Cookie Consent by Popupsmart Website

stemma e nome

Visualizza articoli per tag: luce sul mistero

Mercoledì, 23 Maggio 2012 21:12

La forza della memoria

196L’intenso metabolismo della vita pasquale sta tutto nel necessario sforzo, mentale e affettivo, di rileggere completamente la vicenda umana e spirituale di Gesù, con quel ta­gliente sguardo a ritroso con cui siamo capaci di affondare la lama della memoria nella spessa materia dei nostri ricordi, ma guardando tutto alla luce radente degli eventi definitivi, quella matassa inestricabile di violenza e di riscatto che la Pasqua ha posto a compimento di ogni cosa. Da quel punto di vista, ogni cosa appare illuminata di un senso un attimo prima semplicemente invisibile. Allora lo storia umana di Gesù acquisisce i contorni della vita del Figlio, si comprende il senso di parole rimaste a lungo enigmatiche, si scopre lo profondità profetica di gesti apparentemente pretenziosi, ci si riconcilia soprattutto con quel criterio della dedizione assoluta che fino all'ultimo era stato creduto incompatibile con la presenza di Dio. Dall'alto dell'esperienza pasquale ogni tassello va al suo posto e alla vita di Gesù è resa giustizia.  Una forza di illuminazione superiore, a cui l'evangelista Giovanni dà un nome e un profilo specifico, entra nella storia della salvezza come avvocato istruttore di questo atto di testimonianza che la memoria consente di dare in favore della vicenda umana di Gesù. Giovanni lo fa dire a Gesù stesso prima che tutte le cose accadano. Ma deve essere per lui un'esperienza già così prepotentemente in atto da guidare la sua memoria di evangelista. La presenza dello Spirito è una di quelle cose di cui deve aver tanto sentito parlare ma di cui solo adesso comprende pienamente la realtà. Può dunque metterla sulla bocca di Gesù con la certezza di farlo parlare con parole veramente sue. Nell'evocare la presenza dello Spirito, Gesù rinnova un atteggiamento di coerenza di cui è intrisa la sua attenta e intensa convivenza con gli umani. Nemmeno coi suoi discepoli Gesù ha mai ristretto l'orizzonte della relazione allo scambio puramente duale: ha sempre rimandato il suo rapporto con gli amici a quello terzo con il Padre. Di questo l'evangelo di Giovanni documenta con precisione l'assoluto rigore. Gesù riflette la gloria del Padre, parla di quello che sente dal Padre, compie quello che vede operare dal Padre. Custodisce la vita degli amici/figli per portarli al cospetto del Padre. Nessun narcisismo del sacro nella libera dedizione del Figlio.

Sicché ora, nel momento della glorificazione, della purificazione della memoria, della rilet­tura teologica della storia umana del Figlio, non è Gesù a tirare da se stesso i fili dello sve­lamento della verità, quasi dovesse enumerare con puntiglio gli elementi di una rivincita per­sonale, ma chiama in causa un nuovo Terzo, da cui ricevere testimonianza, a cui lasciare il compito di rendere ragione all'autenticità del Figlio, a metterne in mostra da giudice impar­ziale l'assoluta veridicità.  A sua volta anche lo Spirito non agirà per protagonismo personale. Parlerà di cose attinte dalla gloriosa presenza del Figlio. Si comporterà come la luce. Fa vedere tutto restando sempre invisibile. (Giuliano Zanchi)
Venerdì, 18 Maggio 2012 20:32

Cercare altrove

195Questo libro delle cronache evangelicamente aggiornato che è il racconto di Atti degli apostoli esordisce, a beneficio di ogni Teofilo interessato alle ragioni del Regno, con una sorta di compendio del grande evento pasquale, con tanto di richiamo alla passione, rinverdendo la meraviglia delle sue apparizioni, arricchendo di ulteriori dettagli il resoconto di un appartato segmento di storia destinato a diventarne il nucleo salvifico. In quei quaranta giorni, rinnovazione rituale delle quarantine che nella Scrittura hanno ospitato le grandi svolte spirituali della rivelazione, dal diluvio alle tentazioni, il Cristo sigilla nel cibo e nella parola i segni distintivi della sua presenza viva e indefettibile. Nel sacro vincolo della tavola, quotidiano santuario dei più elementari patti umani, egli consegna istruzioni vitali a lasciar evolvere un manipolo di ometti frastornati nel cemento di una fraternità destinata a irraggiare ovunque.

Con la prima chiede loro di frenare definitivamente l'impulso centrifugo dei discepoli, ansiosi di allontanarsi dal teatro degli eventi che hanno mortificato ogni loro aspettativa, perché invece restino a Gerusalemme, epicentro di tutte le promesse, luogo di destinazione di ogni atto nel quale l'alleanza è destinata a compiersi. È di più che semplicemente non fuggire da un luogo impegnativo. Significa soprattutto impiantarsi per sempre e senza pentimenti nel perimetro spirituale delle antiche attese, delle promesse messianiche, delle speranze proiettate da secoli sopra il fascinoso panorama di Sion. Stare a Gerusalemme significa sigillare definitivamente la vicenda di Gesù alla grande promessa del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe.

La seconda istruzione è per non evadere lo spazio della storia. Nemmeno al discepolo chiamato a testimoniare le ragioni del Regno spetta conoscere i tempi del suo definitivo compimento. Quella a cui chiama il Signore Gesù non è una fede che possa vivere scavalcando i compiti di una giusta costruzione della storia. Secondo quanto lo Spirito stesso concederà in forza e comprensione. Due istruzioni che sono un programma ecclesiale. Confessare Gesù compimento delle Scritture. Abitare la terra accendendo pazientemente segni del Regno. Rinsaldare la propria fede nella promessa e in­carnarla nella tenace costruzione della storia rende capaci di affrontare anche il necessario tempo dell'assenza. Il Figlio rientra nel perimetro della vita divina con la fierezza dell’umano che ha il proprio destino scritto nella carne. Luca descrive questo secondo congedo come la scoperta del sepolcro vuoto. Di nuovo un'assenza e uomini in bianco, figure della fede pasquale, che invitano a non fissarsi su di essa, ma a cercare altrove. Esistono assenze che scavano semplicemente il vuoto. Ne esistono altre che predispongono uno spazio. Quella del Figlio è una di queste. Dove il suo corpo ha fatto largo alla promessa, ora i discepoli possono dimorare custodendone l'accesso. Il secondo corpo umano di Gesù è quello dei suoi discepoli raccolti nella sua memoria. (Giuliano Zanchi) 
Domenica, 13 Maggio 2012 09:32

Comunione non è confusione

194Nell'imbarazzo con cui Pietro si ritrae dall’esasperata devozione di un uomo che gli rende omaggio, misuriamo il grado di secolare pulizia etica che la rivelazione evangelica ha giustamente introdotto nelle forme della relazione religiosa. Nemmeno chi è stato a fianco della sua incarnazione pensa più di presentarsi come intermediario semidivinizzato della grazia di Dio. Da che il Dio degli eserciti è stato uomo in Gesù, tutti lo possono essere senza sentirsene diminuiti. Spogliatosi per essere uguale a noi, egli scoraggia in tutti i modi l'ambizione a voler essere simili a lui. Che è peraltro il ritornello dell'antica tentazione (sarete simili a lui). Non esiste dunque più ragione che un uomo si debba prostrare davanti a un altro uomo. Lo Spirito, del resto, volteggia sul mondo degli umani con la sovrana libertà di avvolgerli tutti senza differenze. Dio difatti non fa diffe­renze. Nemmeno le cancella.

Nella logica degli affetti divini le identità si accendono dell'incandescenza con cui vengono unite. Il legame non sopprime le differenze. Dà loro il senso di esistere. Il principio con cui la rivelazione di Dio in Gesù si traduce in un nuovo definitivo esperimento di convivenza ruota attorno a una forma di unione che non è uniformità. Siamo uguali ma non equivalenti. Siamo prossimi ma non intercambiabili. Viviamo nella comunione ma non ci perdiamo nella confusione.

Per mantenere viva questa tensione, in cui le identità si fondano sul vincolo, occorre l'equilibrio di forze specifico del paradosso evangelico. Esso consiste alla sua radice nel comandare l'amore. Paradosso inciso nell'enigma umano del desiderio. Se, difatti, esiste qualcosa che, per definizione, non può prodursi sotto l'orizzonte dell'obbligazione, è l'affidamento amoroso. Esso, al contrario, nasce per principio come frutto della libertà. La nostra cultura ha poi contribuito a trasformare questo paradosso in alternativa. Nel dialetto libertario, con cui nessuno di noi può ormai fare a meno di esprimersi, la sfera del comandamento è per definizione contraddittoria rispetto all'esperienza dell'amore. Dove si impone l'uno, non esiste l'altra. Dove regna il vincolo della regola, non respira la libertà del sentimento. Ma spezzare in due i poli di questa corrente alternata ha immiserito la potenza dell'enigma umano che essi devono tenere vivo.

Gesù tiene saldamente uniti i due termini. L'amore è il senso della libertà. Ma proprio per questo esso ha i suoi perimetri di necessità. Il termine che ricompone eticamente il paradosso di un amore comandato, tenendolo in feconda sospensione è quello della responsabilità. La vita di ognuno sta nelle mani della cura dell'altro. Al di fuori di questo crocifiggente esercizio di fraternità, esiste spazio solo per identità perdute nella solitudine. Amarsi gli uni gli altri: semplice da morire, elementare fino all'impossibile. Se non fosse l'unilaterale anticipazione del Figlio. La sua incondizionata dedizione resta come matrice di ogni amore tentato nella sincerità. Amarsi, semplicemente. Come lui con noi. (Giuliano Zanchi)
 
Sabato, 28 Aprile 2012 16:46

Il bel Pastore

192Curioso questo dovere di Pietro di rendicontare al cospetto delle alte sfere della tradizione il beneficio recato a un uomo infermo. Curioso e istruttivo. La fede dell'alleanza ha perfettamente conosciuto la cura divina riservata all'uomo fragile. I suoi interpreti non sempre. La loro affezione per l'alterità sovrana del Dio degli eserciti li ha spesso resi unilaterali difensori di quel principio a scapito della viscerale passione dell'Altissimo per l'umanità offesa. Quale orizzonte religioso può trovare di che interrogarsi sul ristabilimento dell'integrità di un essere umano se non uno rimasto sordo al compiuto svelamento in Gesù di quel Dio che non dorme di notte se un uomo non è al sicuro? Tutta la straziante novità di questa rivelazione la si tocca con mano nell'incredibile contenzioso nel quale Pietro, ormai abitato dalla grazia della Pasqua, deve spiegare le circostanze di un episodio di prodigiosa rinascita umana. Davvero i tempi sono nuovi. Si sente dallo scricchiolare di quelli vecchi. Pietro dunque, nel cuore della sua requisitoria, confessa il nome di Gesù, non senza ricordare apertamente l'opera del suo misconoscimento e gli atti del suo rifiuto. Nonostante questo, avviene tutto grazie a lui. Come una pietra che tiene su tutto l'edificio. Ma la sua natura di fon­damento non proviene da ragioni prestazionistiche da sistema sanitario. Il mondo nuovo di cui Cristo è la chiave di volta si fonda piuttosto sull'inaudita intimità a cui egli stesso ha saputo riportare le trepide speranze di Dio e le confuse aspettative dell'uomo. Un nuovo incontro.

La letteratura giovannea è la più creativa nel verbalizzare questo perno affettivo della rivelazione. Essa esprime anzitutto la costernata meraviglia umana nel sentirsi attratta per sempre dall'orbita filiale della vita divina. Ci sarebbe bastato essere servi trattati bene. Dio ci ha presi per figli. Ma non per finta. Proprio davvero. Realmente. Ma quanto tempo abbiamo perso a crogiolarci nella paura del divino?  L'evangelista Giovanni libera la grazia delle sue metafore agresti facendone il vettore della natura intima e confidente della fede a cui il Dio di Gesù convoca al suo cospetto il precario nomadismo della vita umana. Sono sempre in grande numero quelli che si presentano a indicare la strada al disorientato cammino dell'uomo. Molti sono mercanti d'anime interessati all'affare. Avuta la controparte, scompaiono nel nulla. Tornano magari a illudere con nuovi prodotti per la felicità. Pronti a dileguarsi di nuovo. Solo il bel pastore giovanneo, sotto le cui sembianze si confida un Gesù in procinto di morire, offre la garanzia di una custodia a oltranza e di una intimità a prova di voce. La sua incondizionata dedizione al gregge umano ha il proprio fondamento in quel sentimento di appartenenza agli affetti divini che dà ragione di ogni spassionata consegna di sé. Tutto quanto è perso per amore conosce misteriose vie di conservazione. È l'intesa tacita e solida di ogni madre col suo bambino. Basta il suono della voce per farlo dormire in pace. (Giuliano Zanchi)

 
Etichettato sotto
Sabato, 21 Aprile 2012 10:35

Memoria di intimità

191Eccoci di fronte alla stabile e consolidata struttura narrativa di un racconto di apparizione. Essa però ci gratifica questa volta di una variante estremamente istruttiva. Come al solito, difatti, qui si parla di discepoli confusi dall'apparizione di un fantasma dalla natura indecifrabile. Ma tra coloro che ri­mangono interdetti dalla vertigine di questa strana visitazione ci sono anche quei due che tornano reduci dall'esperienza di Emmaus di cui hanno consegnato ai presenti un animato e sollecito resoconto. Ma sembrano tornati improvvisamente ciechi. La loro fervida testimonianza inservibile. Appena Gesù si ripresenta, torna a far paura col più classico effetto reattivo di ogni storia di fantasmi. Sembra letteratura gotica della più genuina. Il semplice fenomeno paranormale alimenta inquietudine, non favorisce la comprensione. Stava del resto scritto fra le righe di una di quelle storielle con cui Gesù declina la tradizione sapienziale in annuncio del Regno: se uno non ascolta Mosè e i Profeti, non viene persuaso nemmeno se gli appare un morto. L'effetto soprannaturale, dunque, non è determinante agli effetti del riconoscimento che è richiesto dalla fede. Anzi. Esso si presenta come l'elemento di cui rimuovere l'invadenza. Ogni fede che vuole fondarsi sul paranormale si costringe ogni volta a partire da capo. Resta prigioniera dell'immediatezza emotiva del prodigio. Resta letteralmente senza parole. Al contrario, la pedagogia della fede a cui si dedica il Risorto richiede una nuova affezionata attenzione al senso delle parole. Senza di quelle, lo spazio affettivo della fede resta un conato di bisogni indistinti. Come una maestra che tiene la mano al bambino che impara a scrivere, il Risorto svela con premurosa pazienza l'evidente corrispondenza delle antiche speranze con le vicende che lo riguardano. Tutta la Scrittura non parlava che di lui. Ma l'immaginazione umana, legata al volto arcaico di un dio dalla sovranità dispotica e dal volto indecifrabile, era un organo troppo debole per una simile rivelazione. L'apparizione del Risorto non ha dunque scadenti obiettivi dimostrativi. Ma profonde ragioni di rieducazione sentimentale. Di cui il gesto di mangiare è più di una semplice dimostrazione di consistenza corporea. È memoria di intimità ancora del tutto intatte. Rianimare il processo della comprensione richiede il lento battito cardiaco del tempo. Non si dà nella folgore della sorpresa. La sua efficacia è destinata a compiersi attraverso lo strumento simbolico della ripetizione. Notiamo. La struttura narrativa di questi episodi è già intrisa dello schema liturgico della comunione eucaristica. Difficile districare in questi racconti le due matrici. Le apparizioni sono raccontate già come eucaristie. Ma le eucaristie nascono sull'impronta delle apparizioni. La parola e il pane sono segni decisivi per tenere la fede lontano dai fantasmi trat­tenendola entro il perimetro del rigore corporeo della rivelazione. (Giuliano Zanchi)
Domenica, 08 Aprile 2012 12:21

La tomba è vuota e tu sei con noi!

189Le donne non si arrendono neanche morte. Tengono in piedi legami come fanno certi acrobati con una pila di piatti in cima a un'asticella. La loro è spesso una fedeltà fatta di niente. Un'ostinazione nella quale sono consapevoli di giocarsi tutto. Le loro lacrime sono il più delle volte pietre scagliate contro il destino. Sanno persino trattare la morte con naturale scaltrezza, come con un odioso mer­cante con cui si viene a patti, strappandole all'ultimo momento una clausola, un'eccezione, una deroga. Tengono in vita legami, affetti, relazioni, custodendone la vitalità con l'inerzia di una fedeltà unilaterale. Le donne non perdono mai veramente nessuno. Semplicemente sono più sensibili al dilatarsi della distanza riempiendone lo spazio con la loro smisurata forza di volontà.

Così Maria Maddalena, che va al sepolcro di Gesù, si accontenterebbe del cadavere. Dell'imperturbabile stabilità della tomba. Il resto sarebbe capace di mettercelo Lei. Ma quel mattino, per fortuna, la pietra che chiude il sepolcro è ribaltata. Non fosse così, la sua vita rimarrebbe nell'atrofia di un'ossessione feticistica. Come molta religione mortuaria intrisa di un attaccamento autistico alle cose morte dei morti. Resta il fatto inusitato che nel vangelo si deve alle donne il primo incredulo e sgomento annuncio della tomba trovata vuota.

 

Affidare a delle donne il privilegio di una tale testimonianza significa, a quel tempo e in quella cultura, consegnare al ridicolo una storia già di per sé inverosimile. Deve essere proprio andata così.

Il testo poi ci pennella una scena quasi icastica in cui due discepoli, che hanno il compito di rappresentare due differenti temperamenti spirituali, forse già due atmosfere ecclesiali ben definite, gareggiano inconsapevolmente nel raggiungere la scena dell'enigma. Entrambi vedono quello che c'è da vedere. Nient'altro. La narrazione evangelica mantiene l'onestà critica - elementare risvolto della corrispondenza storica - di raccontare solo quello che è stato veduto. Qualcuno ha visto un sepolcro vuoto e delle bende piegate. Sembra niente, ma è tutto quello che serve. Lo stretto necessario per ac­cendere in un gruppo di discepoli rassegnati la brace della memoria, la luce di una nuova comprensione, la ricomposizione a ritroso del senso di eventi fin lì equivocati, la capacità interiore di comprendere, finalmente, il senso delle Scritture.

 

La vera esperienza del Risorto sarà, per questi poveri uomini travolti dall'inimmaginabile, la sua stessa sistematica apparizione. Sarà la sua stessa iniziativa a riaccendere la lampadina delle loro menti. Il punto decisivo sarà rivedere l'assioma secondo il quale il sacrificio della vita attraverso una morte così infame sia incompatibile con la figura del Figlio di Dio e con la logica del Regno. Il Figlio, ora si capisce, doveva morire perché risplendesse inequivocabilmente la disinteressata passione di Dio per l'uomo. In quel momento tutti avrebbero dovuto sgranare gli occhi e indicare nell'estasi il volto umano di Dio. Non è mai troppo tardi. (Giuliano Zanchi) 
Sabato, 31 Marzo 2012 09:18

Spogliò se stesso

188La semplice elementare lirica di Filippesi avvolge nell'ovatta di una poesia sublime il dramma di base della rivelazione cristiana. All'essere umano non viene per nulla difficile nutrire il presentimento della trascendenza e restare impigliato nell'attrazione per il sacro. Nemmeno nel diffuso furore della nostra era secolare. Anzi. Più il gelo immanente della procedura avvolge la vita dell'uomo postmoderno, più le pulsioni dei suoi sensi resi orfani cercano avide l'appoggio di divinazioni persino selvagge.

L'uomo è sempre disposto a credere a tutto. Ma nessun istinto umano per il sacro, come nessun itinerario speculativo, avrebbero potuto formulare l'immaginazione di un divino paragonabile allo sconcertante e commovente abbassamento del Dio di Gesù fin sul pianerottolo dell'ultima dimora umana. I teologi direbbero che si tratta di qualcosa che è "indeducibile". Eppure, proprio quello che non era possibile dedurre sta al centro dell'amicizia annunciata nella rivelazione del Figlio. L'immagine troppo umana di un divino impegnato a tempo pieno nella salvaguardia della propria sovrana autosufficienza viene smentita dall'umanissima icona del Figlio spassionatamente disinteressato alle proprie prerogative divine. Al contrario, determinato a realizzarne il senso ultimo, l'eterna ragione di fondo, il remoto motivo teologale, nella forma di un'obbedienza destinata a com­piersi in forma del tutto incondizionata. Della divina paternità il Figlio mette in mostra precisamente il tratto disinteressato della chiamata all'alleanza. Dio non ha nulla da tenere per sé (come efficacemente continua a insinuare la voce del Mentitore) e non ha bisogno di imporre alla sua passione per l'uomo il peso della propria dismisura. Dio, al contrario, si fa a misura umana senza sentirsi diminuito.

Di questa strabiliante umiltà, motore mobilissimo dell'eterna processione trinitaria del divino, il Figlio ha scelto di essere conferma e testimonianza indefettibile. Il suo modo di morire si rende necessario (una volta reso inevitabile), perché qualsiasi tentativo di mettere in salvo la propria sopravvivenza significherebbe l'immediato spegnersi dell'autentica immagine del divino di cui è testimonianza. Dovesse trovare il modo di sopravvivere, Gesù resterebbe il rappresentante del solito Dio potente.

Per questo ogni evangelico resoconto della passione, nella sua laconica e misurata franchezza, contiene un senso palpabile di inevitabilità. Gesù doveva morire. Non per far riapparire sul teatro della storia l'ennesima rappresentazione del divino assetato di sacrifici, ma l'unilateralità di un Dio che si lascia morire pur di non forzare il libero riconoscimento dell'uomo. Anche Dio si sente umiliato se deve obbligare qualcuno ad amarlo. Piuttosto si lascia uccidere. Quando Gesù entra a Gerusalemme sopra un asino, fra inconsapevoli festeggiamenti già intrisi di ipocrisia, sta già sotto il giogo di questa inaudita e splendente libertà divina.
(Giuliano Zanchi) 

 
Domenica, 25 Marzo 2012 07:07

L’invisibile sulla croce

187Geremia è culturalmente diventato la figura emblematica della lamentazione. La sua predicazione contiene un elemento di resa dalla consistenza quasi irrinunciabile. La cronaca umana sembra semplicemente impotente di fronte a ogni invito alla conversione . Ma da questo realistico senso di vanità morale Geremia prende lo slancio per un’immaginazione proiettata oltre gli stretti orizzonti del provvisorio. I suoi lamenti difatti vanno costruendo con paziente progressione quel genere di sapienza che trasforma la profezia  in annuncio apocalittico. Il suo contenuto parla della pervicacia di un Dio che getta il sasso della promessa oltre i blandi limiti della storia preconizzando un futuro nel quale un nuovo intervento creativo renderà l’uomo abile a una fedeltà degna dell’alleanza . In sintesi , un cuore nuovo, un rinnovato slancio della libertà, un nuovo respiro della volontà. Nel forgiare la materia di questo sogno  la profezia biblica sposta inesorabilmente la barra del tempo direttamente verso i confini dell’escatologia. Saranno tempi in cui le cose appariranno compiute. Ma per compiere le quali Dio smette fin d’ora di limitare la sua viva presenza al contenitore santo della legge o alla voce fedele del profeta. Dio verrà di persona. In carne ed ossa. Si prenderà sulle spalle tutti gli oneri di una amicizia cui non è mai stato disposto a rinunciare. Ne sarà il garante pressoché unilaterale. Con la stessa determinazione con cui le madri, quando serve, sanno supplire col proprio invincibile supporto di fedeltà alle fisiologiche immaturità dei figli. Ecco, quando succederà, la storia sarà come finita. Questo salto oltre l’immediatezza della cronaca per inerpicarsi al di là delle dimensioni della storia spiega anche l’apparente indifferenza di Gesù che a un gruppo di greci smaniosi di incontrarlo, annunciatigli attraverso una commovente catena di passaparola, oppone la disarmante freddezza di un discorso che avrebbe tutta l’aria di essere liquidatorio. Questi ingenui stranieri sono ancora all’inseguimento dell’aura del tutto contingente del profeta famoso. Vogliono vedere l’oggetto vivente di una celebrità dai contorni tanto intensi quanto del tutto vaghi. Cercano la conferma diretta di un prodigio umano portato sul filo della meraviglia dalla frenesia dei racconti. Ma non è più tempo, nemmeno per la testimonianza del Regno, della consolazione immediata, dell’accudimento primario, della semplice accondiscendenza, giacché il momento si avvicina in cui del Figlio si deve vedere l’inaudito. A chi dunque vuol vedere ancora la sua umana figura di profeta strabiliante Gesù da appuntamento altrove, lasciando con premura tutta divina, le istruzioni per l’uso di un discernimento del quale quasi tutti rimarranno vittime. Il Figlio difatti sarà più interessante sulla croce. Benché più invisibile. Per vedere qualcosa di attraente e di umano in quel caso bisognerà possedere dei criteri di osservazione ben assimilati. Per esempio, che tutto quello che non muore resta morto. Ma per chi li avrà metabolizzati lo spettacolo sarà unico. (Giuliano Zanchi)

 
Etichettato sotto
Sabato, 17 Marzo 2012 09:08

Luminoso riscatto

186Come in ogni forma di relazione, anche nel perimetro dell'alleanza ci deve essere spazio per il giudizio. Gli effetti del disimpegno prima o poi vengono alla luce. La malagrazia del tradimento finisce per mettere in mostra le inevitabili ferite che non ha avuto scrupolo di incidere. Sicché il giudizio, prima ancora che essere pronunciato da un'istanza sovrana, prende forma nei fatti.

L'antica Scrittura ha difatti sistematicamente cercato nella cronaca gli evidenti segni di una giustizia che l'Altissimo stesso lascia amministrare ai concreti processi della vita. La sfrontata disinvoltura con cui il popolo dell’alleanza ne calpesta la memoria consegnandosi giulivamente all'attrattiva di nuove ed esotiche divinità, rimane per propria diretta responsabilità semplicemente esposta alle prove di forza con cui le nazioni si confrontano nello scacchiere della politica. Un popolo che smarrisce la propria statura morale è pronto per affollare una schiera di umani predisposti al servilismo. Sulla base di questo principio, la Scrittura elabora una sorta di teologia della storia nella quale il paziente e pervicace Dio dell'alleanza alla fine non può che consegnare alle conseguenze della storia l'immaturità di un popolo incapace di starsene alla larga dalle facili tentazioni di una globalizzazione dell'edonismo. A nulla serve in questi casi moltiplicare le occasioni di ammonimento. Non c'è dvvero peggior sordo di chi non vuol sentire. Ostinatamente deciso a essere come tutti, questo piccolo popolo dell'alleanza finisce davvero nel comune tritacarne della politica internazionale.

 

Assiri o caldei che siano, i forti della storia fanno presto a scoprire il prezzo del rischio assunto da questo delirio di emancipazione. Ma l'umiliazione più grande - e anche più imprevedibile - sta nell'istante luminoso del riscatto. Dio lascia che sia la storia a punire. Dio lascia che sia ancora la storia a riabilitare. Deve arrivare il capo della superpotenza rivale, il solito pescecane che mangia il pesce più piccolo, a rinnovare l'evento della liberazione e a ricostruire il tempio dell'Altissimo. Non c'è nessuno più laico del Dio dell'alleanza (qualcuno vada a dirlo in televisione). La volontà di Dio non prende necessariamente forma fra le mani presuntuose di chi pensa di appartenergli.

 

Anche il Figlio irrompe a suo modo come imprevedibile sorgente di riscatto. Gesù deve a lungo mostrane le ragioni a uno stranito Nicodemo. È necessaria una paziente e confidente perizia, che Giovanni trasforma in letteratura della coscienza, per confessare il disinteresse di Dio per una logica della condanna e, nello stesso tempo, l'inevitabilità del giudizio. L’ umanità incosciente è sempre sul punto di rimanere imbrigliata con le proprie mani nelle meccaniche ritorsioni della vita. Ad essa Dio offre il Figlio, grande insegna luminosa destinata a rendere chiare e visibili le differenze che salvano. Nella sorte del Figlio, benché non condannati, siamo già tutti giudicati. Per non essere lasciati al brutale e cieco giudizio della storia. (Giuliano Zanchi).


 
Etichettato sotto
Domenica, 11 Marzo 2012 06:39

Il mercato del sacro

185Esiste anche una fede di cui Gesù non si fida. Si tratta di quell'avida attrazione per il segno paranormale con cui gli umani amano identificare la dimostrazione di forza del divino. Quando pare loro di intravederne delle manifestazioni, subito si precipitano nel suo perimetro convinti di avere in qualche modo parte dei suoi effetti. La chiave di volta di questa disinvolta febbre per il prodigio è l'equazione di principio fra il divino e il potere. Dio deve essere potente. L'equazione del resto è transitiva. Il potere è divino. Umano o trascendente che sia. L'uomo di potere difatti sa emanare un'aura di attrazione entro i confini della quale molti si precipitano a rifugiarsi. Scambiato per un dio, l'uomo di potere può gettare alla folla spiccioli della propria sovrana autosufficienza potendo contare sull'adorante e riconoscente compiacimento dei deboli. Dove scarseggia la dignità hanno più successo i padrini dei padri. Il cerchio sacro della loro influenza genera una forma di fede che ha l'oscura intensità della magia.


Di questa fede Gesù diffida profondamente. Soprattutto quando sono i suoi segni a generarla. Non solo nel caso dei semplici che lo ammirano, ma anche sotto la pressione di dotti giudei, protettori della tradizione e custodi della Scrittura, che lo mettono alla prova chiedendogli un segno a legittimazione di un gesto di lesa maestà alle devozioni del tempio. Quale soprannaturale prova di autorevolezza aggiungere a soccorso di una ribellione dello spirito che dovrebbe apparire sacrosanta anche se compiuta dall’ultimo credente nascosto in mezzo alla folla, poiché fondato dai secoli dei secoli nel cuore dell'alleanza e sigillato senza pentimenti nella lettera della Scrittura? Quale prova di autorità invocare per un atto di autentica e necessaria indignazione che dovrebbe essere precisamente compito di questi dotti teologi trasformati in inquisitori da santuario? Nessuna. Perché qualsiasi segno di autolegittimazione confermerebbe alla distorsione spirituale dei dotti come dei semplici l’idea che appunto al divino si deve dare credito ogni volta che sciorina gli incantesimi del suo potere.

 
Sicché Gesù lancia l'enigmatica sfida di un segno destinato a passare per il crogiolo dell’impotenza. Distruggete questo tempio e lo tiro su nuovo in tre giorni. Rebus gettato tra le gambe degli interlocutori. Occhio strizzato al lettore che, alla luce della pasqua, sa perfettamente risolvere l'enigma. Si vedrà bene l'origine dell'iraconda allergia del rabbino Gesù per questa irreligiosa parata di devozione cash. Ma lo si potrà vedere solo scoprendo che la vera casa di Dio nella storia è la carne umana del Figlio.


Non esiste nessun sacro potere presso il cui alone sottrarsi alle prove della vita. Solo fedeltà sempiterna di un Dio che sta per primo, punto per punto, sotto la legge della responsabilità, della cura, del discernimento. Legge che fonda l'amicizia con Dio e salva il patto fra gli uomini, il cui primo comandamento chiede di non sbagliarsi mai: non scambiare Dio per un qualsiasi padreterno di questa terra. Il Dio di Gesù ha più eleganza. (Giuliano Zanchi)


 
Etichettato sotto
© 2024 Ordine della Madre di Dio. All Rights Reserved. Powered by VICIS