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Con Cristo
misurate le cose
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Il contesto è quello della terza e ultima Pasqua vissuta da Gesù a Gerusalemme, quando ormai i sommi sacerdoti hanno preso la decisione di condannarlo a morte (cf. Gv 11,53), e dopo il suo ingresso messianico nella città santa acclamato da molta folla (cf. Gv 12,12-19). Come in occasione di ogni grande festa, erano saliti a Gerusalemme anche dei greci (héllenes), dei non ebrei, dunque dei pagani, i quali avevano certamente sentito parlare di Gesù, del suo carattere profetico, della sua autorevolezza nel rivolgersi alla gente. Gesù ha conosciuto un certo successo, che gli ha procurato fama, oltre che acerrimi nemici. Questo successo inquieta soprattutto gli uomini religiosi, impazienti di frenare ed estinguere il movimento nato dalla predicazione di Gesù. Costoro poco prima erano arrivati a dire: “Ecco, tutto il mondo gli va dietro!” (Gv 12,19), chiedendo dunque di fare qualcosa di definitivo riguardo a Gesù, di risolvere la questione una volta per tutte.I pagani presenti a Gerusalemme, interessati a incontrare Gesù, avvicinano Filippo (il discepolo con un nome greco, proveniente da Betsaida di Galilea, città abitata da molti greci) e gli chiedono: “Vogliamo vedere Gesù”. Ciò però non è facile, perché incontrare dei pagani nella città santa, da parte di un rabbi, non è conforme alla Legge, non rispetta le regole di purità. Filippo, titubante, va a riferirlo ad Andrea, il discepolo più intimo di Gesù, il primo chiamato alla sequela secondo il quarto vangelo (cf. Gv 1,37-40); poi, insieme, i due decidono di presentare la richiesta a Gesù. Quest’ultimo, ascoltandoli, nella sua capacità di riflettere e di leggere gli avvenimenti percepisce che tale domanda è una profezia che riguarda i pagani: anche loro potranno essere suoi discepoli, credere in lui e fare parte della sua comunità.La sua vita sta volgendo alla fine, la morte è decretata dalle legittime autorità della comunità religiosa, della sua “chiesa”, ma Gesù riesce a vedere oltre la morte, anzi riesce a vedere nella sua morte una fecondità inaudita: “È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato”. L’ora della morte in croce è l’ora della gloria, dell’epifania del suo amore vissuto all’estremo per gli uomini tutti (cf. Gv 13,1). Quell’ora di cui a Cana aveva detto alla madre: “La mia ora non è ancora giunta” (Gv 2,4), quell’ora che aveva annunciato come prossima e verso la quale andava con desiderio, quell’ora che era “la sua ora” (Gv 7,30; 8,20), finalmente è arrivata. Questa è l’ora decisiva, che inaugura un nuovo tempo per la fede, per l’adorazione di Dio (cf. Gv 4,21.23), per la salvezza dei morti e dei vivi (cf. Gv 5,25-29).Per rivelarla, Gesù ricorre a una breve similitudine, pronunciata con grande autorità: “Amen, amen io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto”. Ecco la necessitas della passione e morte, della croce. La sua morte è una semina, nella quale il seme deve cadere a terra, essere sotterrato, morire come seme e dare origine a una nuova pianta che moltiplica i semi nella spiga. Così Gesù legge la propria morte e così ci rivela che anche per noi, uomini e donne alla sua sequela, diventa necessario morire, cadere a terra e anche scomparire per dare frutto. È una legge biologica, ma è anche il segno di ogni vicenda spirituale: la vera morte è la sterilità di chi non dà, di chi non spende la propria vita ma vuole conservarla gelosamente, mentre il dare la vita fino a morire è la via della vita abbondante, per noi e per gli altri. Il cristiano che vuole essere servo del Signore, che dice di amare il Signore, deve semplicemente accogliere questa morte, accettare questa caduta, abbracciare questo nascondimento. E allora non sarà solo, ma avrà Gesù accanto a sé, sarà preceduto da Gesù, che lo porterà dove egli è, cioè nel grembo di Dio, nella vita eterna.Con questa fede, con questa convinzione Gesù, anche se turbato dalla morte imminente, sa dire “amen”, sa dire “sì” a quell’ora che è la sua. Per questo anche la preghiera di Gesù così espressa dai sinottici: “Abba! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice!” (Mc 14,36; cf. Mt 26,39; Lc 22,42), nel quarto vangelo diventa un grido di vittoria: “Per questo sono giunto a quest’ora” e un’invocazione: “Padre, glorifica il tuo Nome”. Ed ecco che, in risposta, scende su di lui dal cielo una voce, come promessa e sigillo: “L’ho glorificato e lo glorificherò presto!”. È la voce del Padre il quale conferma al Figlio Gesù che quell’ora della croce è l’ora della gloria. Per questo Gesù può esclamare: “Ora avviene il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo è gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra”, come il serpente innalzato da Mosè (cf. Nm 21,4-9; Gv 3,14), “attirerò tutti a me”.Tutti, giudei e greci, tutti attirati da lui potranno vederlo, ma sulla croce, mentre dona la vita l’umanità intera. Questa la risposta di Gesù a chi vuole vederlo!
Commento al Vangelo di Enzo Bianchi
Saranno presentati lunedì 23 marzo ore 11,00 presso la Biblioteca Statale di Lucca gli atti del Convegno commemorativo nel centenario della Nascita di Ludovico Marracci (1612-2012): “Il Corano e il pontefice Ludovico Marracci fra cultura islamica e Curia papale A cura di Gian Luca D'Errico. Saranno presenti Monica Angeli, Direttrice della Biblioteca Statale di Lucca, S. E. Mons. Italo Castellani Arcivescovato di Lucca Stefano Baccelli, Presidente della Provincia di Lucca. Interverranno: Padre Davide Carbonaro, Segretario Generale O.M.D; Umberto Mazzone, Università di Bologna Giovanni Pizzorusso; Università di Chieti-Pescara sarà presente il curatore. Al termine della presentazione si aprirà la mostra documentaria di opere manoscritte e a stampa di P. Ludovico Marracci che resterà visitabile fino alle ore 18,30 di lunedì 23 marzo
14 marzo 2015
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invito
Oggi eccoci nuovamente di fronte a un altro brano del vangelo giovanneo, a un testo per molti aspetti difficile: Giovanni, infatti, ha una visione che va colta al di là di quello che scrive, una visione più profonda, che non è – potremmo dire – la nostra visione umana, ma appartiene solo a chi ha la fede in Gesù, dunque una visione ispirata dallo sguardo di Dio sulla vicenda di Gesù.Giovanni è stato testimone della passione e morte di Gesù sul Golgota, quel venerdì, vigilia della Pasqua, 7 aprile dell’anno 30 della nostra era. Ha visto la sofferenza di Gesù, il disprezzo che egli subiva da parte dei carnefici e soprattutto quel supplizio vergognoso e terribile – “crudelissimum taeterrimumque supplicium”, come lo definisce Cicerone (Contro VerreII,5,165) – che era la croce. Ha visto questa scena con i suoi occhi ma, dopo la resurrezione di Gesù, nella fede piena, nella contemplazione e meditazione di questo evento, giunge a leggerlo in modo altro rispetto ai vangeli sinottici. In quei vangeli Gesù aveva annunciato per tre volte la “necessità” della sua passione, morte e resurrezione, e per tre volte tale annuncio aveva atterrito i discepoli (cf. Mc 8,31-33 e par.; 9,30-32 e par.; 10,32-34 e par.). Anche il quarto vangelo attesta che per tre volte Gesù ha parlato di questa necessitas, ma lo fa con un linguaggio altro: ciò che nei sinottici è infamia, tortura, supplizio in croce, per Giovanni diventa invece un “innalzamento”, cioè una gloria.Nel nostro brano risuona il primo dei tre annunci fatti da Gesù: “È necessario che il Figlio dell’uomo sia innalzato”. Effettivamente Gesù, appeso al legno, è stato innalzato da terra, ma per Giovanni questo innalzamento da terra non è fisico, bensì è un essere innalzato gloriosamente da Dio, un essere glorificato, cioè rivelato nella sua gloria. Per Giovanni “essere innalzato” (verbo hypsóo) è anche “essere glorificato” (verbo doxázo: cf. Gv 7,59; 8,54, ecc.), essere sulla croce è essere alla destra del Padre. Per questo Gesù dice anche: “Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo”, ossia lo avrete materialmente messo in croce, “allora conoscerete che Io Sono (egó eimi: cf. Es 3,14)” (Gv 8,28), che io sono come Dio. E ancora: “Io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). Quest’ora dell’innalzamento è dunque l’ora della glorificazione (cf. Gv 12,23; 13,31-32), l’ora della passione e della croce. Nel quarto vangelo croce e Pasqua sono lo stesso mistero, e l’ora della passione è l’ora dell’epifania dell’amore.Sì, dobbiamo confessare che questo sguardo giovanneo sulla croce non è facilmente accettabile da noi uomini, eppure questa è la vera e profonda comprensione della croce di Gesù: la croce è stata un supplizio, ma è stata anche un alzare il velo su come Gesù “ha amato i suoi fino all’estremo (eis télos)” (Gv 13,1); è stata una morte da maledetto da Dio e dagli uomini (cf. Dt 21,23; Gal 3,13), crocifisso a mezz’aria perché Gesù non era degno né del cielo né della terra, eppure proprio sulla croce egli riconciliava cielo e terra, faceva cadere ogni barriera e apriva il Regno all’umanità, portando l’umanità in Dio (cf. Ef 2,14-16). Sulla croce moriva un uomo solo e abbandonato, ma quest’uomo narrava che “l’amore più grande è dare la vita per gli amici” (cf. Gv 15,13).Questa è la lettura paradossale della croce fatta da Giovanni. Questo è il Vangelo che Gesù rivela a Nicodemo, un esperto delle Scritture che però Gesù definisce “ignorante” (cf. Gv 3,10): un “maestro in Israele” che non conosce l’azione di Dio nella sua verità profonda. Per cercare di spiegargli questa “necessità” della passione e morte del Messia, Figlio dell’uomo, Gesù tenta un paragone con un fatto avvenuto a Israele nel deserto, dopo l’uscita dall’Egitto. Secondo il libro dei Numeri, gli ebrei furono attaccati da serpenti mortiferi, e allora Mosè innalzò su un’asta un serpente di bronzo: chi lo guardava, anche se morso dai serpenti restava in vita, era salvato (cf. Nm 21,4-9). Questo racconto antico viene reinterpretato dal libro della Sapienza che fa una lettura altra dell’evento, cogliendo nel serpente “un segno di salvezza” (Sap 16,6): “chi si volgeva a guardarlo era salvato non per mezzo dell’oggetto che vedeva, ma da te, Salvatore di tutti” (Sap 16,7).Comprendiamo bene le parole di Gesù, che sono dunque un invito a guardare al Figlio dell’uomo, innalzato in croce come il serpente innalzato da Mosè: chi guarda al crocifisso, trova salvezza e vita. Questo innalzamento del Figlio dell’uomo è il segno che “Dio ha tanto amato il mondo”, questa nostra umanità, “da dargli in dono il Figlio unico”, cioè se stesso. Lo ha donato inviandolo nel mondo, quale Figlio diventato uomo tra gli uomini, non per giudicare il mondo, ma per salvare il mondo, perché “Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati” (1Tm 2,4); non vuole condannare il mondo ma vuole che tutti “abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10).Questo sguardo di Giovanni sulla passione e morte di Gesù ci appare quasi insostenibile, eppure è lo sguardo che ci permette di vedere in una storia di morte una storia di amore, una storia gloriosa dell’amore umano vissuto da Gesù, che così ha narrato una volta per tutte (exeghésato: Gv 1,18) l’amore di Dio.
Commento al Vangelo di Enzo Bianchi
In questa terza domenica di Quaresima la chiesa ci offre un racconto tratto dal quarto vangelo, riguardante la prima epifania di Gesù a Gerusalemme, all’inizio del suo ministero pubblico.L’episodio è introdotto dall’annotazione temporale “Si avvicinava la Pasqua dei giudei”, la festa che Israele celebra ogni anno nel plenilunio di primavera come memoriale dell’esodo dall’Egitto, l’azione salvifica con cui il Signore ha creato il suo popolo santo. Gesù, salito a Gerusalemme in occasione di questa festa, entra nel tempio (ierón), il luogo dell’incontro con Dio, della sua Presenza (Shekinah), ma constata che esso non è rispettato nella sua funzione; anzi, da luogo di culto a Dio è diventato luogo commerciale, sede di traffici “bancari”, mercato dove regna l’idolo del denaro. Com’è possibile una tale perversione? Eppure ciò avvenne per il secondo tempio, e continua ad avvenire anche in molti luoghi cristiani… Il mercato – allora di animali necessari per i sacrifici, oggi di oggetti sacri, devozionali – facilmente si installa dove accorre la gente, sempre lenta a credere ma facilmente religiosa.Certo, quel mercato nell’area del tempio, esattamente nell’atrio riservato ai gojim, alle genti, perché potessero avvicinarsi e cercare il Dio vivente, procurava un’enorme ricchezza ai sacerdoti, agli inservienti del tempio e a tutta la città santa. In particolare, in quel luogo erano installati banchi di cambiavalute, che consentivano a quanti provenivano dalla diaspora di fare offerte al tempio e di acquistare le vittime per i sacrifici. Trovando questa realtà, subito Gesù “fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori dal tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiavalute e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: ‘Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!’”. Gesù compie un’azione, un segno, e dice una parola. In tal modo si mostra come un profeta che denuncia il culto perverso, che con parrhesía, con franchezza, legge la situazione presente e osa dichiarare di fronte a tutti la triste fine fatta da quella che è pur sempre la casa di Dio, suo Padre. Come Geremia, critica la pratica religiosa che il tempio sembrava richiedere a nome di Dio (cf. Ger 7,15); ma si manifesta anche come il Messia, il Figlio di Dio (cf. Sal 2,7), atteso dai giudei quale purificatore e giudice. Per questo si presenta con una frusta in mano e si proclama Figlio di Dio, definendolo “Padre mio”.Il gesto compiuto da Gesù è scandaloso per i sacerdoti e per gli uomini religiosi della città santa. Di fronte a un comportamento che contraddice la loro funzione e autorità, essi si chiedono chi sia mai questo Gesù venuto dalla Galilea. Che autorità ha? E se ce l’ha, dia un segno, mostri la sua autorizzazione ad agire in questo modo! Scacciando tutte le vittime destinate al sacrificio pasquale, Gesù di fatto impedisce la celebrazione della Pasqua secondo la Torah, dunque attenta al culto stesso. Di fronte a questa accusa, implicita nelle affermazioni degli uomini religiosi che a lui si rivolgono, egli risponde con parole enigmatiche, che sono una profezia, ma che in verità quei contestatori non possono comprendere. Dice, infatti, sfidandoli: “Distruggete questo santuario (naós) e in tre giorni lo rialzerò, lo farò risorgere”. Parole che sembrano inutili, perché quei giudei non comprendono e si domandano: “Questo santuario (naós) è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo rialzerai, lo farai risorgere?”.In ogni caso, Gesù ormai ha posto il segno, ha detto la parola necessaria, quella che vuole il tempio non come casa di commercio ma come casa di Dio, e allora entra nel silenzio, in una tristezza indicibile. Il tempio, luogo suo perché casa di Dio suo Padre, il tempio che avrebbe dovuto riconoscerlo come il Signore, il Kýrios che ne prende possesso, preceduto da Giovanni, il nuovo Elia (cf. Ml 3,1-2.23-24), in realtà non lo riconosce, non lo accoglie. E subito dopo, l’attività commerciale e il sistema bancario riprendono esattamente come prima di lui, come se Gesù non avesse mai compiuto quel gesto…Ma accanto a questo fallimento, che non farà che crescere fino alla condanna a morte di Gesù, il quarto vangelo registra anche la reazione dei discepoli che erano scesi con lui a Gerusalemme da Cana di Galilea. Quando lo videro compiere quel gesto, che non ha causato male fisico a nessuno ma che era una condanna eloquente del sistema religiosa su cui si reggevano il tempio e il sacerdozio, lo ritennero pieno di passione come Elia (cf. 1Re 19,10.14), e il salmo plasmò il loro pensiero: “La passione per la tua casa mi consumerà” (Sal 69,10). A dire il vero, nel salmo il verbo è al passato, qui invece al futuro, a dire che questo gesto lo porterà a essere consumato come l’Agnello pasquale: sì, questa passione per Dio porterà Gesù alla condanna e alla morte! E quando Gesù, consumato da questa passione, risorgerà, poiché tale passione-amore “fino alla fine” (eis télos: Gv 13,1) per Dio e per gli uomini non poteva morire, allora i discepoli si ricorderanno delle sue parole circa la resurrezione in tre giorni: “egli parlava del santuario (naós) del suo corpo”.Ormai, dunque, il luogo dell’incontro con Dio è il corpo di Gesù, il luogo del vero culto a Dio è Gesù. Questo significano le sue parole rivolte più avanti a Tommaso e a Filippo: “Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me … Chi ha visto me, ha visto il Padre” (Gv 14,6.9). I sacrifici animali sono finiti per sempre, Gesù è la vera vittima del sacrificio: sacrificio secondo Dio, infatti, è “dare la vita per gli altri” (cf. Gv 15,13) e “offrire il proprio corpo per amore” (cf. Rm 12,1).
Domenica 1 marzo alle ore 12.00, nella Chiesa Santa Maria in portico di Napoli, Mons. Gennaro Acampa, vescovo ausiliare di Napoli, ha ordinato diacono il nostro Chierico Lawrence Arockiasamy. Il nostro Chierico ha giunto a questa meta al termine di tre anni di formazione teologica presso l’Istituto Teologico “San Luigi”. La celebrazione, che ha visto la partecipazione dei confratelli omd, oltre ad alcuni altri sacerdoti provenienti da vari ambienti, i nostri parrocchiani, è stata un momento di forte grazia. Il dono del diaconato è sicuramente un dono che non può fermarsi a chi lo riceve... Il servizio e l’annuncio della Parola sono due elementi fondamentali nella vita del diacono. L’augurio ora è che il nuovo diacono del omd possa vivere pienamente il dono ricevuto e sappia essere annunciatore autentico e testimone credibile dell’amore di Dio ai giovani che incontrerà lungo il suo cammino da consacrato a servizio della Chiesa e del Ordine della Madre di Dio.
LA CHIESA DI LUCA GIORDANO
Grazie al FEC, Fondo Edifici di Culto del Ministero dell’Interno, si rimette mano a S. Brigida. Dopo il terremoto del l980 un intervento di messa in sicurezza rimase incompiuto. La massima urgenza dei lavori attuali è data dagli inconvenienti verificatisi di recente e per la necessità di assicurare l’incolumità dei tanti fedeli che tutta la giornata frequentano S. Brigida. L’usura del tempo e ultimamente la forza dei fulmini’ attratti specialmente dalla vicina Galleria Umberto I, hanno gravemente danneggiato la Cupola nella sua parte più alta e più originale: il lanternino tipico a chiocciola e la croce nella sua sommità, spezzandola, con pericolo per la zona circostante, tanto da far intervenire ripetutamente senza risultato, i Vigili del Fuoco. Ma è l’intera Cupola che ha bisogno di ristrutturazione, per le infiltrazioni che stanno verificandosi, con rischio di danneggiare l’opera meravigliosa di Luca Giordano che nel la seconda metà del l600 la affrescò completamente, per rappresentare la Gloria di S. Brigida e la Gloria di Maria. La richiesta insistente, presso il Ministero, dei Padri Leonardini è iniziata da qualche mese, quando si è verificata la caduta, per fortuna di notte, di calcinacci nella Cappella di S. Giovanni Leonardi e frammenti delle pitture della volta, gravemente danneggiata per vecchie infiltrazioni, che hanno lasciato un segno di degrado in una delle chiese più significative e belle del centro di Napoli. Luca Giordano, ventenne frequentatore, ne era particolarmente innamorato, qui lasciò altre sue opere e qui volle essere sepolto con i suoi familiari. I bisogni e le urgenze della chiesa sono tanti, speriamo che l’attuale emergenza economica passi presto, in modo da permettere non solo questo buon inizio, ma anche il prosieguo e il completamento del restauro generale della chiesa e delle preziose opere che la arricchiscono.
La seconda domenica di Quaresima è tradizionalmente la domenica della trasfigurazione di Gesù, ovvero il polo opposto alla prima, dedicata alle tentazioni di Gesù. Quest’anno leggiamo il racconto presente nel vangelo secondo Marco, e siccome abbiamo commentato ormai tantissime volte l’inesauribile mistero della trasfigurazione del Signore, ci prenderemo anche un po’ di libertà, per dire qualcosa su alcuni interventi critici riguardo al linguaggio e allo stile di papa Francesco.Ma iniziamo con il contestualizzare l’evento: un evento storico, non un mito! Al centro del vangelo Gesù ha fatto per la prima volta alla sua comunità l’annuncio della sua passione, morte e resurrezione ormai prossime, suscitando l’incomprensione da parte di Pietro (cf. Mc 8,31-33), e ha anche detto con forza alla folla che la sequela deve passare attraverso la croce (cf. Mc 8,31-37). Il discepolo di Gesù non può pensare di essere esente dalla croce, non può rifiutarla come scandalo e vergogna, perché, se si vergognerà di Gesù crocifisso, anche il Figlio dell’uomo si vergognerà di lui alla sua venuta gloriosa (cf. Mc 8,38). Venuta gloriosa che chiuderà la storia, ma della quale – annuncia Gesù stesso – alcuni potranno vedere un’anticipazione (cf. Mc 9,1).“Sei giorni dopo” queste parole, dunque nel settimo giorno, “Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni”, i discepoli a lui più vicini e intimi (testimoni della resurrezione della figlia di Giairo: cf. Mc 5,37; testimoni dell’agonia di Gesù, della sua de-figurazione nell’orto del Getsemani: cf. Mc 14,33), “e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli”. Ed ecco il grande mistero: Matteo scrive che “il suo volto brillò come il sole” (Mt 17,2), Luca che “l’aspetto del suo volto divenne altro” (Lc 9,29). Marco invece è molto discreto, ci dice solo che Gesù “fu trasfigurato (metemorphóte) davanti a loro”, per un’azione divina (espressa al passivo), e così “le sue vesti divennero splendenti, bianchissime, tanto che nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche”.Ciò che è avvenuto è indicibile, chi può descriverlo adeguatamente? Qui Marco, affinché il lettore comprenda la straordinarietà dell’evento, si serve di un’immagine efficace, espressa in modo semplice, in vernacolo, facendo uso di uno stile che ci può anche sorprendere. L’evangelista più antico parla un greco semplice, non padroneggia questa lingua in modo tale da renderla elegante, come invece fa Luca, e per questo si serve del paragone, appena citato, con il lavoro del lavandaio. Certamente i tre evangelisti sinottici, pur con le loro differenze di stile, non sapevano narrare la trasfigurazione di Gesù con la profondità teologica dei padri della chiesa greca, quando leggeranno questo bianco splendente come “energie increate” presenti nel corpo di Gesù, il Figlio di Dio. Tuttavia il messaggio di Marco ha la stessa qualità teologica degli altri due, e la teofania da lui presentata non risulta più povera o mancante.Evidenzio questo, pensando al modo di esprimersi di papa Francesco, criticato e spesso anche disprezzato perché a volte si esprime effettivamente in vernacolo, in modo da essere capito da tutti, servendosi di un linguaggio semplice, lontano dal dettato di una lezione teologica. Attenzione, dunque, e “chi ha orecchi per ascoltare, ascolti!” (Mc 4,9), come Gesù ha più volte ripetuto…Il bianco è la luce, è il colore del mondo celeste (cf. Dn 7,9), del cielo aperto, e niente sulla terra gli si avvicina. Anche gli angeli della resurrezione (cf. Mc 16,5 e par.; Gv 20,12) e quelli dell’ascensione al cielo, secondo l’iconografia tradizionale, sono vestiti di bianco. Insomma, luminosità straordinaria! Gesù appare dunque trasfigurato, e dal suo corpo emana luce, come la emanava il volto di Mosè (cf. Es 34,29-35), come la emana il Figlio dell’uomo nelle visioni apocalittiche di Giovanni (cf. Ap 1,12-16). Accanto a Gesù “apparve Elia con Mosè, e conversavano con Gesù”: la Profezia e la Legge, delle quali Gesù è interprete e compimento.Di fronte a tale “visione”, Pietro parla in modo inappropriato, balbetta, non sa cosa dire, se non che occorrerebbe fermare, arrestare quell’evento, renderlo definitivo. Così tutto sarebbe compiuto senza la passione e la croce… Ma questo “congelamento” dell’esperienza non è possibile, e infatti una nube luminosa copre tutti i presenti, mentre una voce proveniente da essa proclama: “Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!” (cf. Sal 2,7; Gen 22,2; Dt 18,15). Se al battesimo la voce del Padre era risuonata solo per Gesù (cf. Mc 1,11), qui invece la rivelazione è anche per i tre discepoli. E l’invito è quello decisivo per ogni discepolo di Gesù, di ogni tempo: occorre ascoltare lui, il Figlio, che è il Kýrios, il Signore! Ascoltare lui, non le proprie paure, non i propri desideri, non le proprie immagini e proiezioni su Dio. Sì, anche per vedere e ascoltare Dio (“Shema‘…”: Dt 6,4) ormai occorre vedere e ascoltare Gesù.E subito dopo nessuna luce, nessuna voce, nessuna presenza: solo Gesù con i tre discepoli, Gesù con loro come lo era stato sempre. Un uomo, un compagno che scende dal monte per compiere il suo cammino verso Gerusalemme, verso la morte che attende ogni giusto, ogni vero figlio di Dio.
Commento al Vangelo di Enzo Bianchi
Ha conseguito in questi giorni la licenza in Comunicazioni Sociali Istituzionali P. Esron Antony Samy presso la Pontificia Università della Santa Croce. La tesi diretta dal Prof. Juan Bautista Narbona Càrceles ha come titolo “Communicating the spirit and the identity of the religious Congregations on the digital Continent. A proposal to the Order of the Mother of God”. 20 febbraio 2015
Sarà vissuto dai giovani romani del Fai il prossimo 27 febbraio ore 19,00 a Campitelli l’evento “SeicentoinJazz”. Il Fai di Roma in collaborazione con l’Associazione La Cantoria inviterà i giovani in un viaggio straordinario tra le meraviglie del Barocco nel Convento di Santa Maria in Campitelli. La visita sarà accompagnata da intermezzi musicali Jezz.
20-02-15
Gesù è stato battezzato nel fiume Giordano da Giovanni, il suo maestro, e nell’uscire dall’acqua ha visto i cieli aprirsi, lo Spirito di Dio scendere su di lui con la dolcezza di una colomba (cf. Mc 1,9-10) e, soprattutto, ha sentito una dichiarazione rivolta a lui solo. Dal cielo, infatti, dal luogo dimora di Dio, lo raggiunge una voce che proclama: “Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho messo tutta la mia gioia” (Mc 1,11; cf. Sal 2,7; Gen 22,2; Is 42,1). È la voce del Padre, che gli conferma il proprio amore e la sua identità di Figlio amato; è la voce che lo abilita, con la forza dello Spirito, “compagno inseparabile di Cristo” (Basilio di Cesarea), alla missione pubblica tra i figli di Israele.Ma appena questo è avvenuto, “subito” (euthýs) lo Spirito disceso su di lui lo spinge dove i cieli non sono aperti, bensì chiusi; lo spinge nel deserto, dove è presente più che mai il diavolo, Satana, il tentatore, la cui missione è dividere e separare, soprattutto da Dio. Gesù entra così in una zona d’ombra, entra nella prova, perché il deserto è terra di prova, di tentazione. Lo era stato per Israele, “battezzato” e uscito dalle acque del mar Rosso; lo era stato per Mosè e per Elia; lo era stato per quanti erano andati nel deserto per preparare una strada al Signore (cf. Is 40,3), combattendo da “figli della luce” contro il demonio e la sua tenebra; lo era stato per Giovanni il Battista. Gesù dunque sta camminando sulle tracce lasciate dagli inviati di Dio, e in tal modo sa che deve prepararsi a quella che sarà la prova, la lotta quotidiana, fino alla morte.In quel deserto di Giuda, accanto al mar Morto, tra quelle rocce aride, Gesù “dimora quaranta giorni, continuamente tentato da Satana”. La sua è una lotta corpo a corpo, della quale nessuno è spettatore; è una lotta interiore attraverso la quale deve imparare l’obbedienza del Figlio – “imparò l’obbedienza dalle cose che patì” (Eb 5,8), legge con intelligenza l’autore della Lettera agli Ebrei – e vincere il tentatore che si oppone alla venuta del Regno nel modo in cui Dio lo vuole e che Gesù deve assumere e fare suo, fino a rivestirsene. Marco non ci dice nulla di preciso su queste tentazioni che gli altri evangelisti, in una sorta di midrash, racconteranno come lotta contro le tre libidines dell’eros, della ricchezza e del potere, insomma lotta contro una manifestazione mondana, prepotente e arrogante del Regno.L’evangelista più antico mette invece l’accento sul fatto che Gesù è costantemente tentato, per quaranta giorni, senza mai cedere a una visione trionfalistica della venuta del Regno. Pienamente sottomesso al Padre, creatura tra le creature non umane del deserto (rocce, pietre, arbusti, rettili, volatili, bestie selvagge), Gesù è in profonda comunione con tutta la creazione. È come collocato al centro di essa, è il vero Adamo come Dio l’ha voluto, capace di vivere riconciliato e in pace con tutte le creature e con tutta la terra. Gesù appare come l’uomo mite, armonioso, rappacificato con il cielo e la terra, così da inaugurare l’era messianica profetizzata da Isaia: “Il lupo dimorerà con l’agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto, il vitello e il leoncello pascoleranno insieme … Il leone si ciberà di paglia come il bue, il lattante si trastullerà sulla buca della vipera, il bambino metterà la mano nel covo del serpente velenoso” (Is 11,6-8). Sì, è il Regno messianico promesso da Dio a tutta la terra, che certamente è veniente. Gesù lo inaugura nel deserto, per questo subito dopo può proclamare: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio si è fatto vicino”.Ma occorre ricordare che questa “armonia” e questa “pace” sono a caro prezzo: il prezzo della kénosis, dello svuotamento e dell’abbassamento di colui che “era in condizione di Dio e svuotò se stesso (heautòn ekénosen)”, diventando uomo e spogliandosi delle sue prerogative divine, invece di tenerle gelosamente per se stesso e di considerarle un privilegio (cf. Fil 2,6-7). Proprio in questa profonda umiliazione, che è testimonianza della sua tentazione vera, reale (non un teatrino esemplare per noi!), Gesù fa pace tra cielo e terra, sicché le creature del cielo, gli angeli, nel deserto gli si accostano e lo servono. Lo riconoscono quale Dio nella carne di un uomo: Gesù da Nazaret, il figlio di Maria.Gesù, amato in pienezza dell’amore del Padre dichiaratogli nell’ora del battesimo e accompagnato dallo Spirito santo, è ormai operante quale vincitore su Satana, sul male, sulla malattia, sulla morte. È il Messia veniente che porta la vita; basta dunque seguirlo, accogliendo il suo invito pressante che riassume in sé tutto il vangelo appena iniziato: “Convertitevi e credete nel Vangelo!”.
Commento al Vangelo di Enzo Bianchi