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stemma e nome

Visualizza articoli per tag: luce sul mistero

Sabato, 10 Agosto 2013 17:32

Il motore della vita

editoriale 10-08-13Un padrone parte e affida la sua casa ai servi. La vera fortuna di noi servi inaffidabili consiste nel fatto di avere un padrone così, pieno di fiducia verso di noi, che non nutre sospetti, cuore luminoso. Dio ha un cuore di luce e ti affida la casa, le persone, il mondo. E ti dice: tu puoi. Dio ha fede nel­l'uomo. La fiducia del mio Signore mi conquista, mi convince, mi fa dire: beato sei tu perché Dio ha fede in te. Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli... non è ovvio, non è scontato stare svegli, non è un fatto dovuto o un obbligo. Quell'attesa fino all'alba ha il potere di emozionare e sorprendere Dio, è più di quanto non si aspettasse. Genera infatti in lui una risposta quasi eccessiva, esultante. Ed è il punto commovente, sublime di questa parabola, il momento straordinario, quando accade l'impensabile: Dio da padrone diventa servitore: vi dico che si stringerà le vesti ai fianchi (è l'abbigliamento del servo) li farà sedere a tavola e passerà a servirli. Da quello stupore di Dio, viene una voce: «questi miei figli mi sorprendono, capaci di incantarmi con un di più, un eccesso, una veglia fino all'alba, un vaso di nardo, un perdono con tutto il cuore, gli ultimi due spiccioli gettati nel tesoro del tempio, l'abbraccio e il pane dati al più piccolo. Metto ancora la mia gioia nelle loro mani!». Dio non è il Padrone dei padroni, è il servitore della vita. Non abbiamo pensato abbastanza a che cosa significhi avere un Dio nostro servitore. Il padrone castiga, il servo aiuta; il padrone giudica, il servo sostiene; il padrone detta ordini, il servo ascolta e apre il cuore. Questi è il solo che io servirò perché è l'unico che si è fatto mio servitore. Dov'è il tuo tesoro lì è anche il tuo cuore. Ciò che per me è più prezioso è ciò che più amo. «Ami la terra? Terra di­venterai. Ami Dio? Diventerai come Dio», scrive Agostino. L'uomo diventa ciò che ama. La fede avanza per scoperta di tesori, non per doveri. La vita cresce non per obblighi o divieti, ma per una passione, e la passione nasce da una bellezza. La bellezza di un Dio così fa avanzare la mia fede. Un tesoro di persone e di speranze è il motore della vita. Sufficiente a met­tersi in viaggio verso Colui che ha nome amore, pastore delle costellazioni e pastore dei cuori, che ci metterà a tavola e passerà a servirci, con tutta la gioia di un padre sorpreso da questi suoi figli, questo piccolo gregge, coraggioso e mai arreso, che veglia sui tesori di Dio, che veglia fino alle porte della luce.
 
Sabato, 03 Agosto 2013 10:37

Povertà e libertà

editoriale 03-08-13Un uomo ricco ha avuto un raccolto abbondante. Un particolare mi colpisce: non c'è nessuno attorno a quest'uomo. Nessun nome, nessun volto, nessuno nella casa, nessuno nel cuore. Ricco e al centro di un deserto! La ricchezza crea un deserto di relazioni autentiche, le cose soffocano gli affetti veri. Un uomo solo e non felice, perché la felicità dipende da due cose: non può mai essere solitaria e ha a che fare con il dono. Solitario, il cuore si ammala; isolato, muore. Un uomo che ripete continuamente un unico aggettivo «mio»: i miei raccolti, i miei magazzini, i miei beni, la mia vita, anima mia. Questa ossessione del mio. Le cose dominano il suo futuro, la sua vita ruota attorno ad esse. Vivere così è un lento morire. Infatti: «Stolto, questa notte morirai», anzi stai già morendo, hai allevato, hai nutrito la morte dentro di te. L'uomo non vive di solo pane, anzi di solo pane, di sole cose l'uomo muore... Stolto, dice Gesù, non perché cattivo, ma perché poco intelligente. Ha investito sul prodotto sbagliato, sul denaro e non sull'amore. La tua vita non dipende dai tuoi beni. Gesù non disprezza i beni della terra, quasi volesse disamorarci della vita, offre invece una risposta alla domanda di felicità. Il Vangelo dà per scontato che la vita umana sia, e non possa non essere, un'incessante ricerca di felicità. Vuoi vita piena, felicità vera? Non andare al mercato delle cose. Le cose promettono ciò che non possono mantenere. Sposta il tuo desiderio su altro, desidera dell'altro, un mondo dove l'evidenza non sia: più denaro è bene, meno denaro è male; un mondo come Dio lo sogna, che «amore e luce ha per confine». Non dai beni, da che cosa dipende allora la vita? Da tre cose: dalla tua vita interiore, dalle persone accanto a te, da una sorgente che non è in te ma in Dio. E queste tre cose devono essere in comunione, innestate tra loro. Allora sei vivo. Un giorno un visitatore arriva nella cella di un monaco del deserto. E conversando gli domanda: come mai hai così poche cose nella tua cella? Un letto, un tavolo, una sedia, una lampada. Il monaco replica: e tu come mai hai solo una sacca con te? Ma perché io sono in viaggio, risponde il visitatore. E il monaco: anch'io sono in viaggio. Fragile e precaria è la vita ma non perché finisce, solo perché sempre incamminata verso un altrove. In questa migrazione verso la vita, povertà e libertà fanno riscoprire la bellezza del mondo e la bontà delle cose, e come gustarle senza bisogno di possedere.
 
Domenica, 28 Luglio 2013 07:51

Il dialetto del cuore

editoriale 28-07-13Signore insegnaci a pregare!» Tutte le preghiere di Gesù riportate dai Vangeli (oltre cento) iniziano con la stessa tipica parola: «Padre», il modo migliore per rivolgersi a Dio. Ma specifico di Gesù, esclusivamente suo, è il termine originario «Abbà» che i Vangeli riportano nella lingua di Gesù, l'aramaico, e il cui senso è «papà, babbo». È la parola del bambino, il dialetto del cuore, il balbettio del figlio piccolo. È parola di casa, non di sinagoga; sapore di pane, non di tempio. «Nella moltitudine delle preghiere giudaiche non si trova un solo esempio di questa parola 'Abbà' riferita a Dio» (Jeremias). Solo in Gesù: Abbà-papà. Nel linguaggio corrente la parola «pregare» indica l'in­sistere, il convincere qualcuno, il portarlo a cambiare atteggiamento. Pregare per noi equivale a chiedere. Per Gesù no: pregare equivale a evocare dei volti: quello del Padre e quello di un amico. Nella preghiera di Gesù l'uomo si interessa della causa di Dio (il nome, il regno, la volontà) e Dio si interessa della causa dell'uomo (il pane, il perdono, il male), ognuno è per l'altro. E imparo a pregare senza mai dire io, senza mai dire mio, ma sempre Tu e nostro: il tuo Nome, il nostro pane, Tu dona, Tu perdona. Il Padre nostro mi vieta di chiedere solo per me: il pane per me è un fatto materiale, il pane per mio fratello è un fatto spirituale (Berdiaev). Pregare cambia la storia. «Amico prestami tre pani perché è arrivato un amico». Una storia di amicizia svela il segreto della preghiera. La parabola mette in scena tre amici: l'amico povero, l'amico del pane e il viaggiatore inatteso, carico di fame e di stanchezze, che rimane sullo sfondo ma è in realtà una figura di primo piano: rappresenta tutti coloro che bussano alla mia porta, che senza essere attesi sono venuti, che mi hanno chiesto pane e conforto. A Gesù sta a cuore la causa dell'uomo oltre a quella di Dio: non vuole che la preghiera diventi un dialogo chiuso, ma che faccia circolare l'amore (i tre pani) nel corpo del mondo. Da duemila anni ripetiamo il Padre Nostro, ma non siamo diventati fratelli e il pa­ne continua a mancare. Una domanda enorme corrode le nostre preghiere: Dio esaudisce? «Dio esaudisce sempre, ma non le nostre richieste bensì le sue promesse» (Bonhoeffer): Io sarò con te, fino alla fine del tempo. Dio si coinvolge, intreccia il suo respiro con il mio, mescola le sue lacrime con le mie. Se pregando non ottengo la cosa che chiedo, ottengo però sempre un volto di Padre e il sogno di un abbraccio.
 
Lunedì, 22 Luglio 2013 13:08

Tenerezza di madre

editoriale 21-07-13C'era tanta gente che non avevano neanche il tempo di mangiare. Gesù mostra una tenerezza come di madre nei confronti dei suoi discepoli: Andiamo via, e riposatevi un po'. Lo sguardo di Gesù va a cogliere la stanchezza, gli smarrimenti, la fatica dei suoi. Per lui prima di tutto viene la persona; non i risultati ottenuti ma l'armonia, la salute profonda del cuore. E quando, sceso dalla barca vede la grande folla il suo primo sguardo si posa, come sempre nel Vangelo, sulla povertà degli uomini e non sulle loro azioni o sul loro peccato. Più di ciò che fai a lui interessa ciò che sei: non chiede ai dodici di andare a pregare, di preparare nuove missioni, solo di prendersi un po' di tempo tutto per loro, del tempo per vivere. È un gesto d'amore, di uno che vuole loro bene e li vuole felici. Scrive sant'Ambrogio: «Si vis omnia bene facere, aliquando ne feceris, se vuoi fare bene tutte le tue cose, ogni tanto smetti di farle», cioè riposati. Un sano atto di umiltà, nella consapevolezza che non siamo noi a salvare il mondo, che le nostre vite sono delicate e fragili, le energie limitate.

Gesù insegna una duplice strategia: fare le cose come se tutto dipendesse da noi, con impegno e dedizione; e poi farle come se tutto dipendesse da Dio, con leggerezza e fiducia. Fare tutto ciò che sta in te, e poi lasciar fare tutto a Dio. Un particolare: venite in disparte, con me. Stare con Gesù, per imparare da lui il cuore di Dio. Ritornare poi nella folla, portando con sé un santuario di bellezza che solo Dio può accendere. Ma qualcosa cambia i programmi: sceso dalla barca vide una grande folla ed ebbe compassione di loro. Prendiamo questa parola, bella come un miracolo, come filo conduttore: la compassione. Gesù cambia i suoi programmi, ma non quelli dei suoi amici. Rinuncia al suo riposo, non al loro. E ciò che offre alla gente è per prima cosa la compassione, il provare dolore per il dolore dell'altro; il moto del cuore che muove la mano a fare.

Stai con Gesù, lo guardi agire, e lui ti offre il primo insegnamento: «come guardare», prima ancora di come parlare; uno sguardo che abbia commozione e tenerezza, le parole e i gesti seguiranno. Quando impari il sentimento divino della compassione, il mondo si innesta nella tua anima. Se an­cora c'è chi si commuove per l'ultimo uomo, questo uomo avrà un futuro.

Gesù sa che non è il dolore che annulla in noi la speranza, non è il morire, ma l'essere senza conforto. Facciamo in modo di non privare il mondo della nostra compassione, consapevoli che «ciò che possiamo fare è solo una goccia nell'oceano, ma è questa goccia che può dare significato a tutta la nostra vita»  (E. Ronchi)

 
Domenica, 14 Luglio 2013 08:35

L’eterno nome dell’uomo

editoriale 14-07-13Maestro, che cosa devo fare per essere vivo, per essere uomo vero? Gesù risponde con un racconto in cui è racchiusa la possibile soluzione della storia, la sorte del mondo e il destino di ognuno. Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico. Un uomo, dice Gesù. Guai se ci fosse un aggettivo, buo­no o cattivo, ricco o povero, dei nostri o straniero. Può essere perfino un disonesto, un brigante anche lui. È l'uomo, ogni uomo aggredito e che ha bisogno. Ogni strada del mondo va da Gerusalemme a Gerico. Il mondo geme, con le vene aperte; c'è un immenso peso di lacrime in tutto ciò che vive, un oceano di uomini derubati, umiliati, violati, naufragati per ogni continente. È questo il nome eterno dell'uomo. Per caso un sacerdote scendeva per quella stessa strada. Il primo che passa, un prete, un uomo spirituale, passa oltre. Ma cosa c'è oltre? Oltre il dolore, oltre la carne dell'uomo non c'è lo spirito, bensì il nulla. Quel prete non troverà mai Dio. «Percorri l'uomo, dice sant'Agostino, e raggiungerai Dio». Uomo, via maestra verso l'assoluto! Invece un samaritano che era in viaggio lo vide, ne ebbe compassione, gli si fece vicino. Un samaritano: uno straniero, un extracomunitario d'oggi, ha compassione e si avvicina, scende da cavallo, forse ha paura, non è spontaneo fermarsi. Misericordia - avere cuore per il dolore - non è un istinto, ma una conquista. Bisogna avvicinarsi, vedere gli occhi, ascoltare il respiro, allora ti accorgi che quell'uomo è tuo fratello, un pezzo di te. E nulla di ciò che è umano ti può essere estraneo. Il racconto di Luca mette in fila dieci verbi per descrivere l'amore: lo vide, si mosse a pietà, si avvicinò, scese, versò, fasciò, caricò, lo portò, si prese cura, pagò... fino al decimo verbo: al mio ritorno salderò il debito se manca qualcosa. Questo è il nuovo decalogo, i nuovi dieci comandamenti, una proposta per ogni uomo, credente o no, perché l'uomo sia uomo, la vita sia amica, la terra sia abitata da «prossimi», non da avversari.  Ma chi è il mio prossimo? Gesù risponde: tuo prossimo è chi ha avuto compassione di te. Allora ricordati di amare i tuoi samaritani, quelli che ti hanno salvato, hanno versato olio e vino sulle tue ferite, e riversato affetto in cuore. Non dimenticare chi ti ha soccorso e ha pagato per te. Li devi amare, con gioia, con festa, con gratitudine. E poi da loro imparare. Va e anche tu fa lo stesso. Anche tu diventa samaritano, fatti prossimo, mostra misericordia. Il vero contrario dell'amore non è l'odio, è l'indifferenza.
 
Venerdì, 05 Luglio 2013 23:04

La casa della pace

editoriale 07-07-13Partono senza pane, né sacca, né denaro, senza nulla di superfluo, anzi senza nemmeno le cose più utili. Solo un bastone cui appoggiare la stanchezza e un amico a sorreggere il cuore. Senza cose. Semplicemente uomini. Perché l'incisività del messaggio non sta nello spiegamento di forza o di mezzi, ma nel bruciore del cuore dei discepoli, sta in quella forza che ti fa partire, e che ha nome: Dio. La forza del Vangelo, e del cristianesimo, non sta nell'organizzazione, nei mass-media, nel denaro, nel numero. Ancora oggi passa di cuore in cuore, per un contagio buono.  Partono senza cose, perché risalti il primato dell'amore. L'abbondanza di mezzi forse ha spento la creatività nelle chiese. Il viaggio dei discepoli è come una discesa verso l'uomo essenziale, verso quella radice pura che è prima del denaro, del pane, dei ruoli. Anche per questo saranno perseguitati, perché capovolgono tutta una gerarchia di valori.  Gesù affida ai discepoli una missione che concentra attorno a tre nuclei: Dove entrate dite: pace a questa casa; guarite i malati; dite loro: è vicino a voi il Regno di Dio. I tre nuclei della missione: seminare pace, prendersi cura, confermare che Dio è vicino. Portano pace. E la portano a due a due, perché non si vive da soli, la pace. La pace è relazione. Comporta almeno un altro, comporta due in pace, in attesa dei molti che siano in pace, dei tutti che siano in pace. La pace non è semplicemente la fine delle guerre: Shalom è pienezza di tutto ciò che desideri dalla vita. Guariscono i malati. La guarigione comincia dentro, quando qualcuno si avvicina, ti tocca, condivide un po' di tempo e un po' di cuore con te. Esistono malattie inguaribili, ma nessuna incurabile, nessuna di cui non ci si possa prendere cura. Poi l'annuncio: è vicino, si è avvicinato, è qui il Regno di Dio. Il Regno è il mondo come Dio lo sogna. Dove la vita è guarita, dove la pace è fiorita.  Dite loro: Dio è vicino, più vicino a te di te stesso; è qui, come intenzione di bene, come guaritore della vita.  E poi la casa.  Quante volte è nominata la casa in questo brano! La casa, il luogo più vero, dove la vita può essere guarita. Il cristianesimo dev'essere significativo nel nostro quotidiano, nei giorni delle lacrime e della festa, nei figli buoni e in quelli prodighi, quando l'amore sembra lacerarsi, quando l'anziano perde il senno e la salute. Lì la Parola è conforto, forza, luce; lì scende come pane e come sale, sta come roccia la Parola di Dio, a sostenere la casa.
 
Sabato, 29 Giugno 2013 12:07

Dipendenti dal cielo

editoriale 29-06-13Tre brevi dialoghi su come seguire Gesù. Il primo personaggio che entra in scena è un generoso e dice: Ti seguirò, dovunque tu vada!  Gesù deve avere gioito per lo slancio, deve aver apprezzato l'entusiasmo giovane di quest'uomo. Eppure risponde: Pensaci. Neanche un nido, neanche una tana, solo strada, ancora strada. Non un posto dove posare il capo, se non in Dio, quotidianamente dipendente dal cielo. Così è Gesù: nudo amore che deve essere amato in nuda povertà. Eppure seguirlo è scoprire una ricchezza che mai avrei immaginato; è diventare ricchi, non di cose, di luoghi o nidi, ma di incontri, di opportunità, di luce. Gesù non ha una casa, ma ne trova cento sul suo cammino, colme di volti amici. Le parole di Gesù sono sempre, anche quelle dure, una risposta al nostro bisogno di felicità. Il secondo riceve un invito diretto: Seguimi! E questi risponde: sì. Solo permettimi di andare prima a seppellire mio padre. La richiesta più legittima che si possa pensare, dovere di figlio, compito di umanità. Gesù replica con parole tra le più dure del vangelo: Lascia che i morti seppelliscano i morti! Parole che dicono: è possibile essere dei morti dentro, vivere una vita spenta, una religiosità oscura, tenebrosa, intrisa di paure. Parole dure che sottintendono però: segui me, io ti darò il segreto della vita autentica! Il Vangelo è sempre un inno alla vita, scoperta di bellezza, incremento di umanità. Infine il terzo dialogo: Ti seguirò, Signore, ma prima lascia che mi congedi da quelli di casa. Una richiesta delicata e naturale. È così duro il cammino senza amici e senza affetti! Tutto si gioca attorno a una parola-simbolo: «prima». La cosa da fare prima, indica la priorità del cuore, quello che sta in cima ai tuoi pensieri, il tuo Dio o il tuo idolo. La risposta di Gesù: Non voltarti indietro, non guardare a ciò che ti mancherà, ma a ciò che ti viene donato. Non guardare alle difficoltà, ma all'orizzonte che si apre. Non alla nostalgia, ma alla strada e ai grandi campi del mondo. La fede spalanca orizzonti più grandi. Chi si volta indietro non è adatto al Regno. Ma allora chi è adatto? Chi non si è mai voltato indietro? Non Pietro, non Giacomo e gli altri. Non ce l'hanno fatta i Dodici, come posso pensare di farcela io? Ma Gesù non cerca eroi incrollabili per il suo regno, ma uomini e donne autentici che sappiano sceglierlo ogni giorno di nuovo, che sappiano rispondere «sì», ogni volta, come Pietro, all'unica domanda: mi vuoi bene?
 
Sabato, 22 Giugno 2013 08:59

Una risposta mai finita

editoriale 21-06-13Le folle chi dicono chi io sia? La risposta è bella e sbagliata. Dicono che sei un profeta: una creatura di fuoco e di luce, voce di Dio e suo respiro.

La seconda domanda arriva diretta, esplicita: Ma voi chi dite che io sia? Preceduta da un «ma», come se i Dodici appartenessero ad un'altra logica. Scrive Cristina Campo: ci sono due mondi / noi siamo dell'altro.

La terza domanda, sottintesa, è diretta a me: ma tu chi dici che io sia? Gesù non chiede una risposta astratta: «chi è Dio», o «chi sono io»; mette in questione ciascuno di noi: tu, con il tuo cuore, la tua fatica, il tuo peccato e la tua gioia, «Chi sono io per te?» Non è la definizione di Cristo che è in gioco, ma quanto di lui vive nella tua esistenza. Allora chiudere tutti i libri e aprire la vita. Gesù ci educa alla fede attraverso domande, perché niente è ovvio, né Dio né l'uomo, né il bene né il male. Non servono studi, letture, catechismi, ma fame di pane e di assoluto. Ciascuno, che ha Dio nel sangue, deve dare la sua risposta.

Ed è una risposta infinita, mai finita. Cristo non è ciò che dico di lui, ma ciò che vivo di lui; non è le mie parole ma la mia passione. La verità è ciò che arde. «Il Tuo nome brucia su tutte le labbra: Tu ardi» canta Efrem Siro. Se Cristo non è io non sono. Gesù stesso offre l'inizio della risposta: il Figlio dell'uomo deve soffrire molto, venire ucciso e poi risorgere. Ecco chi è: un Crocifisso amore, dove non c'è inganno. Che inganno può nascondere uno che morirà di dolore e di amore per te? Disarmato amore che non è mai entrato nei palazzi dei potenti se non da prigioniero, che non ha assoldato guardie, che i nemici non li teme, li ama. Amore vincente. Pasqua è la prova che Dio procura vita a chi produce amore.

Amore indissolubile, da cui «nulla mai ci separerà» (Rm 8,38). Nulla mai: due parole assolute, perfette, totali. Niente fra le cose, nessuno fra i giorni. Se qualcuno vuol venire dietro a me, prenda la sua croce e mi segua. Non è un invito alla rassegnazione, non occorreva Gesù per questo. La Croce è invece la sintesi della sua storia: scegli per te una vita che sia il riassunto della mia vita. Prendi su di te la tua porzione d'amore, altrimenti non vivi. Accetta la porzione di croce che ogni passione porta con sé, altrimenti non ami.

Non un invito a patire di più, ma a far fiorire di più la zolla del cuore, a conquistare la sua infinita passione per Dio e per l'uomo, per tutto ciò che vive sotto il sole, e oltre il grande arco del sole.
 
Sabato, 08 Giugno 2013 21:29

Parole di vita

252Una donna, una bara, un corteo. Sono gli ingredienti di base del racconto di Nain che mette in scena la normalità della tragedia in cui si recita il dolore più grande del mondo. Quel buco nero che inghiotte la vita di una madre, di un padre privati di ciò che è più importante della loro stessa vita. Quel freddo improvviso e spaventoso che ti stringe la gola e sai che d'ora in poi niente sarà più come prima.

Quella donna era vedova, aveva solo quel figlio, che per lei era tutto. Due vite precipitate dentro una sola bara. Quante storie così anche oggi, quante famiglie dove la morte è di casa. Perché questo accanirsi, questa dismisura del male su spalle fragili? Il Vangelo non dà risposte, mostra solo Gesù che piange insieme alla donna, e sono due madri che piangono, sono due vedove. Gesù non sfiora il dolore, penetra dentro il suo abisso insieme a lei.

 Entra in città da forestiero e si rivela prossimo: chi è il prossimo? Gli avevano chiesto. Chi si avvicina al dolore altrui, se lo carica sulle spalle, cerca di consolarlo, alleviarlo, guarirlo se possibile. Il Vangelo dice che Gesù fu preso da grande compassione per lei. La prima risposta del Signore è di provare dolore per il dolore della donna. Vede il pianto e si commuove, non prosegue ma si ferma, e dice dolcemente: donna, non piangere. Ma non si accontenta di asciugare lacrime. Gesù consola liberando. Si avvicina a una persona che, forse, in cuor suo sta maledicendo Dio: «Perché a me, perché a me? Cosa ho fatto?»

Nessun segnale ci dice che quella donna fosse credente più fervida di altri. Nessuno. Ciò che fa breccia nel cuore di Gesù, il Signore amante della vita, è il suo dolore. Quella donna non prega, ma Dio ascolta il suo gemito, la supplica universale e senza parole di chi non sa più pregare o non ha fede, e si fa vicino, vicino come una madre al suo bambino. Si accosta alla bara, la tocca, parla: Ragazzo dico a te, alzati. Levati, alzati in piedi, sorgi, il verbo usato per la risurrezione. E lo restituì alla madre, restituisce il ragazzo all'abbraccio, all'amore, agli affetti che soli ci rendono vivi, alle relazioni d'amore nelle quali soltanto troviamo la vita.

E tutti glorificavano Dio dicendo: è sorto un profeta grande! Gesù profetizza Dio, il Dio della compassione, che cammina per tutte le Nain del mondo, che si avvicina a chi piange, ne ascolta il gemito. Che piange con noi quando il dolore sembra sfondare il cuore. E ci convoca a operare «miracoli», non quello di trasformare una bara in una culla, come lui a Nain, ma il miracolo di stare accanto a chi soffre, lasciandosi ferire da ogni gemito, dal divino sentimento della compassione.
 
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Sabato, 01 Giugno 2013 21:38

La moltiplicazione del cuore

251Mandali via, è sera ormai e siamo in un luogo deserto. Gli apostoli hanno a cuore la gente, ma solo in parte, è come se dicessero: lascia che ognuno si risolva i suoi problemi da solo. Gesù non li ascolta, lui non ha mai mandato via nessuno, vuole fare di quel deserto, di ogni nostro deserto, una casa dove si condividono pane e sogni.

 Per i discepoli Gesù aveva finito il suo lavoro: aveva predicato, aveva nutrito la loro anima, era sufficiente. Per Gesù no. Lui non riusciva ad amare l'anima e a non amare i corpi: «parlava alle folle del Regno di Dio e guariva quanti avevano bisogno di cure». In tutta la Bibbia l'uomo non «ha» un corpo, «è» un'animacorpo senza separazioni.

 Il Vangelo trabocca di miracoli compiuti sui corpi di uomini, donne, bambini. I corpi guariti diventano come il laboratorio del Regno, il collaudo di un mondo nuovo, risanato, liberato, respirante. Diventato casa: «fateli sedere in gruppi», metteteli in relazione tra loro, che facciano casa. Il miracolo della condivisione dei pani e dei pesci il Vangelo non parla di moltiplicazione - inizia con una richiesta illogica di Gesù ai suoi: Date loro voi stessi da mangiare. Ma gli apostoli non sono in grado, hanno soltanto cinque pani, un pane ogni mille persone. La sorpresa di quella sera è che poco pane condiviso con gli altri è sufficiente, che la fine della fame non sta nel mangiare a sazietà, da solo, il tuo pane, ma nello spartire con gli altri il poco che hai, il bicchiere d'acqua fresca, olio e vino sulle ferite, un po' di tempo e un po' di cuore. Noi siamo ricchi solo di ciò che abbiamo donato alla fame d'altri.

 Gesù avanza questa pretesa irragionevole e profetica (voi date da mangiare) per dire a noi, alla Chiesa tutta di seguire la voce della profezia, non quella della ragione; di imparare a ragionare con il cuore, il cuore sognatore di chi condivide anche ciò che non ha.

 Dona, allora, anche il tempo che non hai. Non conta la quantità ma l'intensità. E vedrai che il tempo e il cuore donati si moltiplicheranno. Vedrai che torneranno a te ore più liete, giorni più sereni, battiti danzanti del cuore. Tutti mangiarono a sazietà. Quel «tutti» è importante. Sono bambini, donne, uomini. Sono santi e peccatori, sinceri o bugiardi, donne di Samaria con cinque mariti e altrettanti divorzi, nessuno escluso.

 Così Dio immagina la sua Chiesa: capace di insegnare, guarire, saziare, accogliere senza escludere nessuno, capace come gli apostoli di accettare la sfida di mettere in comune tutto quello che ha. Capace di operare miracoli, che non consistono nella moltiplicazione di beni materiali, ma nella prodigiosa e creativa moltiplicazione del cuore.
 
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