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Venerdì, 24 Novembre 2023 02:31

Ricordo di P. Alceste Piergiovanni a 20 anni dalla morte

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A 20 anni dalla morte di P. Alceste Piergiovanni OMD abbiamo chiesto a Paola e Paolo Boncristiano di tracciarne alcuni tratti.

Padre Alceste Piergiovanni nacque in quel di Tuscania il 28 marzo del 1929; a soli 10 anni entrò in seminario e nell’ottobre del 1954 fu ordinato sacerdote. Non passarono due anni da quel momento, quando fu inviato in Cile. Imbarcato in una nave piena di emigranti, il giovane Alceste sbarcò in quella terra lontanissima, soprattutto per quei tempi, dove pensava di svolgere un compito missionario solo per alcuni mesi.

Le cose non andare proprio in tal senso, perché il lavoro tra i bambini orfani e tra i ragazzi con famiglie problematiche o già provati da vicende giudiziarie, lo toccarono profondamente: sperimentò e comprese la sete d’amore che questi bambini, tutti questi bambini, avevano e comprese come questo bisogno corrispondesse perfettamente al suo. Fu il primo incontro tra due necessità di amore. Amore desiderato ed amore donato che ultimamente si intrecciano e si scambiano reciprocamente. Questa sarà poi la dinamica di ogni successivo incontro tra il bambino adottato e la famiglia adottiva. Sì, perché padre Alceste, per tutti in Cile padre Pier, si rese conto che il suo amore non sarebbe stato sufficiente: era necessario dare a ciascun bambino una famiglia, un padre ed una madre.

Quello per lui fu il punto di non ritorno: il Cile sarebbe diventata la sua terra e quei bambini, tutti, sarebbero diventati suoi figli sino a quando non avrebbe trovato loro una famiglia reale, fatta di un padre ed una madre che li accogliessero tra le braccia con amore.

Nell’arco dei cinquant’anni della sua vita missionaria, il suo grande carisma fu di aver donato a più di mille bambini una famiglia.

La prima volta che ho incontrato padre Alceste fu nel 1999. Da tempo io e mia moglie desideravamo adottare un bambino cileno per i legami affettivi che avevamo con quel Paese così lontano. Fu una nostra amica, la sig.ra Anita Fresno de Leighton, ad indirizzarci in quell’anno verso padre Alceste.

Venimmo a sapere che il padre era di origine italiana, appartenente all’Ordine dei Chierici Regolari della Madre di Dio, e che ogni anno tornava nei mesi estivi in Italia sia per le sue precarie condizioni di salute che non sopportavano il freddo eccessivo, sia soprattutto per incontrare i bambini che negli anni aveva fatto adottare in Italia e le famiglie che li avevano accolti.

L’incontro ci lasciò un po’ spiazzati: la prima impressione fu di un uomo burbero, che non eccedeva nel dar confidenza, e anzi …  con quel suo fare arguto, faceva in modo di provocarti, di farti sentire a disagio quasi arrivavi a chiederti “ma io cosa son venuto a fare qui da questo uomo così impenetrabile?”.

Andammo a pranzare al ristorante e lì fece perder quasi le staffe al proprietario, che era un nostro amico: ogni piatto romagnolo, che questi gli proponeva, veniva rimandato indietro con qualche commento fino ad arrivare a scegliere mozzarella e pomodoro, poi lasciati quasi interamente sul piatto.

Passarono i mesi e nessuna notizia arrivava dal Cile, per cui decisi, d’accordo con mia moglie, di avvisarlo che saremmo partiti comunque per il Cile (il viaggio sarebbe stato in ogni caso decisivo, perché non avremmo avuto la possibilità economica di ripeterne altri) come segno della nostra determinazione a rischiare tutto, per esaudire il nostro desiderio. Non saprei dire se l’aerogramma si è incrociato con la sua decisione o se essa è stata presa al suo arrivo (cosa che ritengo più probabile).

Fatto è che la domenica successiva, al ritorno da un viaggio al mio paese natale, verso l’una di notte squillò il telefono: padre Alceste dopo aver premesso che ci aveva cercato ininterrottamente nei giorni precedenti, ci annunciò che Paolo, questo era il nome del bambino che avremmo adottato, aspettava che lo andassimo a prendere e da quel momento la nostra famiglia sarebbe diventata ancor più una ‘famiglia di Paoli’ (anche io e mia moglie portiamo tale nome).

Ho fatto questa premessa per parlare del primo aspetto del carattere di padre Alceste, a cui però ne faceva seguito immediatamente un secondo: dal momento che aveva deciso che quel bambino era per te e tua moglie, lui diventava tenerissimo e pieno di attenzioni. Certo rimaneva il suo carattere rustico, ma accompagnato da un grande affetto.

Si trattava di due aspetti comportamentali agli antipodi tra loro, ma che recavano in sé la stessa logica: la preoccupazione per il figlio che donava alla famiglia. Voleva essere certo che questi futuri genitori avrebbero sfidato qualsiasi avversità o difficoltà per amore del figlio.

Padre Alceste, che indubbiamente aveva un grande carisma sia nel conoscere i bambini nel loro profondo essere, sia quelli che ne sarebbero divenuti i genitori, ci confidò più volte che quando si trattava di assegnare un bambino per lui era come un parto (non dormiva per notti intere) perché si rendeva conto della enorme responsabilità della sua decisione. E di questi … parti … ne avrebbe avuti più di mille!

All’inizio, quindi, saggiava la consistenza delle persone che si trovava di fronte sia singolarmente che come coppia, perché quella coppia doveva diventare la famiglia di un bambino che già tanto soffriva per non averne mai avuta una.

I bambini gli volevano tutti bene e lui li conosceva uno per uno, la loro indole, la loro storia, i loro desideri. Per ciascuno di loro dedicava del tempo ed essi lo amavano. All’hogar la sera non venivano mai chiusi i cancelli ed era una cosa di cui si vantava, perché nessun bambino aveva mai tentato di scappare da lì, dove si sentiva benvoluto. Questo comportava da parte di padre Alceste, non solo un’attenzione particolare ai piccoli, ma anche un’attenzione educativa nei confronti del personale dell’hogar, che doveva sentirsi impegnato in una missione più ancora che in un lavoro retribuito.

Di tutto il lavoro educativo di padre Alceste resta la prova indelebile data dai ragazzi che, ormai diventati adulti, continuano a ricordarlo sempre, con affetto immutato. In realtà, è stato lui che li ha raccolti da ogni dove, facendosi carico delle loro storie più disparate e disperate, e li ha rigenerati, donando loro una speranza, un futuro, un senso alla loro vita: una famiglia.

Lui diceva che questi bambini adottati non solo ricevevano amore, ma loro stessi donavano amore: si trattava di un dono reciproco, il riempimento di una solitudine affettiva che ognuno aveva vissuto per il suo proprio stato e che ora diveniva il terreno fertile ove la rispettiva vocazione di genitori e di figli andava verso il suo compimento.

Padre Alceste era certo che l’amore non solo curasse le ferite dello spirito, ma anche quelle del fisico. Era il testimone di bambini magari sordastri che, inseriti in una famiglia ed amati, ricuperavano il corretto uso dell’udito. Bambini incapaci di parlare e vissuti come animaletti cibandosi poco più che di radici, inseriti in una famiglia, recuperavano la parola, iniziavano a mangiare regolarmente seduti a tavola ed imparavano a leggere ed a scrivere. I miracoli dell’amore!

Tante sono le iniziative che ha promosso in quel periodo, per alleviare il disagio di quei bambini e, quando andava nei tribunali a difenderli per far ottener loro l’adottabilità di fronte allo sciagurato comportamento dei genitori naturali, non esitava a dare battaglia ad oltranza pur di salvaguardare il volto innocente di quei bambini. Questo, fintanto che il giudice avesse ben chiara la situazione del bambino nel caso avesse pensato di lasciare la patria potestà a quei genitori naturali che lo avevano già abbandonato.

Di una cosa si rammaricava molto: la non curanza della chiesa per l’adozione; nessun vescovo e pochissimi preti consigliavano le famiglie a adottare un bambino, famiglie che poi si sarebbero magari messe poi alla ricerca sfrenata e discutibile di tecniche fecondative economicamente significative alla fine spesso deludenti e mortificanti. Il padre si chiedeva come mai il clero avesse così tanta insensibilità verso l’adozione.

Ma ecco che, poco prima della morte, la sua vita fu inondata da una gioia inaspettata: il papa Giovanni Paolo II incontrò le famiglie adottive di Madre Teresa di Calcutta e dedicò al tema dell’adozione l’intera udienza, trattando il tema nel modo in cui padre Alceste aveva sempre desiderato.

Dalla nostra prima adozione, a cui poi ne è seguita una seconda, la amicizia e familiarità tra noi si sono sempre più rinsaldate. La sua vicinanza più stretta ed affettuosa con noi come con ogni altra famiglia che lo avesse voluto (lui era molto discreto e se percepiva che una famiglia non aveva piacere di continuare il rapporto con l’hogar, non insisteva anche se cercava comunque di avere sempre notizie dei suoi bambini).

L’ultima volta che io e la mia famiglia lo abbia incontrato è stato nel settembre 2003. Padre Alceste si sentiva vicino alla morte e ci mandò a dire che aveva desiderio di rivederci e così andammo a trovarlo a Tuscania. Ci mettemmo intorno al suo letto, io mia moglie Paola, i nostri figli Paolo Andrea e Luis Alejandro: parlammo a lungo e lui ebbe parole buone per ciascuno di noi, soprattutto per i nostri figli che aveva sempre portato nel suo cuore.

Ci disse che ormai la sua morte era prossima e che proprio per questo sarebbe tornato in Cile, quella che ormai era la sua terra … di adozione. Desiderava essere sepolto nell’hogar, in un luogo semplice … lì dove i suoi bambini avrebbero potuto andare a fare la pipì. È morto a Quinta de Tilcoco il 20 novembre 2003. Questo è il padre Alceste che io ho conosciuto.

Letto 350 volte Ultima modifica il Venerdì, 24 Novembre 2023 09:45

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