo, invito a rifarsi a questo volume per le tutte citazioni. Esse avranno come riferimento bibliografico la data della lettera in questione.
19) S.Giovanni Leonardi, Sermoni cit., p. 28. Per analogia a quanto scritto nella nota 18, in questo caso il riferimento avviene in rapporto al presente volume. La rispettiva pagina verrà indicata nel testo stesso, subito dopo il riporto della citazione.
20) Vittorio Pascucci, L’allusivo iconografico in S.Maria Corteorlandini, Ed. S.Marco-Lucca, Lucca, 1996, pp.98-109.

 

NOTE
unificate

1) AA.VV., San Giovanni Leonardi, Patrono dei Farmacisti, a cura della UCFI, 2006, p.3.
2) Giuseppe Bonafede, Vita del P.Gio[vanni] Leon[ar]di, Manoscritto conservato in ASMCO, I, 15, carta 37. Cesare Franciotti, Cronache della Congregazione dei Chierici della Madre di Dio, a cura di Vittorio Pascucci, Ed. S.Marco-Lucca, Lucca 2008, p.201, fornisce anche l’anno: “Fu esso (mentre era ancor giovane d’anni 17 incirca) dal padre mandato a Lucca l’anno 1561”. Questo lascerebbe pensare al 1543-1544 quale data di nascita del Santo. Ma sappiamo come il  Franciotti sia piuttosto elastico circa simili dettagli. Si pensi alle perplessità espresse persino quando riferisce i dati cronologici relativi alla morte di suo fratello, il padre Giulio: Op.cit., p. 219.
3) AA.VV., La via Francigena nel GAL degli Etruschi- Guida breve del territorio, Viterbo 2008, p. 7.
4) Augusto Mancini, Storia di Lucca, Maria Pacini Fazzi Editore, Lucca 1981, p. 1.
5) Renato Stopani, Guida ai  percorsi della via Francigena in Toscana, Ed. Le Lettere, Firenze, IV Ristampa, 2003, pp. 100-101.
6) I dati relativi a questo sacerdote sono rilevabili nella Archivio parrocchiale: “Martilogio et campia delle terre et beni della pieve di S. M. Assunta – Nota dei Signori pievani di Villa Basilica – N.7: Giuliano Carli dal 1543 al 1575”.
7) Giuseppe Bonafede, Vita del P.Gio[vanni] cit., cc. 37-38. Antonio Parigi risulta in un elenco ufficiale stilato dall’ Offizio sopra  gli Speziali, n. 1 (1563-1673), Archivio di Stato di Lucca, Deliberazioni, Prima parte, A d’ primo Gennaro 1564, Nota di quelli che al presente essercitano l’Arte dello Spetiale in la Città, carta 11 r.
8)  R.Ciasca, Memorie e documenti per servire alla istoria della città e stato di Lucca, Lucca, Bertini, 1814.
9)  Salvatore Bongi, Inventario Archivio di Stato in Lucca, Strumenti per la ricerca, Vol. V, Parte Prima, Istituto Storico Lucchese, Lucca, 1999, Copia anastatica, pp. 219-220.
10) Antonio Esposito Vitolo, Gli “Ordini sopra gli speziali” della città di Lucca del 1589 e del 1732, Pisa, Arti Grafiche Pacini Mariotti, 1947.
11) Renato Stopani, Guida ai  percorsi cit., p.100.
12)  Cfr. Gilberto Bedini – Giovanni Fanelli, Lucca iconografia della città,Centro Studi sull’Arte, S.Marco-Lucca, 1988, vol. II.
13) Per la prima vedi: F.D. Nardi, Matteo Guerra e la Congregazione dei Sacri Chiodi(secc.XVI-XVII) - Aspetti della religiosità senese nell’età della Controriforma, in Bullettino senese di storia patria, XCI, (1984), pp. 12-148; cfr. anche Vittorio Pascucci, Testimoni profetici della riforma cattolica, Ed. S.Marco-Lucca, Lucca, 2007. Per i secondi vedi:  Isabella Gagliardi, “Li trofei della Croce” L’esperienza gesuata e la società lucchese tra Medioevo e Età Moderna,Firenze, 2007; cfr. Anche: S.Giovanni Leonardi, Sermoni, a cura di Vittorio Pascucci,, Ed. S.Marco-Lucca, Lucca, 2003, p. 30.   
14) Cesare Franciotti, Cronache cit., p. 200.
15) Ivi, p. 202.
16) Luigi Gedda, S. Giovanni Leonardi - Dal Concilio di Trento al Vaticano II, Tipografia Poliglotta Vaticana, Roma,1963, pp. 7-8.
17) Cesare Franciotti, Cronache cit., p. 204.
18) Vittorio Pascucci, Lettere di un Fondatore, Ed. S.Marco-Lucca, Lucca, 2007. Al fine di non appesantire il testo, invito a rifarsi a questo volume per le tutte citazioni. Esse avranno come riferimento bibliografico la data della lettera in questione.
19) S.Giovanni Leonardi, Sermoni cit., p. 28. Per analogia a quanto scritto nella nota 18, in questo caso il riferimento avviene in rapporto al presente volume. La rispettiva pagina verrà indicata nel testo stesso, subito dopo il riporto della citazione.
20) Vittorio Pascucci, L’allusivo iconografico in S.Maria Corteorlandini, Ed. S.Marco-Lucca, Lucca, 1996, pp.98-109.

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