
Curia Generale dell'Ordine
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Matteo 20, 1-16 – La Malattia dell’Invidia
Il mondo è una famiglia dei figli e figlie di Dio, abbiamo unica origine in Dio Padre dove siamo chiamati a riconoscere la nostra fratellanza.
Allora perché trattiamo i nostri fratelli e i nostri vicini come "sconosciuti"? Nella famiglia chiamiamo un fratello Giuseppe un sognatore, sulla strada lo vediamo come uno straniero, nel posto di lavoro egli è un intruso, quindi deve essere sempre lasciato dietro, egli è rozzi e dovrebbe sempre sottomettersi perché egli appartiene al livello basso. Lo spirito di non-fratellanza è la radice di ogni guerra, gli occhi che vedono solo gli stranieri e li chiamano altri "non-me", sono la sorgente delle invidie e gelosie.
La fraternità è lo spirto di amore e di solidarietà, essa dice che l'altro è una parte di me, grida per il bene comune. La fraternità non è egocentrica, non lotta per un fine egoistico, ma dice che il benessere di mio fratello è il mio perché siamo unica cosa, abbiamo un'origine, una paternità e maternità in una famiglia di Dio Padre.
Il Vangelo di Matteo ci porta la parabola di Cristo sugli operai della vigna dove il proprietario di questa vigna ha considerato tutti i suoi lavoratori come fratelli. All’alba del giorno, questo proprietario è partito alla ricerca di quelli che non hanno nulla da portare a casa per il pane quotidiano, aveva gli occhi di fraternità per il benessere comune, per lui la cosa più importante era dare a tutti il senso di appartenenza, il senso di unità, e il senso di fratellanza, questo era il motivo per cui ha radunato tutti nella sua vigna in diverse ore del giorno.
«La sera, il padrone della vigna disse al suo fattore, "Chiama i lavoratori e dai loro la paga, cominciando dagli ultimi fino ai primi"». Il padrone ha condiviso il suo bene con loro nello spirito di fratellanza, egli è stato generoso con la ricchezza che ha guadagnato con il suo sudore. Purtroppo il primo gruppo dei lavoratori chiamato nella vigna non aveva lo spirito di fratellanza, secondo questi, hanno meritato un trattamento speciale perché erano i primi ad essere chiamati, erano i primi in quella vigna-famiglia, essi sono i primi pionieri della vigna o dell'istituto, quindi tutti gli entrati dopo di loro dovranno essere posizionati al secondo grado di appartenenza e non dovranno ricevere lo stesso trattamento con loro.
Il proprietario e fondatore della vigna mai ha lamentato della sua generosità, egli voleva che la sua famiglia fosse un luogo di lavoro o un istituto dove tutti fossero fratelli e sorelle, dove amore e comprensione regneranno, una comunità dove il tempo di arrivo non è un criterio di superiorità. Il padrone aveva desiderato di vedere una comunità dove le differenze sociali non servino nel determinare la dignità e la classifica di un fratello, il padrone aveva voluto una famiglia unita dove nessuno poteva essere lasciato dietro, egli non aveva mai l’intenzione di raccogliere nella sua vigna i gruppi in conflitto, perché egli non ha mai voluto fondare i partiti politici ma una famiglia.
Il primo gruppo dei lavoratori era d’accordo con il padrone della vigna sulla remunerazione del loro lavoro, sia la posizione che onere che gli aspettano, però hanno continuato a brontolare perché gli altri lavoratori della seconda ora erano trattati ugualmente anziché di essere soppressi. Ingiustizia!! Ingiustizia!!! esclamavano questi primi lavoratori, il padrone della vigna avrebbe dovuto retrocedere gli altri lavoratori che erano arrivati dopo, non hanno meritato la stessa posizione e lo stesso pagamento con noi, e non li potranno mai meritare, sono stranieri, non sono il nostro, invece sono un “altro da noi”, non ci appartengono.
La giustizia agli occhi di ‘non-fratellanza’ significa la sofferenza e l'umiliazione di un fratello, la giustizia nella mentalità di ‘non-fraternità’ significa avere tutti sotto il suoi piedi, significa essere il comandante dove gli altri sono i soggetti. Per i primi lavoratori, la fraternità significa discrepanza, un fratello è colui che sta sotto il loro comando e controllo, un fratello è un soggetto da sopprimere e non dovrebbe lamentarsi.
Non so proprio dove tu vivi la tua vita quotidiana, non so a quale famiglia appartieni tu, se nella tua famiglia naturale o in una famiglia religiosa, non so in quale gruppo ti trovi, se nel gruppo dei primi della tua famiglia, nel gruppo di coloro che si sentono parenti del fondatore della tua famiglia religiosa o istituzione, o nel gruppo di colore che sono al margine della tua Comunità di qualunque genere, non lo so se tu sei il fondatore della tua famiglia, ma quello che sono convinto è che abbiamo le stesse missioni e destinazione, so che siamo figli e quindi fratelli, io so che abbiamo gli stessi diritti e la stessa responsabilità verso la costruzione della nostra famiglia, siamo chiamati a lavorare per il bene comune, nessun fratello è un intruso, un fratello non è un estraneo, nessun fratello merita un trattamento speciale. Se il proprietario di questa vigna della nostra famiglia non ha maltrattato i suoi fratelli-lavoratori, noi come possiamo permettere una cosa di genere? Nessun membro della famiglia di Dio è meno importante, lo stato di ognuno come "figlio" di "dio" gli merita la posizione più alta che si può pensare, altri criteri di superiorità sono secondari e non ci devono dividere. Le nostre dignità ed uguaglianza stano nella nostra figliolanza, siamo veri figli nel Figlio.
La giustizia senza l’amore e la compassione è una mera legalità, ma noi non siamo sotto le leggi della guerra e dell’odio, ma sotto la grazia. Cristo è morto per noi perché possiamo essere liberi, Egli è venuto a raccoglierci insieme in una famiglia dove le pecore possono vivere in pace con i lupi, dove la legge di superiorità basata sulla mentalità pagana delle differenze sociali e razziali è annientata.
Ciascuno deve domandarsi della sua appartenenza e cerca di accogliere quella verità interiora che solo lui possa riconoscere. Nonostante i nostri rancori e la nostra lamentazione, rimane esclusivamente il compito del padrone della vigna di pagare tutti come vuole lui. Fratelli miei, il nostro brontolare non può cambiare la volontà di Dio, e non può condizionare la sua generosità. Cari miei, mentre continuiamo nella nostra invidia, nel nostro brontolare, il nostro Padre celeste continua a benedire i suoi figli. Il destino può essere ritardato ma mai negato, il Dio della fraternità non è un Dio parziale, non guarda coloro o l’appartenenza sociale, guai a chi combatte contro il disegno di Dio. Dio ci ama come siamo, amiamo gli uni e gli altri, apprezziamo i nostri fratelli perché Dio è amore.
P. Kenneth Ani
Siamo tutti pellegrini e dobbiamo continuare i nostro cammino
Il contenuto del messaggio angelico è un vero e proprio «evangelo», una lieta notizia. La Parola che irrompe nel silenzio e accende la gioia, rivela la straordinaria benevolenza che Dio ha verso Maria. Le icone d’oriente e di occidente ripropongono la scena evangelica fondamentale: l’Angelo entra nella casa di Maria la quale è intenta nell’ascolto della Parola, libro aperto delle Scritture su di un leggio. Un cartiglio tra l’Angelo e Maria propone le parole del saluto. Si tratta di una sintesi meravigliosa fatta di parola-immagine che esprime con l’arte il dimorare visibile del Verbo. D’altro canto Maria è spesso rappresentata nella quotidianità del lavoro domestico. Intenta alla filatura, come la donna saggia descritta dalla tradizione sapienziale d’Israele (Pr 31,19). La Vergine di Nazareth, in definitiva, è colei che tesse il nuovo dialogo con Dio e concepisce la Parola. Con un saluto Dio «entra», (non appare) nella vita di Maria e nella nostra. Un saluto carico di parole antiche (Lv 23,20; Gdc 6,12; Is 29,19; Gl 2,21; Sof 3,14; Zc 2,14; 9,9) ma nuove, perché Dio che parla fa nuova ogni cosa. La gioia e la presenza del Signore sono i termini del saluto ed annunziano in modo inconfondibile l’avvento del Messia. Lo sposo incontra la sua sposa è gioisce nel vederla (Is 62,5), la chiama con un nome nuovo non classificabile fra le dinastie umane. Ella «è pura grazia», oggetto della benevolenza dell’Altissimo. Ora, la gratuità e la generosità di Dio si sono realizzate in Cristo (Lc 2,52) che Maria preannuncia e riceve. La singolare presenza di Dio: «il Signore è con te», investe Maria di una missione per la quale è segno di salvezza per il suo popolo «figlia di Sion». E non solo, per la novità inaugurata, Maria è il «segno» atteso che compie l’amore gratuito di Dio per tutti i popoli ed è primizia della umanità nuova. Le parole dell’Angelo preparano la grande rivelazione: «non temere». Non si tratta di avere paura di Dio, ma di accogliere la piccolezza e il limite di fronte alla grandezza dell’Onnipotente. La Bibbia riporta questa espressione ogni qualvolta la presenza del Signore fa’ breccia in mezzo agli uomini ( Gen 15,1; Gdc 6,23; Is 41,13; Ger 30,10; Dn 10,12; Sof 3,16; Zc 9,9; Mt 1,20; Mc 6,50; Lc 1,13; 5,10; Gv 12,15; Ap 1,17). La grande rivelazione è il cuore dell’evangelo a Maria. Gli eventi del «concepire», «partorire» e «chiamare per nome», legano insieme funzioni materne e paterne che Maria compie, perché «ha trovato grazia presso Dio»: (Gen 6,8; Es 33,16; Pro 12,2). L’ inaccessibile, l’ innominabile, si assoggetta alle leggi della natura umana e si lascia chiamare per nome (Gesù: «Dio salva»); ecco perché la grandezza del nascituro e le qualifiche che riceve dall’Angelo, richiamano le relazione salvifiche e le promesse che Dio ha stabilito con il suo popolo. Quelle parole accendono la memoria di Maria che comprende di essere scelta quale madre del Messia atteso, compimento delle antiche profezie (2 Sam 7,14). Il riferimento al trono di Davide il re-pastore, permette di chiarire il timore e la grandezza che albergano nel cuore di Maria. Altezza (Lc 1,35) e piccolezza (Lc 1,48) s’incontrano, Dio si fa uomo e l’uomo diventa Dio.
Il cuore dell’uomo: una zolla arida dissetata dalla Parola, irrigata dalla grazia che proviene dall’alto, coronata dall’abbondanza dei frutti. Chi è il discepolo? Colui che è capace di dare la vita. Come la zolla di terreno che si apre, accoglie e genera in sé la vita. Ma senza il seminatore che esce a seminare, la zolla rimane zolla e il seme rimane tale e non può porta frutto. Grazie Signore, perché ancora oggi esci per seminare la tua parola, annunzio di frutti maturi e di buon pane che sfama la nostra povertà. Di chi racconta la parabola? Non è certo di un contadino inesperto, che sparge il seme per caso. Il vangelo odierno racconta di una fiducia che è posta nel piccolo seme, germoglio di vita e nella libertà del terreno preparato per accogliere. Quante volte l’indisposizione del discepolo, ha fermato il miracolo di Dio. L’ostinazione del cuore umano non ha permesso che l’altro cresca e porti frutto. Signore, riconosciamo nella tua tenacia a voler seminare anche dove non c’è possibilità, l’inesauribile fedeltà del tuo amore per noi. Riconosciamo che la forza non è in noi, ma nella semente che proviene da te, dalla tua mano sicura. Il contadino è ricordato solo all’inizio della parabola, la sua iniziativa da origine al racconto, poi scompare e al centro della scena sono i quattro tipi di terreno dove cade il seme: la strada, il terreno sassoso, le spine, la terra buona. Con probabilità il racconto parabolico allude all’opera evangelizzatrice della Chiesa, la quale com’è accaduto a Gesù, non si scoraggia nel raccogliere disinteresse, rifiuto e oppressione. Al triplice infruttuoso tentativo, corrisponde il triplice sovrabbondante rendimento. L’opera di Gesù porta frutto ieri e oggi dove il terreno è favorevole e dove orecchi, occhi e cuore sono disposti ad accogliere il dono della Parola. Che tipo di terreno siamo? La Parola ascoltata è soffocata dagli affanni e dalle contraddizioni della vita? La nostra testimonianza si ripiega su di noi o lascia spazio alla potenza di Dio che opera in chi lo accoglie? Perché le illusioni del mondo e l’ignoranza della Scrittura non scuotono il torpore e l’indifferenza umana? Gesù parla in parabole perché la logica del Regno è difficile da accettare. E’ una questione di fiducia e di risposta fedele a chi c’interpella. La terra, il seme, il frutto, ci fanno solidali con la creazione che geme e soffre. L’uomo e il creato gemono e attendono, per la novità che proviene da Dio. La Bibbia e la creazione sono i due libri scritti da Dio, ecco perché spesso troviamo nelle Scritture riferimenti alla natura e agli elementi naturali, vie privilegiate che accolgono l’uomo nella nuova creazione inaugurata con la resurrezione di Gesù.
La quarta Domenica di Quaresima è conosciuta come “Laetare (Rallegratevi) Domenica”, esprimendo la gioia della Chiesa in attesa della risurrezione di nostro Signore. Le letture di oggi ci ricordano che è Dio che ci dà una visione corretta nel corpo, così come nell'anima e ci insegnano che dovremmo essere costantemente in guardia contro la cecità spirituale. La prima lettura, tratta dal primo libro di Samuele, descrivendo l'unzione di Davide come secondo re d'Israele, illustra come ciechi siamo nei nostri giudizi e quanto abbiamo bisogno dell'aiuto di Dio. Nella seconda lettura, San Paolo ricorda agli Efesini della loro nuova responsabilità come figli della luce per vivere come figli della luce, producendo ogni tipo di bontà e giustizia e verità. Presentare il miracolo del dono di Gesù di vista a un uomo cieco nato, Vangelo di oggi ci insegna la necessità di aprire gli occhi della mente per fede, e ci avverte che coloro che assumono che vedono la verità sono spesso ciechi, mentre coloro che riconoscono la loro cecità sono date visione chiara. In questo episodio, la persona più improbabile, vale a dire il mendicante cieco dalla nascita, riceve la luce della fede in Gesù, mentre i farisei, legge-istruiti religione orientata rimangono spiritualmente ciechi. Per vivere da cristiano è quello di vedere, di avere una visione chiara su Dio, su noi stessi e sugli altri. Le nostre preghiere e sacrifici quaresimali dovrebbero servire a guarire la nostra cecità spirituale in modo che possiamo guardare gli altri, vedere loro come figli di Dio e amarli come i nostri fratelli e sorelle salvati dalla morte e risurrezione di Gesù.
Il mondo ha bisogno di un richiamo forte al valore della quaresima; tre sono le realtà che dominano il nostro cammino quaresimale:
Cari fratelli e sorelle,
La parola del Signore che ci invitava, domenica scorsa, a perseverare nella preghiera - Dio ascolterà coloro che perseverano nella loro preghiera - risuona ancora alle nostre orecchie mentre il testo evangelico di oggi completa l’insegnamento sulla preghiera: bisogna certamente pregare, e pregare con insistenza. Ma questo non basta, bisogna pregare sempre di più. E il primo ornamento della preghiera è la qualità dell’umiltà: essere convinti della propria povertà, della propria imperfezione e indegnità. Dio, come ci ricorda la lettura del Siracide, ascolta la preghiera del povero, soprattutto del povero di spirito, cioè di colui che sa e si dichiara senza qualità, come il pubblicano della parabola.
Incontrando il corteo funebre, Gesù, che si trova sul suo tragitto, è commosso dal pianto inconsolabile della madre.
Onoriamo e adoriamo oggi il “Corpo del Signore”, spezzato e donato per la salvezza di tutti gli uomini, fatto cibo per sostenere la nostra “vita nello Spirito”. Gesù ha moltiplicato i pani e i pesci per nutrire la folla che lo seguiva: il cibo fisico agisce in me anche quando non ci penso, anche quando dormo si trasforma in carne, sangue, energie vitali. Il cibo spirituale è diverso: è efficace se io collaboro con Cristo, che vuole trasformare la mia vita nella sua.
Il giorno di Pentecoste Gesù comunica se stesso ai discepoli per mezzo dell’effusione dello Spirito Santo. La piena rivelazione di Dio come Padre, Figlio e Spirito Santo si ha nel mistero della Pasqua, quando Gesù dona la vita per amore dei suoi discepoli. Bisognava che questi sperimentassero innanzitutto il supremo dono dell’amore compiuto da Gesù per comprendere la realtà di Dio Amore che dona tutto se stesso. Egli, oltre a perdonare i peccati e a riconciliare l’uomo con sé, lo chiama ad una comunione piena di vita (“In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre e voi in me ed io in voi”: Gv 14,20); gli rivela la ricchezza dei suoi doni e della speranza della gloria futura (Ef 1,17-20); li chiama ad una vita di santità e di donazione nell’amore al prossimo (“Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amati”: Gv 15,12). Anch’essi sull’esempio del loro maestro sono chiamati a dare la vita per i fratelli (“Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”: Gv 15,13). Per ora essi sono incapaci di accogliere e accettare tali realtà. Lo Spirito Santo farà entrare nel cuore degli apostoli l’amore di Cristo crocifisso e risuscitato per loro, li consacrerà a lui in una vita di santità e d’amore, li voterà alla salvezza delle anime. Non saranno più essi a vivere, ma Gesù in loro (cf. Gal 2,20). Ogni cristiano nel corso del suo cammino è chiamato ad arrendersi all’amore e allo Spirito di Cristo crocifisso e risorto. Oggi è il giorno della decisione.
Oggi è il giorno della Pentecoste, il giorno della discesa dello Spirito Santo. Cinquanta giorni dopo la Pasqua, gli Apostoli erano riuniti nel Cenacolo con Maria, la Madre di Gesù, e improvvisamente discese su di loro, sotto forma di lingue di fuoco, lo Spirito Santo, la terza Persona della Santissima Trinità. Gesù aveva promesso ai suoi Apostoli che non li avrebbe lasciati orfani e aveva detto loro: «Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre» (Gv 14,16). Questa promessa si è realizzata proprio nel giorno della Pentecoste.
La morte di Gesù ha costituito uno scandalo per i suoi discepoli, perché essi si erano plasmati un Cristo senza croce. Ma Gesù di Nazaret è il Messia; e non esiste altro Messia che il crocifisso e il glorificato. È attraverso la catechesi del Signore, risuscitato, che i discepoli capiscono che il Messia doveva soffrire e risuscitare dai morti. Era il disegno di Dio manifestato nelle Scritture. Il senso della croce e dell’accompagnamento dei discepoli sulla croce, si scontra con l’intelligenza, con il cuore e con i progetti dell’uomo.
Dio ci ama a tal punto da voler rimanere sempre con noi. Egli non si disinteressa delle sue creature. Con la sua grazia, Egli entra nell'anima come il sole entra attraverso il vetro e illumina l'interno di una stanza. Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo prendono dimora nel nostro cuore e noi, pertanto, diveniamo tempio della Santissima Trinità. Non c'è più distanza tra noi e Dio. Dio è in cielo e in terra, e anche nel nostro cuore, se accettiamo che Egli abiti dentro di noi, se noi lo amiamo. Gesù ce lo dice chiaramente nel Vangelo di oggi: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14,23).