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Visualizza articoli per tag: luce sul mistero

Sabato, 28 Luglio 2012 09:11

Dio non chiede, si dona per primo

206Il lago si è riempito di barche e di speranze, l’incontro germoglia di domande. Rabbi, quando sei venuto qua? Ti stiamo cercando, perché ti nascondi? E Gesù svela la sua distanza: molto di più di un lago c’è di mezzo tra me e voi... Incompreso, è sempre sull’altra riva. Ma non si arrende. Lui che ha sfamato la folla, ora ne diventa l’affamatore, vuole svegliare un’altra fame, per un pane diverso. Cosa dobbiamo fare per avere questo pane? La risposta è sorprendente: credere, aderire. Sono io che riapro le vie del cielo, che do senso, profondità, forza e canto alla vita. Credere, ma con fede pura: Voi mi cercate solo perché avete mangiato! Gesù interroga la mia fede illusoria: io amo Dio o i favori di Dio? Abramo, padre dei credenti, ama Dio più delle promesse di Dio; i profeti credono nella Parola di Dio più ancora che nella sua realizzazione. E io? Amo i doni che attendo o amo il Donatore? La folla pone la terza domanda: quale segno (ancora non hanno capito!) fai perché pos­siamo crederti? Mosè ci ha dato la manna, ma tu che cosa ci dai? Gesù risponde cambiando i tempi, dal passato al presente, dal Sinai al lago di Galilea, e gli attori: non Mosè ha dato, ma Dio; e quel Padre ancora dà. 'Dio dà'. Due parole semplicissime eppure chiave di volta del Vangelo. Dio non chiede, Dio dà. Dio non pretende, non esige, Dio dà. Non dà pane in cambio di potere, neppure di potere sulle anime. Dio dà vita al mondo. Dà per primo, senza niente in cambio, in perdita. Dio dà vita. A noi spetta però aprirci, accogliere, dire di sì, acconsentire, credere. Io sono il pane della vita. Pane indica tutto ciò che ci mantiene in vita. Indica amore, dignità, libertà, coraggio, pace, energia. Noi viviamo di pane e di sogni, di pane e di bellezza, di pane e di amore, entrambi quotidiani, entrambi necessari per oggi e per domani. Gesù è colui che mantiene viva questa vita: Dio è amore e riversa amore; Dio è luce e dilaga luce da lui; Dio è eterno e l’eternità si insinua nell’istante. Gesù annuncia la sua pretesa più alta: io faccio vivere! Ho saziato per un giorno la vostra fame, ma posso colmare tutta la vostra vita, tutte le profondità dell’esistenza. L’uomo nasce affamato. Ed è la sua fortuna: ha avuto in dono un cuore più largo e più profondo di tutte le creature messe insieme. E non può vivere senza mistero. Sete di cielo che non si placherà con larghe sorsate di terra. (E. Ronchi)

 
Sabato, 28 Luglio 2012 09:03

Condividere è il vero miracolo

205Il miracolo del pane è l’unico presente in tutti e quattro i Vangeli. Marco e Matteo ne riportano addirittura due redazioni. Si tratta, evidentemente, di un evento decisivo per comprendere la vicenda e il messaggio di Gesù. Il miracolo del pane racconta qualcosa di molto più grande e bello che non la semplice moltiplicazione di cinque pani e due pesci.  Più che un miracolo è un segno, fessura di mistero. Il racconto è pieno di simboli bellissimi: è ormai primavera, tempo di Pasqua; c’è il monte grande simbolo della casa di Dio; c’è molta erba che richiama i pascoli, e il Salmo del buon pastore; ci sono i numeri: cinque pani e due pesci formano il sette, simbolo della pienezza; c’è il pane d’orzo, pane di primizia perché l’orzo è il primo dei cereali che matura, primo pane nuovo; e c’è un ragazzo, neppure un uomo adulto, una primizia d’uomo. Un Vangelo pieno d’inizi, pieno di gemme che fioriscono per grazia. Modello del discepolo oggi è un ragazzo senza nome e senza volto, che dona ciò che ha per vivere, che con la sua generosità innesca la spirale della condivisione, vero miracolo. Il problema del nostro mondo non è la penuria di pane, ma la povertà di quel lievito che incalza e spinge a condividere, a diventare sacramenti di comunione. «Al mondo, il cristiano non fornisce pane, fornisce lievito» (Miguel de Unamuno). E ci sono anche i dodici canestri di pezzi avanzati, uno per ogni tribù, segno di abbondanza dalla quale nessuno è escluso; parola sulle cose: non devono andare perdute perché sono sacre, una santità è iscritta perfino nella materia, perfino nelle briciole del pane. Prese i pani, rese grazie e li distribuì: tre verbi che ci ricollegano subito a ogni Eucaristia. E mentre lo distribuiva, il pane non veniva a mancare, e mentre passava di mano in mano, restava in ogni mano. Il Vangelo neppure parla di moltiplicazione ma di distribuzione. «Credo sia più facile moltiplicare il pane, che non distribuirlo. C’è tanto di quel pane sulla terra che a condividerlo basterebbe per tutti» (David Maria Turoldo). Gesù rifiuta di essere fatto re ma non rifiuta l’acclamazione a profeta. La profezia gli si addice: è bocca di Dio e bocca dei poveri. Ma dal potere, da tutto ciò che circonda il nome di re, fugge lontano. Non il potere, dunque, ma la profezia per me cristiano, per l’intera Chiesa: essere bocca di Dio e voce dei poveri è il lievito buono che il cristiano fornisce al mondo. (E. Ronchi).
Domenica, 22 Luglio 2012 05:41

Tenerezza di madre

204C'era tanta gente che non avevano neanche il tempo di mangiare. Gesù mostra una tenerezza come di madre nei confronti dei suoi discepoli: Andiamo via, e riposatevi un po'. Lo sguardo di Gesù va a cogliere la stanchezza, gli smarrimenti, la fatica dei suoi. Per lui prima di tutto viene la persona; non i risultati ottenuti ma l'armonia, la salute profonda del cuore. E quando, sceso dalla barca vede la grande folla il suo primo sguardo si posa, come sempre nel Vangelo, sulla povertà degli uomini e non sulle loro azioni o sul loro peccato. Più di ciò che fai a lui interessa ciò che sei: non chiede ai dodici di andare a pregare, di preparare nuove missioni, solo di prendersi un po' di tempo tutto per loro, del tempo per vivere. È un gesto d'amore, di uno che vuole loro bene e li vuole felici. Scrive sant'Ambrogio: «Si vis omnia bene facere, aliquando ne feceris, se vuoi fare bene tutte le tue cose, ogni tanto smetti di farle», cioè riposati. Un sano atto di umiltà, nella consapevolezza che non siamo noi a salvare il mondo, che le nostre vite sono delicate e fragili, le energie limitate.

Gesù insegna una duplice strategia: fare le cose come se tutto dipendesse da noi, con impegno e dedizione; e poi farle come se tutto dipendesse da Dio, con leggerezza e fiducia. Fare tutto ciò che sta in te, e poi lasciar fare tutto a Dio. Un particolare: venite in disparte, con me. Stare con Gesù, per imparare da lui il cuore di Dio. Ritornare poi nella folla, portando con sé un santuario di bellezza che solo Dio può accendere. Ma qualcosa cambia i programmi: sceso dalla barca vide una grande folla ed ebbe compassione di loro. Prendiamo questa parola, bella come un miracolo, come filo conduttore: la compassione. Gesù cambia i suoi programmi, ma non quelli dei suoi amici. Rinuncia al suo riposo, non al loro. E ciò che offre alla gente è per prima cosa la compassione, il provare dolore per il dolore dell'altro; il moto del cuore che muove la mano a fare.

Stai con Gesù, lo guardi agire, e lui ti offre il primo insegnamento: «come guardare», prima ancora di come parlare; uno sguardo che abbia commozione e tenerezza, le parole e i gesti seguiranno. Quando impari il sentimento divino della compassione, il mondo si innesta nella tua anima. Se an­cora c'è chi si commuove per l'ultimo uomo, questo uomo avrà un futuro.

Gesù sa che non è il dolore che annulla in noi la speranza, non è il morire, ma l'essere senza conforto. Facciamo in modo di non privare il mondo della nostra compassione, consapevoli che «ciò che possiamo fare è solo una goccia nell'oceano, ma è questa goccia che può dare significato a tutta la nostra vita»  (E. Ronchi)
 
Sabato, 14 Luglio 2012 10:11

A due a due

203Partono i discepoli a due a due. E non ad uno ad uno. Perché, se è solo, l'uomo è portato a dubitare perfino di se stesso. La prima predicazione è senza parole, è già in questo accompagnarsi, l'uno al passo dell'altro. Partono forti di una pa­rola e di un amico: ordinò loro di non prendere nient'altro che un bastone. Solo un bastone a sorreggere il passo e un amico a sorreggere il cuore. Un bastone per appoggiarvi la stanchezza, un amico per appoggiarvi la solitudine.

E proclamarono che la gente si convertisse, ungevano con olio molti infermi e li guarivano.

Il loro messaggio è conversione: giratevi verso la lu­ce, perché la luce è già qui. Le loro mani sui malati annunciano: Dio è già qui, è vicino a te con amore, e guarisce la vita, girati verso di lui. Quello dei dodici è un viaggio dentro l'uomo più autentico, liberato da tutto il superfluo: non portate né pane né sacca né denaro, perché la nostra vita non dipende dai nostri beni, voi vivrete di fiducia: fiducia in Dio, che non farà mancare nulla, e fiducia negli uomini, che apriranno le loro case. «Bagaglio leggero impone il viaggio e cuore fiducioso. Domani non so se qualcuno aprirà la porta ma confido nel tesoro d'amore disseminato per strade e città, mani e sorrisi che aprono case e ristorano cuori...» (M. Marcolini).

I dodici, senza parole, con il loro stile di vita, contestano il mondo dell'accumulo, dell'apparire, del denaro. Proclamano: «ci sono due mondi noi siamo dell'altro» (Cristina Campo). In questo mondo altro, la forza non risiede nei grandi mezzi materiali, ma nel fuoco interiore, nel suo contagio misterioso e lucente. La povertà dei discepoli fa risaltare la potenza creativa dell'amore. Invece le cose, il denaro, i mezzi, lungo i secoli hanno spento la creatività della Chiesa. L'annunciatore deve essere infinitamente piccolo, solo così l'annuncio sarà infinitamente grande. Sono partiti a due a due, con niente. Ma i dodici avevano un fuoco. Il fuoco si propaga col fuoco. Entrati in una casa lì rima­nete. Ecco il punto di approdo: la casa, il luogo dove la vita nasce ed è più vera, abbracciata dal cerchio degli affetti che fanno vivere. E il Vangelo deve essere significativo lì, nella casa, deve par­lare e guarire nei giorni delle lacrime e in quelli della festa, quando il figlio se ne va, quando l'anziano perde il senno o la salute... Se in qualche luogo non vi ascoltassero, andatevene, al rifiuto i discepoli non oppongono risentimenti solo un po' di polvere scossa dai sandali. E non deprimetevi per una sconfitta, non abbattetevi per un rifiuto: c'è un'altra casa poco più avanti, un altro villaggio, un altro cuore. All'angolo di ogni strada germoglia l'infinito. (E. Ronchi).
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Lunedì, 09 Luglio 2012 10:26

Quotidiana profezia

202A Nazaret va in scena il conflitto perenne tra quotidiano e profezia. All'inizio parole e prodigi di Gesù stupiscono, immettono un «di più» dentro la normalità della vita. Poi l'ordinario instaura di nuovo la sua dittatura. Che un profeta sia un uomo straordinario, carismatico, ce lo aspettiamo. Ma che la profezia sia nel quotidiano, in uno che non ha cultura e titoli, le mani segnate dalla fatica, nel profeta della porta accanto, questo ci pare impossibile. A Nazaret pensano: «Il figlio di Dio non può venire in questo modo, con mani da carpentiere, con i problemi di tutti, non c'è nulla di sublime, nulla di divino. Se sceglie questi mezzi poveri non è Dio». Ma lo Spirito scende proprio nel quotidiano, fa delle case un tempio, entra dove la vita celebra la sua mite e solenne liturgia. Noi cerchiamo Dio, il pastore di costellazioni, nell'infinito dei cieli, quando invece è inginocchiato a ter­ra con le mani nel catino per lavarci i piedi. Ed era per loro motivo di scandalo. Che cosa li scan­dalizza? Scandalizza l'umanità, la prossimità. Eppure è proprio questa la buona notizia del Vangelo: che Dio si incarna dentro l'ordinarietà della vita. Gesù cresce nella bottega di un artigiano, le sue mani diventano forti a forza di stringere manici, il suo naso fiuta le colle, la resina, il sudore di chi lavora, sa riconoscere il legno al profumo e al tatto. Una intuizione luminosa di Heidewick di Anversa: «Ho capito che questa è la compiuta fierezza dell'amore: non si può amare la divinità di Cristo senza amare prima la sua umanità». Riscoprire ogni frammento, ogni fremito di umanità nel Vangelo, cercare tutte le molecole di umanità di Gesù: il suo rapporto con i bambini, con gli amici, con le donne, con il sole, con il vento, con gli uccelli, con i fiori, con il pane e con il vino. Il suo modo di avere paura, il suo modo di avere coraggio e come piangeva e come gridava, e la sua carne bambina e poi la sua carne piagata, e poi il suo amore per il profumo di nardo a Betania, la casa de­gli amici. Amare l'umanità di Gesù, perché il Vangelo rivela pro­prio questo: che il divino è rivelato dall'umano, che Dio ha il volto di un uomo. Gesù al rifiuto dei compaesani mostra il suo candore, il suo bellissimo cuore fanciullo: «Non vi poté operare nessun prodigio» scrive Marco, ma subito si corregge: «Solo impose le mani a pochi malati e li guarì». Il Dio rifiutato si fa ancora guarigione, anche di pochi, anche di uno solo. L'amante respinto continua ad amare anche pochi, anche uno solo. L'amore non è stanco: è solo stupito. Il nostro Dio non nutre rancori o stanchezze, ma la gioia impenitente di inviare sempre e solo segnali di vita attorno a sé. (E. Ronchi)

 
Domenica, 01 Luglio 2012 05:11

Alzati

201Gesù cammina verso la casa dove una bambina è morta. Cammina ed è Giairo, il padre, a dettare il ritmo; Gesù gli cammina vicino, offre un cuore perché possa appoggiarvi il suo dolore: «Non temere, soltanto continua ad aver fede». Ma come è possibile non temere quando la morte è entrata in casa mia, e si è portata via il mio sole? Secondo Gesù il contrario della paura non è il coraggio, da scovare a fatica nel fondo dell'animo, ma la fede: Tu continua ad aver fede. Anche se dubiti, anche se la tua fede non ha nulla di eroico, lascia che la sua Parola riprenda a mormorare in cuore, che il suo Nome salga alle labbra con un'ostinazione da innamorati. Aver fede: che cosa significa? La fede è un atto umanissimo, vitale, che tende alla vita e si oppone all'abbandono e alla morte. È aderire: come un bambino aderisce al petto della madre, così io aderisco al Signore, ho fiducia nella madre mia, un bambino appena svezzato è il mio cuore. Giunsero alla casa e vide trambusto e gente che piangeva. Entrato, disse loro: «Perché piangete? Non è morta questa bambina, ma dorme». Dorme, come tutti i nostri che ci hanno preceduto e che sono in attesa del risveglio. Dormono, come una parentesi tra questo sole e il sole di domani, e per Dio l'ultimo risveglio è sulla vita.  Lo deridono, allora, con quella stessa derisione con cui dicono anche a noi: tu credi nella vita dopo la morte? Ti inganni, ti sbagli, sei un illuso, non c'è niente dopo la morte. Ma la fede biblica è che Dio è Dio dei vivi e non dei morti, che le «creature del mondo sono portatrici di salvezza e in esse non c'è veleno di morte. Dio non ha creato la morte» (Sap 1,13-14). Gesù cacciati fuori tutti, prende con sé il padre e la madre, ricompone il cerchio vitale degli affetti, il cerchio dell'amore che fa vivere. Poi prende per mano la bambina. Non era lecito per la legge toccare un morto, ma Gesù profuma di libertà. E ci insegna che bisogna toccare la disperazione delle persone per poterle rialzare. La prende per mano. Chi è Gesù ? Una mano che ti prende per mano. La sua mano nella mia mano. E le disse: «Talità kum. Bambina alzati». Lui può aiutarla, sostenerla, ma è lei, è solo lei che può risollevarsi: alzati. E lei si alza e si mette a camminare. A ciascuno di noi, qualunque sia la porzione di dolore che portiamo dentro, qualunque sia la porzione di morte, il Signore ripete: Talità kum. In ognuno di noi c'è una vita che è giovane sempre: allora, risorgi, riprendi la fede, la lotta, il sogno. Su ogni creatura, su ogni fiore, su ogni uomo, su ogni donna ripete la benedizione di quelle antiche parole: Talità kum, giovane vita, dico a te, alzati, rivivi, risplendi. Tu porti salvezza. (E. Ronchi)

 
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Sabato, 23 Giugno 2012 07:00

Protagonisti dei tempi nuovi

200L’accorato annuncio che Isaia mette sulla bocca di questo anonimo servo dell’Altissimo chiama in causa un futuro di pienezza nel quale Giovanni il Battezzatore e Gesù il Nazareno si trovano a condividere la luminosa realizzazione. La liturgia, proponendolo in questa posizione di ascolto, costruisce abilmente i termini di una ambivalenza. Sono parole che dovrebbero valere per l’annuncio del Cristo. Ma risuonano in questo caso a definire gli sfumati contorni del ritratto del Precursore. Il sentiero su cui scorre la speranza con cui la fede dell’alleanza va incontro all’imminente avvento del servo del Signore, mette sulla stessa linea di continuità figure umane capaci di stare sotto la stessa luce profetica. Questo servo senza nome, chiamato fin dal grembo della madre, dalla lingua affilata come una spada, efficace come una freccia appuntita, ha tutte le caratteristiche richieste dall’attesa del Messia, ma possiede anche tutta l’energia e tutta l’autorevolezza che, a posteriori, si possono attribuire a questo nuovo Elia di nome Giovanni, chiamato dalla storia a introdurre la manifestazione del Figlio.

La sua dignità di cerniera che collega e, nello stesso tempo, separa l’economia dell’Antico Testamento da quella del Nuovo, lo assimila il più possibile alla vicenda umana del suo straordinario e definitivo successore. Anche la nascita di Giovanni precorre in qualche maniera quella di Gesù. Intanto, come nel caso del figlio di Maria rinnova la meravigliosa attitudine di un Dio abituato a confermare i segni tangibili delle sue migliori promesse attraverso la grazia di nascite impossibili, mediante il soccorso premuroso alla fragilità umana, alla sua impotenza a creare. Giovanni è uno dei tanti figli entrati in case senza speranza. In questi casi quello che conta non è l’idea di una sterilità biologica vinta dal prodigio soprannaturale. Quello che conta sta nell’invito a vedere ogni nascita come il prolungarsi del primordiale impulso della creazione. Nella catena delle generazioni il Dio dell’alleanza plasma la storia. Non gli servono fulmini, pestilenze, catastrofi. Ma solo la fede elementare nella quale ogni madre e ogni padre mettano al mondo un figlio sapendo che la vita nuova viene comunque da Dio.

Ma le storie dei due protagonisti dei tempi  nuovi sono parallele nel loro insieme. Luca gioca con abilità a preparare anche per Giovanni un’annunciazione, una gestazione consumata fra i misteri, una nascita costellata di prodigi, un’infanzia assistita dallo Spirito, insomma una biografia spirituale necessaria a portarlo più da vicino possibile al cospetto della dignità del Figlio. Davvero simili in tutto. Eppure differenti nell’essenziale. Giovanni è come Mosè. Vede la terra promessa ma non entra. Giovanni precorre il Nuovo Testamento ma rimane una figura dell’antica Legge. Ma la sua nascita è già il punto di non ritorno di un disegno della salvezza per il quale Dio non mostra pentimenti. L’Agnello è già da qualche parte. Ma anche  lo sguardo capace di riconoscerlo. (Giulio Zanchi)

 
Sabato, 16 Giugno 2012 16:21

La misura di Dio

199L’immaginazione umana, intenta a individuare segni della presenza di Dio nella storia, alza normalmente lo sguardo in cerca di qualcosa che sopravanzi l’ordinaria statura delle cose umane. Il divino - se agisce - deve, per definizione, produrre segni di manifestazione che siano inequivocabili, portentosi, paranormali, dotati di quella efficacia che non aspetta tempo a far valere le proprie regole, a imporre la propria logica, ad applicare quando è il caso - il processo della propria resa dei conti. Quando Dio arriva - pensa l'uomo, specie se religioso -, ci si accorge per forza. Non è tipo da passare inosservato. La sua non è presenza che ama dissimularsi. Entra, al contrario, nella mischia segnando perentoriamente il proprio territorio. Questa idea di una presenza divina provvista di sicura e spietata efficienza cosmica assiste da sempre le ambizioni di un certo zelo religioso. L'antica Scrittura, in effetti, per esempio at­traverso la visionarietà escatologica di Ezechiele, attribuisce sovente connotati di grandezza alle intenzioni con cui Dio annuncia il suo imminente ingresso nella storia degli umani. Esse si incarneranno certamente in una presenza dotata di inestirpabile stabilità, di definitiva solidità, di sicura ospitalità. Dio entrerà nella storia umana con la solennità di un cedro secolare, con la maestosità di un albero senza tempo, con una possenza senza confronti. Ma già in questa dichiarazione di grandezza e di sublimità erano contenuti i principi di una logica anomala capace di lasciare interdetta qualsiasi ragione del buon senso umano. Già il Dio degli eserciti, quello testimoniato da Ezechiele, faceva dipendere il propagarsi della propria potenza di crescita da un punto di germinazione minimo, elementare, invisibile. Al Dio di Ezechiele basta un rametto di cedro per mettere in moto il metabolismo del suo radicamento nella storia e, una volta impiantate le sue radici, ha la forza di ribaltare le più consolidate gerarchie delle potenze vitali del mondo. Il piccolo lo farà diventare grande. A chi si crede immenso rivelerà la sua piccolezza. L'assimilazione con cui il Figlio parla del Regno come di qualcosa di invisibile rivela definitivamente la felpata discrezione con cui il Dio dell'alleanza entra nello spazio della storia umana. Quando arriva, normalmente si confonde con la terra della vita umana. Agisce facendone lievitare la quotidiana nascosta bellezza. Essa resta invisibile allo sguardo di quelli che cercano segni di manifestazione "religiosa". Si manifesta invece nella sua smisurata potenza di ramificazione agli occhi di chi la sa cercare negli innumerevoli atti con cui gli umani preservano nella carità la grazia della fraternità reciproca. Allora si scopre che Dio è continuamente in azione. Persino all'insaputa di quelli che sono chiamati a esserne testimoni. A loro toccherebbe semplicemente avere occhi per riconoscere dove essa già scava sentieri di salvezza nella fragile vita degli umani. Magari ringraziare Dio con stupefatta meraviglia. (Giuliano Zanchi)

 
Sabato, 09 Giugno 2012 17:08

Segno dell’Alleanza

198Nella faticosa alleanza fra Dio e gli umani Gesù ha messo in mezzo il suo corpo. Per corpo si deve intendere l'intero di una vita. Identità, carne, libertà, affezioni. Tutto quanto un uomo può essere. Gesù ha sacrificato tutto se stesso per rimettere in piedi l'amicizia dell’uomo con Dio. Ha così restituito splendore inequivocabile all’esperienza del sacrificio mostrandola come la legge nascosta di ogni affezione destinata a durare. Gli umani stessi hanno imparato a specchiarsi nella sua logica. L’esistenza di tutti, difatti, trabocca di esperienze nelle quali qualcosa ha dovuto morire in qualcuno perché qualcun altro potesse vivere. La luce di questo principio irradiata nella sublimità del gesto di Gesù ha illuminato anche quei segmenti di vita in cui agli uomini e alle donne di questa terra capita di riuscire a corrispondervi. Facciamo la volontà di Dio molto più spesso di quanto noi stessi non crediamo.

La Scrittura ci aiuta a capire l’estremo abisso verso cui Gesù trascina questo sacrosanto prin­cipio di una dedizione pronta a giocarsi in tutto. Lo fa anzitutto portandoci al passato. Ri­cordandoci come l’alleanza mosaica sigilla la propria fedeltà all’Altissimo. Essa proietta sull’offerta sacrificale tutta la violenza connessa ad un’alleanza il cui vincolo non può essere infranto senza serie conseguenze. Succeda come a quei giovenchi a chiunque spezzi il patto sti­pulato di fronte a Dio. L'ombra del dio arcaico lambisce ancora questo solenne rituale di al­leanza in cui la presenza della violenza è un monito contro la trasgressione, in cui qualcosa deve andare perduto, in cui l’amicizia col divino si manifesta richiedendo la controparte delle cose migliori. In questa alleanza esiste ancora qualcosa di inquietante, un sentimento di profonda soggezione, una violenza a cui l’uomo non resta che sottomettersi.

La lettera scritta per gli ebrei ci spiega che con Gesù la violenza contenuta nell’alleanza viene disinnescata completamente. Il Figlio la prende tutta su di sé. Niente più sangue di vitelli. Semmai solo il proprio. Ha preso in carico la responsabilità di un’amicizia da ricostruire da capo mostrando che, se ci sono dei sacrifici da fare per mantenere fede all’alleanza, Dio non chiede di sacrificare qualcosa di prezioso per l’uomo, ma mette a repentaglio la vita del suo Figlio. Dio sacrifica tutto pur di averci per amici. Per questo il corpo di Gesù è segno della nuova alleanza. Con il gesto con cui prima di morire Gesù spezza il pane, cerca di spiegare il criterio della sua esistenza. Quel pane che si rompe è la sua vita dedicata completamente a riportarci in amicizia con Dio. Essa ci appare quanto mai a portata di mano perché resa ai nostri occhi affidabile dalla natura del Dio di cui il Figlio si rende manifestazione. Non abbiamo più davanti la figura torva dell’idolo che chiede per se stesso. Ma l’icona di una paternità che si lascia mangiare viva se questo serve alle possibilità di vita dei figli. Di questo è segno il corpo di Cristo. Di quell'amore che non genera se non si lascia consumare. (Giuliano Zanchi)

 
Sabato, 02 Giugno 2012 14:19

Con noi fino all’ultimo

197Nell'avventurosa epopea del Deuteronomio, tempo della seconda legge, di una legge impugnata con nuovo slancio e rinnovata consapevolezza sulle rive del fiume Giordano, si capisce questa animosa rinfrescata di memoria che il grande Mosè impone all'ascolto della sua gente. Si interroghi la storia e si veda se qualcuno può vantare un'esperienza così sba­lorditiva della presenza del divino. Israele sta buttando alle ortiche una storia che non ha precedenti. È da sempre che abbiamo a che fare con un dio strano, che non corrisponde a nessuna monolitica immagine di autosufficienza, ma che accetta di abbandonarla per attraversare la storia degli umani con disinvolto senso della dedizione. Il nostro è un Dio che ama uscire da sé.

Nella storia umana del Figlio ha trasformato questa sua predisposizione nel piano definitivo di una salvezza nella quale avvolgere ogni essere umano di questa terra. Dal primo all’ultimo. L'apparizione del Figlio ha significato il rinnovato accendersi dell'antica meraviglia per trovarsi di fronte a un Dio imprevedibile. Il nostro Dio ha l'istinto della comunione scritto dentro di sé. La sua propensione ad essere perennemente in moto, a generare la relazione, a evadere il pericolo della fusione narcisistica, la sua attitudine a generare mondi e ricapitolare storie, risiede già nei legami di cui la vita divina è costantemente alimentata. Dalle labbra di Gesù la testimonianza evangelica ne ha tratto pallide immagini antropomorfe e fragili nomi terreni: Padre Figlio Spirito. Questo dinamismo interiore della vita divina Gesù ci ha insegnato a guardarlo come una sorta di impulso primordiale ed eterno di tutto quanto nella vita si esprime secondo la forma del desiderio. Il nostro Dio, che essendo Padre ha da sempre un Figlio, non ha interesse, come nel sovrano dispotismo di quel sacro che ci è ancora tanto suadente, ad avere ai suoi piedi uno stuolo di intorpiditi e tremuli schiavetti, ma fa di tutto per prenderci per figli. Il Dio di Gesù fa tutto con questo Spirito.

Nella scena di Ascensione, con cui Matteo conclude la sua testimonianza, il compito storico assegnato agli amici comanda precisamente di allargare i cerchi concentrici di questa universale scelta di adozione. La meraviglia che Mosè voleva ridestare nei cuori di un piccolo popolo è destinata a cogliere di sorpresa gli stessi confini della terra. Compito del resto da assumere stando debitamente a distanza dagli equivoci. Non è un invito all’annessione delle coscienze, al reclutamento forzato, alla propaganda di massa, a tutte quelle strategie di incorporazione che smarriscono se non feriscono il sacrosanto senso della differenza, della libertà, della fraternità. Si tratta invece per i discepoli del Figlio di essere immagine e riflesso dei legami divini, casa ospitale per chi si sente amico, spassionato esercizio di libertà per chi si crede nemico, tenace segno della grazia per chiunque cerchi con tutto il cuore qualcosa di vero. In questo equilibristico esercizio di libertà lui non ci lascia soli. È con noi fino all'ultimo respiro di questo mondo. (Giuliano Zanchi)
 
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