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Sabato, 04 Luglio 2015 20:22

Gesù, troppo umano

345Il brano evangelico di questa domenica ci interroga soprattutto sul nostro atteggiamento abituale, quotidiano: atteggiamento che in profondità non spera nulla e dunque non attende nessuno; e soprattutto, atteggiamento che non riesce a immaginare che dal quotidiano, dall’altro che ci è familiare, da colui che conosciamo possa scaturire per noi una parola veramente di Dio. Non abbiamo molta fiducia nell’altro, in particolare se lo conosciamo da vicino, mentre siamo sempre pronti a credere allo “straordinario”, a qualcuno che si imponga. Siamo talmente poco muniti di fede-fiducia, che impediamo che avvengano miracoli perché, anche se questi avvengono, non li vediamo, non li riconosciamo, e dunque questi restano eventi inutili, miracoli che non ottengono il loro fine.

Questo, in profondità, il messaggio del vangelo odierno, una pagina che riguarda la nostra fede, la nostra disponibilità a credere. Gesù era nato da una famiglia ordinaria: un padre artigiano e una madre casalinga come tutte le donne del tempo. La sua era una famiglia con fratelli e sorelle, cioè parenti, cugini, una famiglia numerosa e legata da forti vincoli di sangue, come accadeva in oriente. Da piccolo, come ogni ragazzo ebreo, Gesù ha aiutato il padre nei lavori, ha giocato con Giacomo, Ioses, Giuda, Simone e con le sue sorelle, ha condotto una vita molto quotidiana, senza che nulla lasciasse trasparire la sua vocazione e la sua singolarità. Poi a un certo punto, non sappiamo quando, sono iniziati per lui quelli che Robert Aron ha chiamato “gli anni oscuri di Gesù”, presso le rive del Giordano e del mar Morto, dove vivevano gruppi e comunità di credenti giudei in attesa del giorno di Dio, uomini dediti alla lettura delle sante Scritture e alla preghiera. Gesù a una certa età li raggiunse e qui divenne discepolo di Giovanni il Battista (il quale lo definì “colui che viene dietro a me”: cf. Mc 1,7). Poi sentì come vocazione da Dio quella di essere un predicatore itinerante, iniziando il suo ministero dalla Galilea, la terra in cui era stato allevato (cf. Mc 1,14-15).

E quando ormai Gesù ha un gruppo di discepoli che vivono con lui (cf. Mc 3,13-19), nella sua predicazione di villaggio in villaggio, in giorno di sabato entra nella sinagoga di Nazaret, “la sua patria”. Torna dopo molto tempo trascorso altrove, e gli abitanti del villaggio lo ricordano come “figlio di” e “fratello di”. Al momento della lettura del brano della Torah (parashah) e dei profeti (haftarah), Gesù, essendo un uomo ebreo, come ogni altro ebreo di più di dodici anni, dopo essere diventato bar mitzwah, figlio del comandamento, ha la possibilità di salire sull’ambone e di prendere la parola. Non è un sacerdote, non è un rabbi ufficialmente riconosciuto – “ordinato”, diremmo noi – ma esercita questo diritto di leggere le Scritture e tenere l’omelia.

A differenza di Luca (cf. Lc 4,16-30), Marco non specifica né i testi biblici proclamati né il contenuto del commento di Gesù, ma mette in evidenza la reazione dell’assemblea liturgica che lo ha ascoltato. D’altronde la sua fama lo ha preceduto: torna a Nazaret come un “maestro” dai tratti profetici, capace di operare guarigioni, azioni miracolose con le sue mani. La prima reazione è di stupore e ammirazione: è un bravo predicatore, ha autorevolezza, la sua parola colpisce e appare ricca di sapienza. Ma di fronte a tale incontestabile verità ecco emergere un pensiero: lo conosciamo come uno di noi, la sua famiglia è qui, i suoi fratelli e le sue sorelle hanno nomi precisi. Dunque che cosa pretende, che cosa vuole? Perché dovrebbe essere “altro”? Sì, Gesù era un uomo come gli altri, si presentava senza tratti straordinari, appariva fragile come ogni essere umano. Così quotidiano, così dimesso, senza qualcosa che nelle sue vesti proclamasse la sua gloria e la sua funzione, senza un “cerimoniale” fatto di persone che lo accompagnassero e lo rendessero solenne nell’apparire tra gli altri.

No, troppo umano! Ma se non c’è in lui nulla di “straordinario”, come poterlo accogliere? Con ogni probabilità, Gesù non aveva neppure una parola seducente, non si atteggiava in modo da essere ammirato o venerato. Era troppo umano, e per questo “si scandalizzavano di lui” (eskandalízonto en autô), cioè sentivano proprio in quello che vedevano, in quella sua umanità così quotidiana, un ostacolo a mettere fiducia in lui e nella sua parola. Dunque quel ritorno al villaggio natale è stato un fallimento. Gesù lo comprende e osa proclamarlo ad alta voce: “Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua”. Sì, questo è avvenuto: proprio chi pretendeva di conoscerlo, in quanto concittadino, vicino o parente, giunge a disprezzarlo. Marco aveva già annotato che all’inizio della sua predicazione i suoi familiari erano venuti per prenderlo e portarlo via, dicendo che egli era pazzo, fuori di sé (éxo: cf. Mc 3,21); ma ora è tutta la gente a emettere questo giudizio negativo su di lui: il suo atteggiamento è troppo umano, poco sacrale, poco rituale!

Gesù allora si mette a curare i malati là presenti, e ne guarisce anche qualcuno, ma è come se non avesse operato miracoli, perché il miracolo avviene quando il testimone passa dall’incredulità alla fede. Qui invece sono restati tutti increduli, per questo Marco sentenzia: “non poteva compiere nessun miracolo” (dýnamis). Gesù è ridotto all’impotenza, non può agire con potenza, non può neanche fare il bene, perché non c’è fede in lui da parte dei presenti. Che torto aveva Gesù? Rispetto a quei “suoi”, camminava troppo avanti agli altri, teneva un passo troppo veloce, vedeva troppo lontano, aveva laparrhesía, il coraggio di dire ciò che gli altri non dicevano, osava pensare ciò che gli altri non pensavano, e tutto questo restando umano, troppo umano.

Ecco ciò che attende chiunque abbia ricevuto un dono da Dio, anche solo una briciola di profezia: diventa insopportabile, e comunque è meglio non fargli fiducia… Gesù “si stupisce della loro mancanza di fede (apistía)”, e tuttavia non demorde: continua la sua missione andando altrove, sempre predicando e operando il bene. Ma senza ricevere fede-fiducia, Gesù non riesce né a convertire né a guarire.

Commento al Vangelo di Enzo Bianchi 
Martedì, 30 Giugno 2015 18:49

Roma: Licenza in Teologia Pastorale

P. EnyiVenerdì 26 giugno, presso la Facoltà di Teologia, Pontificio Istituto Pastorale Redemptor Hominis della  Pontificia Università Lateranense, ha conseguito la Licenza in Teologia Pastorale ha conseguito la licenza specializzata in Teologia P. Enyi Francis OMD con la tesi. Il Tema della Tesi è “Tutto Faccio per il Vangelo” una strategia di annuncio per la nuova Evangelizzazione.

29 giugno 2015
Pubblicato in 2015
Sabato, 27 Giugno 2015 07:04

La Giornata Vocazionale Chiamati a credere

IIl sabato 20 di giugno i Giovanni dell’ Ordine in Cile hanno vissuto la II Giornata Vocazionale che la Pastorale Giovanile e Vocazionale Leonardina ha svolto a Rancagua. Tutto si e svolto nella nostra parrocchia (Nostra Signora del Carmine) e nel Monastero delle Monache Adoratrici.

La giornata ed stata marcata per i momento comuni di condividere ed orazioni. Anche per i temi che un matrimonio ed una suora chi ha condiviso sulle immagine che abbiamo di Gesù e quella che veramente Lui ci mostra. Abbiamo finito il percorso della giornata insieme alle monache adoratrici. Esse ci hanno condiviso la sua testimonianza e la sua particolare forma di orazione.

Il prossimo incontro vocazionale sarà in Santiago nel mese di agosto. 
Pubblicato in 2015
Sabato, 27 Giugno 2015 06:57

Toccare ed essere toccati da Gesù

345Che cos’è l’impurità? Quando una persona è impura, cioè indegna di stare con gli altri e con Dio? Quando una persona è “segnata” da una situazione malefica? E potremmo continuare a porre domande simili o parallele, perché da sempre questi interrogativi emergono nei nostri cuori nelle differenti situazioni della nostra vita. E le risposte che noi esseri umani abbiamo dato, e magari ancora diamo, non sempre riflettono la volontà del Creatore, i sentimenti di Dio. Purtroppo le vie religiose tracciate dall’umanità spesso riflettono non il pensiero di Dio, ma sono piuttosto il frutto di sentimenti umani per i quali si sono trovate giustificazioni fonte di alienazione o di separazione tra gli umani.

In questi percorsi, il sangue, segno della vita negli animali e negli umani, ha attirato fortemente l’attenzione su di sé. Ognuno di noi è nato nel sangue che fluisce dall’utero della madre e ognuno di noi muore quando il suo sangue non scorre più. Ecco dunque, al riguardo, la Legge e le leggi: il sangue che esce da una donna nel mestruo o alla nascita di un figlio la rende impura, così come ognuno quando muore entra nella condizione di impurità, perché preda della corruzione del proprio corpo. Il sangue rende impuri, rende indegni, e questa per una donna è una schiavitù impostale dalla sua condizione secondo la Legge, dunque – dicono gli uomini religiosi – da Dio. La donna impura per il mestruo o per la gravidanza non toccherà cose sante, non entrerà nel tempio (nel Santo) e per purificarsi dovrà offrire un sacrificio; anche chi toccherà una donna impura sarà reso impuro (cf. Lv 12,1-8; 15,19-30), impuro come un lebbroso e chi lo tocca, impuro come un morto e chi lo tocca. Di qui ecco barriere, muri, separazioni innalzati tra persona e persona, ecco l’imposizione dell’esclusione e dell’emarginazione. Certo, “a fin di bene”, per evitare il contagio, per instaurare un regime di immunitas: ma al prezzo della creazione di uno steccato e dell’indegnità-impurità posta come sigillo su alcune persone! Anche le misure di precauzione finiscono per diventare una condanna…

Ma Gesù è venuto proprio per far cadere queste barriere: egli sapeva che non è possibile che il sangue di un animale offerto in sacrificio possa togliere il peccato e rendere puri, mentre il sangue di una donna versato per il naturale ciclo mestruale o il corpo di un morto di cui occorre avere cura possano generare impurità, indegnità di stare con gli altri e davanti a Dio. Per questo i vangeli mettono in evidenza che Gesù non solo curava e guariva i malati, gli impuri, come i lebbrosi o come le donne colpite da emorragia, ma li toccava e da essi si faceva toccare. Gesù abolisce ogni sorta di sacro, poiché egli non era “sacro” come i sacerdoti, essendo un ebreo laico, non di stirpe sacerdotale, e poiché vedeva nelle leggi della sacralità una contraddizione alla carità, alla relazione così vitale per noi umani. Amare l’altro vale più dell’offerta a Dio di un sacrificio (cf. Mc 12,33; 1Sam 15,22), essere misericordiosi è vivere il precetto, il comandamento dato dal “Dio misericordioso (rachum) e compassionevole (channun)” (Es 34,6). In Gesù c’era la presenza di Dio, dunque lui era “il Santo di Dio” (Mc 1,24; Lc 4,34; Gv 6,69), ma egli non temeva di contrarre l’impurità; al contrario, egli proclamava e mostrava che la santità di Dio santifica anziché rendere impuri, consuma e brucia il peccato e l’impurità, perché è una santità che è misericordia (cf. Os 11,9: “Io sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò da te nella mia ira”).

Per questo Gesù lasciava che i malati lo toccassero, avessero contatto con il suo corpo (cf. Mc 6,56; Mt 14,36), per questo egli toccava i malati: tocca il lebbroso per guarirlo (cf. Mc 1,41 e par.), tocca gli orecchi e la lingua del sordomuto per aprirli (cf. Mc 7,33), tocca gli occhi del cieco per ridargli la vista (cf. Mc 8,23.25), tocca i bambini e impone le mani su di loro (cf. Mc 10,13.16 e par.), tocca il morto per risuscitarlo (cf. Lc 7,14); e a sua volta si lascia toccare dai malati, da una prostituta, dai discepoli, dalle folle… Toccare, questa esperienza di comunicazione, di con-tatto, di corpo a corpo, azione sempre reciproca (si tocca e si è toccati, inscindibilmente!), questo comunicare la propria alterità e sentire l’altrui alterità… Toccare è il senso fondamentale, il primo a manifestarsi in ciascuno di noi, ed è anche il senso che più ci coinvolge e ci fa sperimentare l’intimità dell’altro. Toccare è sempre vicinanza, reciprocità, relazione, è sempre un vibrare dell’intero corpo al contatto con il corpo dell’altro.

Le due azioni di Gesù riportate da Marco nel brano evangelico di questa domenica sono unite tra loro proprio dal toccare: Gesù è toccato da una donna emorroissa e tocca il cadavere di una bambina. Due azioni vietate dalla Legge, eppure qui messe in rilievo come azioni di liberazione e di carità. Questo toccare non è un’azione magica, bensì eminentemente umana, umanissima: “Io tocco, dunque sono con te!”. Mentre Gesù passa con la forza della sua santità in mezzo alla gente, una donna malata di emorragia vaginale pensa di poter essere guarita toccando anche solo il suo mantello, il tallit, lo scialle della preghiera. Ciò avviene puntualmente, e allora la donna, impaurita e tremante, nella convinzione di aver fatto un gesto vietato dalla Legge, un atto che rende impuro Gesù, una volta scoperta scoperta confessa “il peccato” da lei commesso. Ma Gesù, che con il suo sguardo la cerca tra la folla, udita la confessione le dice con tenerezza e compassione: “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male”. Egli si comporta così non per infrangere la Legge, ma perché risale alla volontà di Dio, senza fermarsi alla precettistica umana. E se Dio era sceso per liberare il suo popolo in Egitto, terra impura, abitata da gente impura, anche Gesù sente di poter stare tra impuri e di poterli incontrare, dando loro la liberazione. Per questo egli ha sentito uscire da sé “un’energia” (dýnamis) quando la donna l’ha toccato, perché la sua santità passava in quella donna impura.

Subito dopo Gesù viene condotto nella casa del capo della sinagoga Giairo, dove giace la sua figlioletta di dodici anni appena morta. Portando con sé solo Pietro, Giacomo e Giovanni, appena entrato in casa sente strepito, lamenti e grida per quella morte; allora, cacciati tutti dalla stanza, in quel silenzio prende la mano della bambina e le dice in aramaico: “Talità kum”, “Ragazza, io ti dico: Alzati!”. Anche qui la santità di Gesù vince l’impurità del cadavere, vince la possibile corruzione e comunica alla bambina una forza che è resurrezione, possibilità di rimettersi in piedi e di riprendere vita. Nella sua attenzione umanissima, poi, Gesù ordina che a quella bambina sia dato da mangiare, quasi che lei stessa abbia faticato per rispondere alla santità di Gesù, il quale le comunica quell’energia divina di cui è portatore.

Toccare l’altro è un movimento di compassione;

toccare l’altro è desiderare con lui;

toccare l’altro è parlargli silenziosamente con il proprio corpo, con la propria mano;

toccare l’altro è dirgli: “Io sono qui per te”;

toccare l’altro è dirgli: “Ti voglio bene”;

toccare l’altro è comunicargli ciò che io sono e accettare ciò che lui è;

toccare l’altro è un atto di riverenza, di riconoscimento, di venerazione.

Commento al Vangelo di Enzo Bianchi 
Campitelli-XVII-secROMA – Lunedì 15 giugno alle 21:00, nella Chiesa di Santa Maria in Campitelli, è risuonata la musica di uno dei più grandi compositori romani del Seicento, Orazio Benevoli, con l’esecuzione della Missa in angustia pestilentiae per sedici voci e organo. L’autore compose la messa nel 1656, dedicandola a papa Alessandro VII, per  impetrare a Dio la fine del contagio che mieteva vittime a Roma. L’evento rientra nel progetto culturale “Barocco a Roma. La meraviglia delle Arti” promosso dalla Fondazione Roma e organizzato dalla Fondazione Roma-Arte-Musei, per la valorizzazione del patrimonio storico artistico e architettonico barocco della città e del territorio ed è stato organizzato dall’Associazione La Cantoria nell’ambito del Festival di musica rinascimentale e barocca La Cantoria Campitelli 2015.

La Chiesa di Santa Maria in Portico in Campitelli, grandioso esempio di architettura barocca su progetto di Carlo Rainaldi, venne fatta erigere  per il voto del Popolo e del Comune di Roma rivolto all’immagine santa della Madonna in Portico, che la tradizione soleva far risalire al VI secolo con un’apparizione a Santa Galla, e che era conservata nell’antica chiesa di Santa Maria in Campitelli, situata nel luogo  dove oggi sorge il palazzo dell’Anagrafe. Durante la pestilenza la popolazione romana si recava spontaneamente a rivolgere preghiere e suppliche all’immagine santa della Vergine, alla benignità della quale venne poi attribuita la fine della pestilenza. Con la conclusione del contagio si fecero grandi festeggiamenti  e ringraziamenti al Signore per la grazia ricevuta, ed alla Madonna. Il papa Alessandro VII ordinò una processione guidata da lui stesso, alla quale parteciparono tutti i rappresentanti della città, dai principi, ai Senatori, al popolo intero, che si mosse dalla Chiesa di Santa Maria in Aracoeli, e si concluse nella nuova Chiesa di Santa Maria in Campitelli, impreziosita per l’occasione da addobbi di damaschi e arredi sacri, con l’esecuzione di musiche altisonanti ad opera dei cantori sistini, il coro personale del Papa, che cantavano dalle fastose cantorie barocche della chiesa, sapientemente progettate da Carlo Rainaldi, che oltre che architetto fu anche compositore. L’evento intende ricostruire la liturgia che si celebrò nella chiesa, con l’esecuzione della messa policorale di Orazio Benevoli, che all’epoca ricopriva il posto più prestigioso per un musicista del tempo, quello di Maestro della Cappella Giulia della Basilica Vaticana, interpolata da brani in canto gregoriano ed interventi strumentali per ensemble di archi e fiati barocchi e all’organo, un Pollicolli originale del 1635 in dotazione della Chiesa. 

Il Maestro di Cappella della Chiesa di Santa Maria in Campitelli,  Vincenzo Di Betta, ha diretto l’evento musicale che coinvolge diverse realtà dedite all’esecuzione della musica barocca: la Cappella Musicale Santa Maria in Campitelli, il Coro da Camera Italiano, l’Ensemble strumentaleLa Cantoria e l’Ensemble di fiati Vigesimanona, con la partecipazione di Massimo Bisson all’organo e alla direzione del canto piano. L’ideazione e realizzazione dell’evento sono a cura di Vincenzo Di Betta, per quanto riguarda la concertazione e l’esecuzione musicale, Paola Ronchetti, che ha effettuato la ricerca storico documentaria sulle fonti manoscritte e a stampa, conservate nell’Archivio della Parrocchia di Santa Maria in Portico in Campitelli dei Chierici OMD e la trascrizione in notazione e chiavi moderne della messa, a partire dal manoscritto conservato presso la Biblioteca dell’Accademia Nazionale dei Lincei e Corsiniana e dall’edizione del 1963 curata da L. Feininger. L’evento ha ricevuto il Patrocinio del pontificio Consiglio della Cultura.

Paola Ronchetti
Pubblicato in 2015
Sabato, 20 Giugno 2015 20:38

La tempesta sul mare di Galilea

344Dopo aver annunciato ai discepoli e alle folle alcune parabole da una barca appena scostata dalla spiaggia (cf. Mc 4,1-34), Gesù decide di passare all’altra riva del mare di Galilea: si tratta di un’“uscita” dalla terra santa di Israele, per andare verso una terra abitata dai pagani. Perché questa decisione così audace? Perché Gesù, pur sentendosi “inviato prima alle pecore perdute della casa di Israele” (cf. Mt 15,24), vuole annunciare la misericordia di Dio anche alle genti, vuole combattere Satana e togliergli terreno anche in quella terra straniera e non santa. Questa è la ragione che muove Gesù. Giona, chiamato da Dio ad andare a Ninive, città simbolo delle genti pagane, fugge, fa un cammino in direzione opposta (cf. Gn 1,1-3); Gesù invece, inviato da Dio, va tra i pagani.

I discepoli, dunque, iniziano la traversata del lago, “prendendo con sé Gesù” (espressione unica, perché di solito è Gesù che prende con sé i discepoli: cf. Mc 9,2; 10,32; 14,33): egli è stanco per la lunga giornata di predicazione, e sulla barca cerca un pagliericcio su cui distendersi per riposare. Ma alla volontà di Gesù si oppone il mare, che è il luogo dove le forze del male si scatenano in tempesta. Non si dimentichi che per gli ebrei il mare era il grande nemico, vinto dal Signore quando fece uscire il suo popolo dall’Egitto (cf. Es 14,15-31); era la residenza del Leviatan, il mostro marino (cf. Gb 3,8; Sal 74,14); era il grande abisso che, quando scatenava la sua forza, impauriva i naviganti (cf. Sal 107,23-27). Ed ecco che la potenza del demonio si manifesta in una tempesta di vento, che getta le onde nella barca e tenta di affondarla. È notte, è l’ora delle tenebre, e la paura scuote quei discepoli, che non riescono più a governare la barca. Il naufragio sembra ormai inevitabile, eppure Gesù, a poppa, dorme…

I discepoli allora, in preda all’angoscia, al vedere Gesù addormentato si spazientiscono. Decidono dunque di svegliarlo e, con modi non certo reverenziali, gridano: “Maestro, non t’importa nulla che siamo perduti?”. Già questo modo di esprimersi è eloquente: lo chiamano maestro (didáskalos) e con parole brusche contestano la sua inerzia, il suo sonno. Parole che nella versione di Matteo diventeranno una preghiera – “Signore (Kýrios), salvaci, siamo perduti!” (Mt 8,25) – e in quella di Luca una chiamata – “Maestro, maestro (epistátes), siamo perduti!” (Lc 8,24) –. Marco ricorda meglio i rapporti semplici e diretti, finanche poco gentili, dei discepoli verso Gesù…

Di fronte a questa mancanza di fede, Gesù sgrida il vento ed esorcizza il mare, “dicendogli: ‘Taci, calmati!’. E subito il vento cessò e vi fu grande bonaccia”. Questo miracolo operato da Gesù – non sfugge a nessuno – ha soprattutto una grande portata simbolica, perché ognuno di noi nella propria vita conosce ore di tempesta. Anche la chiesa, la comunità dei discepoli, a volte si trova in situazioni di contraddizione tali da sentirsi immersa in acque agitate, in marosi, in un vortice che minaccia la sua esistenza. In queste situazioni, in particolare quando durano a lungo, si ha l’impressione che l’invisibilità di Dio sia in realtà un suo dormire, un non vedere, un non sentire le grida e i gemiti di chi si lamenta. Sì, la poca fede fa gridare ai credenti: “Dio dove sei? Perché dormi? Perché non intervieni?” (cf. Sal 35,23; 44,24; 59,6, ecc.). Dobbiamo confessarlo: anche se magari crediamo di avere una fede matura, di essere cristiani adulti, nella prova interroghiamo Dio sulla sua presenza, arriviamo anche a contestarlo e talvolta a dubitare della sua capacità di essere un Salvatore. La sofferenza, l’angoscia, la paura, la minaccia recata alla nostra esistenza personale o comunitaria ci rendono simili ai discepoli sulla barca della tempesta. Per questo Gesù li deve rimproverare con parole dure. Non solo chiede loro: “Perché siete cosi paurosi?”, ma aggiunge anche: “Non avete ancora la fede?”. Discepoli senza fede, senza adesione a Gesù: lo seguono, lo ascoltano, ma non mettono in lui piena fiducia…

Ed ecco che di fronte a queste parole così critiche di Gesù, ma anche di fronte al prodigio che hanno visto con i loro occhi, affiora nei discepoli una domanda: “Chi è veramente questo rabbi, questo maestro, se anche il vento e il mare gli sono sottomessi?”. Eppure anche da questo evento non sapranno trarre una lezione, perché, quando giungerà per Gesù e per loro la grande tempesta, l’ora della sua passione e morte, verranno meno a causa della loro mancanza di fede. Di fatto, questa prova della tempesta sul mare è annuncio della grande prova che li attende a Gerusalemme; ma allora tutti lo abbandoneranno e fuggiranno (cf. Mc 14,50)…. Poi di fronte a Gesù morto e sepolto, verificheranno un grande fallimento del maestro e del loro gruppo. E solo la tomba vuota e il contemplare Gesù vivente, risorto da morte, genereranno in loro una fede salda, che li porterà a confessare Gesù quale vincitore sul male e sulla morte. Allora, in quanto testimoni del Risorto, diventeranno anche capaci di affrontare, a loro volta, la tempesta che si abbatterà su di loro: la persecuzione a causa del nome di Gesù e della fede in lui.

Quando Marco scriveva il suo vangelo e lo consegnava alla chiesa di Roma, la piccola comunità cristiana nella capitale dell’impero era nella tempesta e regnava in essa una grande paura, tale da impedire a quei cristiani la missione presso i pagani. Così Marco li invita a non temere l’“uscita” missionaria, li invita a conoscere le prove che li attendono come necessarie (cf. Mc 10,30); prove e persecuzioni nelle quali Gesù, il Vivente, non dorme, ma è in mezzo a loro. La tempesta sul mare di Galilea è una metafora della lotta contro le potenze del male, lotta che Gesù Cristo ha vinto. Gesù appare dunque come Giona, ma un Giona al contrario: non riluttante, ma missionario verso i pagani, in obbedienza a Dio. In ogni caso, Giona e Gesù sono due missionari di misericordia, ed entrambi la predicano a caro prezzo: scendendo nel vortice delle acque e affrontando la tempesta (cf. Gn 2,1-11), perché solo attraversandola si vince il male. Ecco perché Gesù dirà che alla sua generazione sarà dato solo il segno di Giona (cf. Mt 12,39-41; 16,4; Lc 11,29-32), ossia la parabola della misericordia annunciata a prezzo della discesa nelle acque di morte, a prezzo dell’andare a fondo.

Quanto è cristiana la frase: “Naufragium feci, bene navigavi”! “Ho fatto naufragio, ma ho navigato bene”, perché sono approdato nel regno di Dio.

Commento al Vangelo di Enzo Bianchi 
Sabato, 13 Giugno 2015 07:02

La potenza del seme del Regno

343Così è il regno di Dio: piccola realtà, ma che ha in sé una potenza misteriosa, silenziosa, irresistibile ed efficace, che si dilata senza che noi facciamo nulla. Il contadino non può fare davvero nulla: deve solo seminare il seme nella terra, ma poi sia che lui dorma sia che si alzi di notte per controllare ciò che accade, la crescita non dipende più da lui.

Dopo il tempo pasquale e le due domeniche del tempo Ordinario sulle quali sono state innestate due feste teologiche, quella della Triunità di Dio e quella del Corpo e Sangue di Cristo, la chiesa ci fa riprendere la lettura cursiva del vangelo secondo Marco, quello proprio del ciclo liturgico B.

Nel vangelo più antico Gesù pronuncia un discorso in parabole come insegnamento rivolto ai discepoli che ha chiamato alla sua sequela e alle folle che ascoltano la sua predicazione del Regno veniente (cf. Mc 4,1-34). Le parabole sono un linguaggio enigmatico che diventa però “mistero” (Mc 4,11) per chi segue Gesù e in qualche modo entra nella sua intimità, fino a trovarsi in uno spazio che può essere definito da Gesù stesso éso, “dentro” (cf. Mc 3,31-32; 4,11). Nello stesso tempo, le parabole sono da lui dette in modo che gli ascoltatori cambino il loro modo di pensare. Esse, infatti, contengono sempre un messaggio di contro-cultura, correggono ciò che tutti pensano o sono portati a pensare, e di conseguenza sono annuncio di qualcosa di nuovo: una novità apportata da Gesù non a livello di idee, ma come qualcosa che cambia il modo di vivere, di sentire, di giudicare e di operare. Gesù era un uomo che innanzitutto sapeva vedere: vedeva, osservava, contemplava tutto ciò che gli era intorno e tutti quelli che gli si avvicinavano e che egli avvicinava a sé. In lui la consapevolezza e l’adesione alla realtà erano sempre in esercizio, sicché poteva poi pensare. Di più, potremmo dire che il suo pensare davanti al Padre e alla sua volontà era un pregare che gli permetteva di immaginare racconti e situazioni, quelli che narrava nelle parabole.

Nella nostra pericope Gesù, dopo aver pronunciato la parabola del seminatore, spiegata in seguito ai soli discepoli (cf. Mc 4,1-20) e i due brevi detti sulla lampada “che viene” e sulla misura dell’ascolto (cf. Mc 4,21-25), narra altre due parabole. Egli afferma che “così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa”. Gesù ci parla ancora del seme, un elemento che lo intrigava e sul quale aveva molto meditato. Il seme è sempre qualcosa che resta dal raccolto precedente, è il frutto di una pianta che, raccolto, secca e sembra morto. Ma se il seme cade, se è gettato sotto terra, allora nella terra intrisa di acqua marcisce, visibilmente si disfa e muore; in realtà, però, genera vita, che diventa una pianta e che apparirà infine addirittura come una moltiplicazione e una trasformazione del seme stesso, attraverso frutti abbondanti. Il seme è adatto per rappresentare la dinamica dell’enigma che diventa mistero, ed è per questo che Gesù ricorre più volte a questa immagine, la più presente nelle parabole da lui create.

La venuta del regno di Dio, il suo apparire, è dunque paragonato al processo agricolo che ogni contadino conosce bene, anzi che vive con attenzione e premura: semina, nascita del grano, crescita, formazione della spiga e maturazione. Di fronte a tale sviluppo, occorre meravigliarsi, guardando alla potenza, alla forza presente in quel piccolo seme secco, che sembra addirittura niente. Così è il regno di Dio: piccola realtà, ma che ha in sé una potenza misteriosa, silenziosa, irresistibile ed efficace, che si dilata senza che noi facciamo nulla. Di fronte a questa realtà, il contadino non può fare davvero nulla: deve solo seminare il seme nella terra, ma poi sia che lui dorma sia che si alzi di notte per controllare ciò che accade, la crescita non dipende più da lui. Anzi, se il contadino volesse misurare la crescita e andasse a verificare cosa accade al seme sotto terra, minaccerebbe fortemente la nascita e la vita del germoglio. Ecco allora l’insegnamento di Gesù: occorre meravigliarsi del regno che si dilata sempre di più, anche quando noi non ce ne accorgiamo, e di conseguenza occorre avere fiducia nel seme e nella sua forza. E il seme è la parola che, seminata dal predicatore, darà frutto anche se lui non se ne accorge né può verificare il processo: di questo deve essere certo! Nessuna ansia pastorale, ma solo sollecitudine e attesa; nessuna angoscia di essere sterili nel predicare: se il seme è buono, se la parola predicata è parola di Dio e non del predicatore, essa darà frutto in modo anche invisibile. Questa la certezza del “seminatore” credente e consapevole di ciò che opera: la speranza della mietitura e del raccolto non può essere messa in discussione.

Segue un’altra parabola, sempre sul seme, ma questa volta su un seme di senape. Gesù è veramente un uomo intelligente e sapiente, e anche in questa parabola le sue parole mostrano come egli non fosse mai distratto, ma tutto e tutti vedesse e pensasse. Egli sa bene che il chicco di senape è tra i semi più minuscoli, non più grande di un granello di sale; eppure anch’esso, se seminato in terra, diventa un albero che si impone. Sembra impossibile che da un seme così minuscolo possa derivare un albero tanto rigoglioso: anche qui c’è dunque da stupirsi, da meravigliarsi! Eppure proprio ciò che ai nostri occhi è piccolo, può avere una forza impensabile per noi umani… Ecco, infatti, che il seme di senape sotto terra marcisce, germoglia, poi spunta e cresce fino a essere un arbusto sulle cui fronde gli uccelli possono fare il nido. Qui Gesù allude certamente a quell’albero intravisto da Daniele, simbolo del regno universale di Dio (cf. Dn 4,6-9.17-19). Sì, anche questa parabola vuole comunicarci qualcosa di decisivo: la parola di Dio che ci è stata donata può sembrare piccola cosa, rivestita com’è di parola umana, fragile e debole, messa in bocca a uomini e donne poveri, non intellettuali, non saggi secondo il mondo (cf. 1Cor 1,26). Eppure quando essa è seminata e predicata da loro, proprio perché è parola di Dio contenuta in parole umane, è feconda e può crescere come un albero capace di accogliere tante creature.
Queste parabole ci devono interrogare sulla nostra consapevolezza della parola di Dio che ci è data e che noi dobbiamo seminare, sulla nostra visione del Regno come realtà di piccoli e di poveri, realtà di un “piccolo gregge” (Lc 12,32), che può divenire una raccolta delle genti del mondo intero, in cammino verso il regno di Dio veniente per tutti. Ma pensiamoci un momento: chi pronunciava queste parabole era un oscuro laico di Galilea, non sacerdote e neppure rabbino formatosi in qualche scuola riconosciuta a Gerusalemme o lungo il lago di Galilea. E con lui c’era una comunità itinerante che lo seguiva: una dozzina di uomini e poche donne senza cultura; una realtà piccola e oscura ma significativa. Allora, perché avere timore di essere noi cristiani una minoranza oggi nel mondo? Basta che siamo significativi, cioè che crediamo alla potenza della parola di Dio, che la seminiamo con umiltà e molta pace, senza angoscia né frenetica attesa di vedere i risultati…

Commento al Vangelo di Enzo Bianchi  
apertura“La Sapienza si è costruita una Casa” ed ha trovato la sua dimora  a Betlem nel Figlio di Dio il Verbo divenuto uomo per la nostra salvezza. A Betlem che vuol dire “Casa del Pane” Dio diviene nutrimento per la nostra umanità. Con queste parole pronunziate durante l’omelia nella Basilica papale di San Giovanni in Laterano, il Vescovo Lorenzo Chiarinelli, ha accolto religiosi e religiose dell’Ordine della Madre di Dio e della Congregazione delle Suore Oblate del Bambino Gesù insieme ai fedeli laici intervenuti venerdì 5 giugno per l’apertura del processo diocesano di beatificazione e canonizzazione dei Servi di Dio Cosimo Berlinsani e Anna Moroni, fondatori della Congregazione delle Suore Oblate del Bambino Gesù. I Servi di Dio hanno incarnato la spiritualità e l’umanesimo del XVII secolo ed hanno  manifestato i segni di quella santità che la Chiesa ha riconosciuto in molti suoi figli di quella stagione postridentina feconda di santità. Luminose figure hanno animato il popolo di Dio è lo hanno evangelizzato attraverso la carità: san Ignazio di Loyola, santa Teresa d’Avila, san Giovanni Leonardi, san Felice da Cantalice san Filippo Neri e molti altri. Nel loro tempo i Servi di Dio Cosimo ed Anna, hanno edificato una Casa a quell’umanità sofferente e bisognosa dell’amore umano e divino ed oggi, mentre la Chiesa di Roma inizia il processo per riconoscere la loro fama di santità, essi continuano ad essere: “Una casa per l’umanità contemporanea”. Al termine della Solenne Eucaristia i convenuti si sono radunati nell’Aula della Conciliazione presso il palazzo del Vicariato di Roma dove ha avuto inizio la Sessione di apertura del processo diocesano. Alla presenza del Tribunale del Vicariato di Roma presieduto da Mons. Slawomir Oder, Delegato del Cardinale Agostino Vallini Vicario di Sua Santità per la Diocesi di Roma i convenuti hanno vissuto con emozione questo primo atto ufficiale con il quale la Chiesa apre un processo di canonizzazione. Il Cancelliere Dott. Marcello Terramani ha dato lettura del verbale mentre i membri del Tribunale hanno prestato giuramento insieme ai Postulatori delle Cause: P. Davide Carbonaro OMD per la Causa del Servo di Dio Cosimo Berlinsani e P. r2t6qeph Sciberras OSA per la Causa della Serva di Dio Anna Moroni. A conclusione Mons. Oder a nome del Cardinale Vicario, ha presentato alcuni tratti biografici dei due Servi di Dio, ricordando come le loro vite “nascoste l’una nell’altra” sono un dono per la Chiesa: “Che non si stanca di evangelizzare attraverso il dono della santità. E come afferma Papa Francesco nell’Evangelii Gaudium: ‘Comunicare il Vangelo è contemplarlo con amore, è sostare sulle sue pagine e leggerlo con il cuore. Se lo accostiamo in questo modo, la sua bellezza ci stupisce, torna ogni volta ad affascinarci. Perciò è urgente ricuperare uno spirito contemplativo, che ci permetta di riscoprire ogni giorno che siamo depositari di un bene che umanizza, che aiuta a condurre una vita nuova. Non c’è niente di meglio da trasmettere agli altri’. Solo il Signore conosce la fecondità e la bellezza serbate nel cuore umano ed in che modo il buon seme nascosto nel terreno, porterà frutto a suo tempo”. Così ha concluso Mons. Oder: “Attraverso gli atti previsti dalla legge canonica noi oggi iniziamo questo primo passo con il quale la Chiesa di Roma con saggezza e prudenza, raccoglierà tutte le testimonianze necessarie che rendono vivi  e carichi di speranza per il nostro tempo i tratti evangelici dei nostri Servi di Dio”.

6 giugno 2015

  pdf  Intervento del P. Generale
Pubblicato in 2015
Sabato, 06 Giugno 2015 16:07

Events in Indian Delegation

omd-indiaAs the summer holidays are ending and the new academic year is starting in India, the Indian delegation had some important events like three brothers starting their novitiate and three brothers initiating their ministry of acolyte.
 
On 30th May evening, in our seminary Chapel at Samayapuram, we had Eucharistic adoration, in which we had the ritual of entance to novitiate. Our three brothers, Reegan, Veljit & Vishal having completed their philosophical studies are admitted into novitiate by General Council. Fr.Delegate presided over the liturgy and instructed the new novices on the significance of novitiate as the heart of their formative years and the scope of the novitiate foreseen by Our Ratio & the love they need to develop for our Order, Founder and works during this year. Fr.Beno as Novice Master received our best wishes.
 
On 31st May, on the Solemnity of the Holy Trinity, our three professed religious, Doss,Backiaraj & Jebaraj were conferred the ministry of acolyte during the con-celebrated Eucharistic celebration in our seminary. Fr.Delegate presided over the Liturgy and during the homily he brought out the role of acolytes during Liturgy and as the Holy Trinity is the ample example for performing different roles but known for Unity, he said, in our communities we need to learn to collaborate in amidst of differences.
 
All our seminarians and most of our fathers were present during these celebrations. 

 
Pubblicato in 2015
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Sabato, 06 Giugno 2015 08:26

Il dono di tutta la vita di Gesù

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Questa festa dell’Eucaristia, o del Corpo del Signore (Messale di Pio V), o solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo (Messale di Paolo VI), come la solennità della Triunità di Dio celebrata domenica scorsa è tardiva. Infatti, è stata istituita nel XIII secolo, e nel secolo seguente ha faticato a imporsi in occidente, restando invece sempre sconosciuta nella tradizione ortodossa. L’intenzione della chiesa è quella di proporre, fuori del santissimo triduo pasquale, la contemplazione, l’adorazione e la celebrazione del mistero eucaristico del quale viene fatto memoria il giovedì santo, in coena Domini. Quanto al brano evangelico scelto, il messale italiano in questa annata B propone la lettura del racconto dell’ultima cena nel vangelo secondo Marco, che ora tentiamo di comprendere come parola del Signore.


Prima del suo arresto e della sua morte in croce, Gesù ha voluto celebrare la Pasqua con i suoi discepoli, e proprio per questo durante il suo ultimo soggiorno a Gerusalemme, nel primo giorno della festa dei pani azzimi, invia due suoi discepoli affinché preparino l’occorrente per la cena pasquale. Gesù sa di essere braccato, di non potersi fidare neppure di tutti i suoi discepoli, perché uno l’ha ormai tradito (cf. Mc 14,10-11), dunque predispone ogni cosa perché quella cena pasquale possa avvenire, ma agisce con molta circospezione, come se non volesse che si sappia dove la celebrerà. Per questo i due discepoli da lui inviati devono incontrare un uomo che porta una brocca d’acqua (cosa insolita, perché erano le donne a svolgere tale operazione, ma questo è il segno convenuto), devono seguirlo fino a una casa, dove costui indicherà loro la camera alta, la sala al piano superiore già arredata e pronta, in cui predisporre tutto per la cena. Occorre infatti preparare il pane, il vino, l’agnello, le erbe amare, per ricordare in un pasto l’uscita di Israele dall’Egitto, la liberazione dalla schiavitù, la nascita del popolo appartenente al Signore.

Ed ecco che nell’ora della cena Gesù fa dei gesti e dice alcune parole sul pane e sul vino. Di questa scena abbiamo quattro racconti, tre nei vangeli sinottici (cf. Mc 14,22-25; Mt 26,26-29; Lc 22,18-20) e uno nella Prima lettera ai Corinzi (cf. 1Cor 11,23-25): racconti che riportano parole tra loro un po’ diverse, a testimonianza di come non si tratti di formule magiche da ripetersi tali e quali, ma di parole che manifestano l’intenzione di Gesù e spiegano i suoi gesti. Le prime comunità cristiane, dunque, volendo restare fedeli all’intenzione di Gesù, hanno ripreso i suoi gesti, e da allora la cena del Signore è sempre e dovunque celebrata così nelle chiese.

Innanzitutto, Gesù prende il pane azzimo che è sulla tavola del seder pasquale, pronuncia la benedizione e il ringraziamento a Dio per quel dono, quindi lo spezza e lo porge ai discepoli. È significativo soprattutto il gesto dello spezzare il pane, che già nei profeti indicava il condividere il pane con i poveri, i bisognosi e gli affamati (cf. Is 58,7), che esprime una condivisione di ciò che fa vivere, che manifesta la comunione tra tutti quelli che mangiano lo stesso pane. Ecco perché il primo nome dato all’Eucaristia dai discepoli e dai cristiani delle origini è “frazione del pane” (cf. Lc 24,35; At 2,42; 20,7; Didaché 9,3). Quanto alle parole che accompagnano il gesto – “Prendete, questo è il mio corpo” –, esse vogliono significare che Gesù dona la sua intera persona ai discepoli i quali, mangiando quel pane, si fanno partecipi della sua vita spesa e consegnata per amore, “fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,8). In questo modo Gesù spiega in anticipo e in piena libertà, con gesti e parole, ciò che accadrà di lì a poco: la sua morte è un dono agli uomini e un’offerta a Dio.

Poi Gesù prende anche il calice tra le sue mani e con solennità dichiara: “Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza, che è sparso per le moltitudini”. Come ha dato il suo corpo dando il pane, così dà il suo sangue dando il calice del vino da bere ai discepoli; ovvero, dà la sua vita, rappresentata nella cultura semitica dal sangue. Qui si deve cogliere il compimento a cui Gesù vuole portare le parole che sigillavano l’alleanza tra Dio e Israele al monte Sinai, quando, con il sangue delle vittime del sacrificio Mosè asperse l’altare, trono di Dio, e il popolo riunito in assemblea, dicendo: “Questo è il sangue dell’alleanza” (cf. Es 24,6-8). Ma l’alleanza che Gesù stipula con il dono della sua vita non è più ristretta a un popolo, bensì è un’alleanza universale, nel suo sangue sparso “per le moltitudini (rabbimpolloí: cf. Is 53,11-12), cioè per tutti” (cf. Concilio Vaticano II, Ad gentes 3).

Inoltre, quell’anticipazione della sua morte in croce, nel rito del ringraziamento sul pane spezzato e nel rito del calice condiviso, è un’anticipazione anche del Regno che viene, dove la morte sarà vinta per sempre. Per questo Gesù dice: “Amen, io vi dico che non berrò più del frutto della vite, fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio”. Il pasto eucaristico prelude dunque al banchetto del Regno, dove Gesù, il Kýrios risorto, mangerà con noi e berrà con noi il calice della vita futura, al banchetto nuziale, dove il vino sarà nuovo, cioè altro, ultimo e definitivo, vino della stessa vita divina, la sua vita che è agápe, amore: e noi berremo quel vino nuovo vivendo in lui e con lui per sempre.

Commento al Vangelo di Enzo Bianchi 
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